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Realtà e finzione: le narrazioni di un Festival

Ho cominciato a frequentare il Festival a diciannove anni, nel 1977, quando ero un piccolo redattore della Rivista della Montagna. Che meraviglia: avrei pagato per immergermi una settimana intera nel buio elettrizzante del Teatro Sociale, e invece mi ci mandavano! Era l’apoteosi della scoperta, un’indigestione di cime, alpinisti e avventure senza limiti di lingua e geografia. Mi perdevo completamente dentro quello schermo quasi sempre acceso che ci portava più lontano del sogno.

Alla fine degli anni Settanta il mondo era già completamente cambiato, anche quello dell’alpinismo, ma a Trento si respirava ancora un’atmosfera d’altri tempi, un po’ provinciale, iniziatica e impenetrabile. I miti miei e degli altri spettatori si aggiravano silenziosamente in città, quasi di nascosto, li vedevi appena, ne percepivi la presenza. Tutti si conoscevano ma molti si davano del lei, ossequiosi, formali, e noi giovani avvertivamo la distanza generazionale. Il festival proponeva un grande spettacolo, ma era come se non si dovesse sapere al di fuori del recinto perché l’alpinismo e la montagna non andavano urlati, solo sussurrati. C’era ancora tanta deferenza verso i presunti “grandi” e il mistero si nutriva d’informazione sommaria. Giusto quella essenziale, se non eri del giro.

«Amo l’odore del napalm la mattina. Ha il profumo della vittoria» recitava negli stessi anni, negli altri cinema, il Colonnello Kilgore di Apocalypse now di Francis Ford Coppola, ispirandosi a Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Il film di Coppola poteva essere ambientato in Vietnam e ovunque. L’allegoria della giungla, la cavalcata wagneriana degli elicotteri, la follia di Bill Kilgore e le sfrontate fughe di guerra sulla tavola da surf parlavano una lingua universale. Il monologo di Walter Kurtz-Marlon Brando svelava al mondo occidentale il suo violento marchio di fabbrica e la patetica, inarrestabile volontà di potenza. Con linguaggio ipercontemporaneo il film colpiva due generazioni, e chi aveva meno di quarant’anni anni usciva dalla sala con il nodo allo stomaco, il napalm in gola e l’urlo dei rotori che picchiava in testa. Letta con gli occhiali di oggi la bolgia di Coppola era la nuova giungla economica dell’occidente, una profetica anticipazione dell’edonismo reaganiano degli anni Ottanta, e anche della successiva globalizzazione. Credevamo di essere alla fine del vecchio decennio e invece eravamo già scivolati in quello nuovo, ci eravamo già dentro fino al collo, e il mercato aveva ripreso il controllo sociale. Non c’era più spazio per l’utopia, il dialogo e la solidarietà. Comandava sfrontatamente il denaro, senza dubbi né vergogne. Comandava il privato. In tre anni successe tutto. Nel 1977 sbarcarono in Italia i televisori a colori e le serie televisive, e nel primo episodio di Happy days Richie ebbe un appuntamento con Mary Lou lasciando credere a Fonzie di essere andato Fino in fondo. Niente di straordinario, oggi succede mattina e sera su almeno venti canali digitali, ma Richie e Fonzie erano dei miti controrivoluzionari perché arrivavano alla fine del decennio più duro e impegnato della storia italiana. Le serie americane sdoganavano una nuova scala di priorità, somministrando allo spettatore distrazioni, spot e disincanto.

Il Festival della Montagna di Trento sembrava immune da questi sconvolgimenti, al riparo dagli spifferi esterni della società, difeso e protetto nel suo rifugio gentilmente dissimulatore, riparato da quel buio silenzioso e denso che aleggiava nel Teatro Sociale dove solo i film avevano diritto di parola. Era il cinema a comandare su tutto e non si parlava ancora di ecologia, riscaldamento climatico, difesa dell’ambiente; oltre all’etnografia montana e alla diffusa retorica del “lassù gli ultimi”, esistevano solo i film di alpinismo e arrampicata, che allora corrispondevano a un concetto unico e, quasi sempre, alla “conquista” di una cima – i termini bellici imperavano – e a un viaggio alpino o himalayano. Credo di aver visto almeno cento marce di avvicinamento all’Everest e ad altri ottomila, con portatori e tende, tra piedi nudi e scarponi, del tutto simili nelle immagini e nei commenti, sempre in cerca di una vetta liberatrice. Qualche volta le spedizioni finivano in tragedia, ma anche quando non si verificava la tragedia i registi se la inventavano con qualche suspense e aleggiava sempre l’ombra del dramma sullo sfondo, perché l’alpinismo era una liturgia dura, pura e sacrificale.

Per questo, quando sbarcavano a Trento dei film speciali come Solo di Mike Hoover o Die Wand di Lothar Brandler, quei film facevano scalpore perché ci dicevano che in montagna ci si poteva anche divertire, che era lecito scherzarci sopra e soprattutto era possibile fallire e tornare indietro da una scalata e raccontarlo ai propri simili con la forza delle immagini, un buon dialogo e una giusta sceneggiatura, senza il timore di passare per dei miserabili vigliacchi. Al contrario, capimmo che il “fallimento” poteva essere più interessante del successo perché era vero. Fu questa la rivoluzione dell’alpinismo e dell’arrampicata sul ventoso spartiacque tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, che inevitabilmente cambiò anche il Trento Film Festival, le sue pellicole e i suoi protagonisti. E noi cronisti, è ovvio.

A dire la verità ci fu un film che anticipò la percezione del cambiamento: El Capitan di Fred Padula. Lito Tejada Flores, Gary Colliver, Richard McCracken e Glen Denny, che aveva girato la maggior parte delle immagini, incrociavano le fantastiche scene di arrampicata con dialoghi da noi mai sentiti in parete, forse neanche immaginati. Sul muro più alto della valle di Yosemite andava in scena la reinvenzione della scalata, del tutto scevra dai condizionamenti eroici nostrani, tanto ineccepibile professionalmente quanto spontanea, ispirata e poetica. Tutti andammo a dormire con in testa quella luna più grande dello stesso Capitan e quegli scalatori piccolissimi, vigorosi e antiretorici. In una parola, nuovi. Capimmo che il futuro dell’alpinismo (si chiamava ancora così) e del cinema di montagna era smisurato.

Il direttore che prima e più di tutti raccolse la sfida del cambiamento fu Emanuele Cassarà, brillante e incontenibile giornalista di Tuttosport. A metà degli anni Ottanta, Cassarà fu l’ideatore e il promotore con Mellano e Bernardi delle prime gare di arrampicata a Bardonecchia e portò a Trento la stessa carica eversiva, intenzionato a seppellire i vecchi miti e a fare chiarezza su tutto, sezionando ogni contenuto ed esponendolo alle luci della ribalta. Da direttore della nuovissima e sbrigliata rivista Alp gli fui numerose volte complice, imbastendo dibattiti infuocati e atipici, coinvolgendo personaggi poco allineati come Ambrogio Fogar, il conduttore della trasmissione Jonathan, che fino a quel momento erano stati ritenuti estranei al cenacolo alpinistico e invece portarono sguardi e parole nuove e dimostrarono che non eravamo un’élite impenetrabile. Furono gli anni del dibattito e del confronto continuo – con almeno un decennio di ritardo sulla società –, le stagioni dei grandi reportage, delle grandi inchieste e della mutazione radicale delle immagini; fu il tempo in cui tutto moriva e rinasceva in forme inedite, a cominciare dagli abiti degli scalatori e dai loro exploit fantascientifici, liberati dagli antichi tabù, frutto di allenamento metodico e di una visione laica della montagna e sportiva dell’alpinismo. Nonostante alcune diversità di vedute, condivisi con Cassarà l’idea di fondo: dovevamo imparare a scrivere, filmare e raccontare le avventure come si sarebbe fatto con una riunione politica, un matrimonio, una partita di calcio, la lite di condominio. Era ora di anteporre la capacità narrativa alla retorica di genere. Pensare al lettore e allo spettatore, non all’autore o al regista: sarà contento? Non lo sarà? Privilegiare la forza espressiva. Rinunciare al sacerdozio dell’informazione. Lavorare per farsi capire da tutti, compresi quelli che non conoscevano la montagna e ne ignoravano i segreti.

La trasformazione del cinema di settore non è stata da meno del giornalismo di genere. Penso a film come Cumbre di Fulvio Mariani, girato sul Cerro Torre, che in meno di quaranta minuti, seguendo la gioiosa corsa solitaria di Marco Pedrini sulla via del Compressore, ci restituì tutta quella leggerezza e quella poesia che avevamo perso in decenni di alpinismo disumano; penso al lungometraggio Cinque giorni un’estate del maestro Fred Zinnemann, il più fortunato incontro tra la montagna e il cinema, dove un ispirato Sean Connery scala le pareti ghiacciate del Bernina senza improvvisare un solo gesto tecnico, impeccabile; o ancora, su una via intermedia, penso al coraggioso La face de l’Ogre di Bernard Gireaudeau, sulle pene di una donna legata a un grande alpinista, tratto dal racconto di Simone Desmaison, la moglie di René.

Presto si passò dal buio misterioso e iniziatico del Teatro Sociale agli spazi aperti e collettivi del Santa Chiara, dove tutti – i famosi e i non – si incontravano al campo base nell’ora di pranzo: veniva meno il distacco generazionale e si smorzava quello tecnico alpinistico, favorendo lo scambio amichevole e disincantato. Il festival diventò una festa in città: la festa di primavera.

Negli anni Novanta, il nuovo direttore Toni Cembran si concentrò sull’aspetto culturale che avrebbe dovuto fare da cornice alla rassegna cinematografica. Nel 1998 commissionò a Pietro Crivellaro e a me, in quanto storici dell’alpinismo e giornalisti a loro agio in varie discipline espressive, la prima grande serata multimediale del Film Festival. S’intitolava “Sognando la Patagonia: storie di uomini e montagne alle fine del mondo”. Fu un’esperienza intensa, molto impegnativa, perché provammo ad affiancare – oggi direi con successo – il grande cinema a quello specializzato, la grande letteratura a quella alpinistica, la musica alle immagini, le parole ai suoni, e portammo in sala i protagonisti dell’alpinismo patagonico, tra cui Cesare Maestri e Casimiro Ferrari. Erano tutti senza parole, completamente presi dall’atmosfera della pampa che si creò al Santa Chiara, appesi visivamente ed emotivamente agli scudi di granito del Cerro Torre e del Fitz Roy, sospesi tra la fascinazione e il mistero. La nostra era una formula ambiziosa e complessa, ma ci permise di portare la Patagonia a Trento per una sera. Una vera magia.

Una quindicina di anni dopo scrissi con Maurizio Nichetti la serata dedicata ai 150 anni del Club Alpino Italiano e trovai un Festival e un pubblico di nuovo assai cambiati. Un po’ li aveva cambiati lo stesso Nichetti, che da uomo di cinema e anche da appassionato di montagna, guardava molto più all’aspetto sociale dell’alpinismo che ai grandi exploit. Di fatto anche la nostra serata fu una storia sociale del Club Alpino, totalmente mischiata, “contaminata” avrebbe detto qualcuno, con la storia d’Italia dall’Unità a oggi. Scegliemmo le canzoni che segnavano le varie epoche e gli eventi che le definivano, incrociandoli con l’evoluzione dell’andare in montagna. Fu una serata allegra e demistificatrice, che piacque alla platea vasta e forse deluse i seguaci degli exploit, ma non era un problema perché ormai al Festival c’era spazio per tutti e tutti avevano un po’ di quello che cercavano, compresi i loro miti sempre meno mitici e più avvicinabili di una volta. Dal Centro Santa Chiara il Festival usciva per le strade e le piazze, coinvolgendo la città in una kermesse culturale e ricreativa tenuta insieme dalla montagna.

Finalmente nel 2016 sono ritornato a Trento solo per guardare i film in concorso. Uno per uno, da bravo giornalista, come quando avevo vent’anni e da inviato della Rivista della Montagna mi annegavo per una settimana nello schermo, scalando pareti vicine e lontane, sognando e soffrendo con i miei eroi. Ma a quel tempo ignoravo che non erano le imprese a far battere il mio cuore, bensì i loro racconti, e non sapevo ancora che la storia dell’alpinismo è una straordinaria narrazione, la ripetizione infinita di un racconto codificato, più o meno come l’epopea cinematografica del Far West oppure come quei polizieschi in cui succedono sempre le stesse cose ma stai comunque inchiodato per vedere come va a finire. E ogni volta ci ricaschi perché è bello fingere che sia vero, che assomigli alla vita. I frequentatori assidui del Festival lo sanno molto bene, perché anche il racconto d’alpinismo funziona così: comincia sempre con un progetto e una sfida, poi vengono le difficoltà, gli imprevisti, a volte il dramma, e infine la liberazione. Con o senza vetta, poco conta, ormai. Non è indispensabile arrivare in cima, ma bisogna perdersi per ritrovarsi. Bisogna affrontare la parete, o il viaggio, giocarsela e tornare a casa. È proprio il ripetersi dello schema narrativo a farci emozionare, perché ricalca il gioco e lo schema del romanzo classico: si entra nei sogni e nelle storie dei protagonisti e ci si smarrisce nei loro guai, aspettando appassionatamente di salvarsi con loro.

Il film d’alpinismo è narrazione, ripetizione e metafora di vita. Senza la narrazione esisterebbero le scalate, non i sentimenti. Le emozioni sarebbero riserva dei pochi che le hanno vissute, e anche loro si sentirebbero incompresi e soli senza un pubblico. Per questo l’alpinismo è un immenso e ossessivo groviglio di racconti, come se la penna, la cinepresa o la camera digitale contassero più della piccozza. A dispetto di chi vorrebbe farne una disciplina quasi scientifica per documentare la “verità”, l’alpinismo è da sempre narrazione e finzione, fin dal giorno in cui è stato inventato. Individuata la sceneggiatura, ogni alpinista ripete con passione la medesima storia, che non è quella dell’ultima scalata ma quella della sua vita.

Henri Beraldi, il grande bibliofilo francese, sosteneva che un alpinista esiste veramente solo se scrive, oltre ad arrampicare. O se filma e riprende se stesso con l’obiettivo, aggiungo io. In assenza di regole e testimoni (l’alpinismo è fondato su regole non scritte e mutevoli secondo la cultura del tempo), l’unica certificazione della scalata sta nella sua narrazione. E così, tornando finalmente a Trento a vedere una rassegna completa di film del terzo millennio, ho trovato del cinema di ottima qualità dal punto di vista tecnico. C’erano buoni film e buoni autori, talvolta impeccabili, quasi perfetti, ma, forse ancora più di una volta, difettavano le storie e le sceneggiature. Ormai si arrampicava in diretta con la GoPro sul casco e il drone sulla testa, la finzione era sempre più esplicita. Quasi oscena. Tutto era mostrato e si era sempre più nudi davanti alla videocamera. Si soffriva e gioiva pubblicamente, si moriva nudi e nudi ci si salvava, tutti allo stesso modo, senza pudore. Era l’ambigua democrazia del digitale.

Alla fine della mia immersione cinematografica, senza rimpiangere i brutti film di una volta, frutto di molti stereotipi e poca professionalità, ho pensato che la perfezione sia un’arma a doppio taglio e possa essere molto pericolosa. Siamo scivolati in un’epoca in cui ci si può fotografare e filmare con la leggerezza di un respiro, senza dire niente. Il racconto è diventato determinante e lo sarà sempre di più. Proprio perché possiamo vedere tutto e tutto ci è svelato, abbiamo un bisogno quasi vitale di ritrovare il senso e la narrazione di quello che facciamo, e anche di quello che vediamo. Per sciogliere qualche mistero, per emozionarci davvero, ci servono più che mai le ombre, i chiaroscuri, le pieghe nascoste e imperfette, perché troppa luce acceca e alla fine non si vede più niente. Sarà questo il Festival di domani?