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Il gioco dell’inverno. Dalla corsa agli ski al cambiamento climatico

Lo sci alpino è la conseguenza di due passaggi culturali che ebbero l’effetto di due rivoluzioni.

Il primo passo è la “scoperta” dell’inverno, storicamente la stagione morta dei montanari, tempo della resistenza e dell’attesa, finché il turismo non rovescia il paradigma.

L’invenzione viene da Sankt-Moritz, che all’inizio dell’Ottocento è solo un piccolo villaggio. Nell’inverno 1864-1965 l’albergatore Johannes Badrutt lancia la provocazione della neve a un gruppetto di turisti inglesi, invitandoli a soggiornare nei mesi freddi (dietro garanzia di rimborso, in caso di maltempo). I villeggianti scoprono che la cattiva stagione può essere buona, in montagna, perché il cielo è più limpido e con una coperta si può prendere il sole in terrazza senza mosche. La sera, poi, non c’è niente di più provocante del contrasto tra la neve soffiata dal vento e le curve delle signore in abito lungo, quando i ceppi bruciano nelle stufe, ci si scalda con il vin brulé e si danza a braccia scoperte.

Nasce una moda, o una fascinazione, e per alzare la posta qualcuno prova a slittare sui campi di neve farinosa, la versione alpina dello zucchero filato. Ed ecco la seconda invenzione: il pendio. Più che una novità, è il rovesciamento di un punto di vista. Il pendio aveva sempre richiesto sudore e sangue ai montanari, inchiodandoli a una vita precaria, ma rovesciando la prospettiva e improvvisando dei mezzi di risalita – la carrozza a cavallo, la fune, infine il motore –, con una specie di rivoluzione copernicana la pendenza diventa un gioco. Lo sci non è ancora arrivato, ma il teatro è pronto alla messa in scena.

Arriva in Italia nel 1896, con l’ingegnere svizzero Adolfo Kind, che lo considera una malia fondata sul contagio e intraprende un’azione di apostolato che in poche stagioni, a cavallo del nuovo secolo, introduce il diabolico attrezzo nei salotti subalpini, predicando l’eleganza del gesto e l’ebbrezza della velocità. «La prima lezione – racconta Ettore Santi – la diede Kind nel suo salotto di Torino…»

Straordinario è il mezzo e straordinaria è la rapidità con la quale conquista gli austeri figli del Club Alpino Italiano, che evidentemente tanto austeri non erano. Qualche conservatore come Guido Rey continua a usare imperterrito le racchette da neve, ma a chi non teme le novità lo sci fornisce due risposte ad altrettanti bisogni: ufficialmente li aiuta a raggiungere e salire le montagne d’inverno; inconsciamente li libera dal fardello della vetta e consente di giocare sui campi di neve, provando a volare come gli uccelli. I gesti infantili che in parete possono costare la vita, sugli sci diventano gioco, ebbrezza e liberazione.

Eppure la grande storia deve ancora cominciare, dato che lo sci di inizio secolo è solo uno sport elitario e un po’ bislacco, ancora imparentato con l’alpinismo e la “religione” della montagna. Bisogna aspettare il Ventennio perché la propaganda fascista e le città della neve (Sestriere, Cervinia) ne facciano uno svago popolare, e il secondo dopoguerra perché diventi davvero uno sport di massa. La grande trasformazione – di cultura, costume, stile – avviene tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento, quando lo sci e gli sport invernali colonizzano intere vallate, trasformandole in colorate appendici urbane.

L’impatto è evidente – pascoli ridotti a impianti sportivi, colate di cemento nelle conche, tante strade, parcheggi, seconde case –, ma come sempre è preceduto da un salto culturale che si riassume in tre simboli: il motore, la fune e l’arena; in altre parole: automobili, funivie e piste battute. Sono concetti sconosciuti alla vecchia cultura alpina fondata sul risparmio; ribaltando una tradizione quanto meno millenaria, introducono in quota gli stessi modelli smaniosi e illimitati del consumismo di pianura, senza curarsi delle conseguenze ecologiche e antropologiche. Dopo il latte, la neve è il nuovo “oro bianco” della montagna, e sembra un dono così gratuito ed “eterno” da indurre buona parte dei valligiani a trasformarsi in albergatori, addetti agli impianti, maestri di sci, e gli imprenditori a investire senza esitazione nel business della discesa e nel variegato indotto: attrezzi, abbigliamento tecnico, impianti a fune e soprattutto cemento. Perché il vero affare è la speculazione edilizia.

Lo sci sembra una pratica fondata sull’equilibrio del corpo e l’amore per la neve, ma in realtà e un’industria affamata di continue iniezioni di denaro, e come ogni modello industriale non conosce il verbo rallentare. Eppure, negli anni del boom, c’è ancora una relazione tra lo sci e la neve: il bravo sciatore deve conoscerla e rispettarla. La montagna non è ancora completamente esautorata dai giochi, come un vuoto palcoscenico. La sapienza montanara fa ancora la differenza, e indubbiamente lo sci porta molti soldi e permette ai valligiani di restare, anche se crea una pericolosa dipendenza dalla monocultura degli sport invernali.

Per alcuni decenni i lauti profitti nascondono le criticità di un meccanismo troppo pesante per un territorio fragile, ma con il nuovo millennio il riscaldamento climatico, la concorrenza delle mete esotiche i crescenti costi dell’energia mettono a nudo le contraddizioni. Oggi è cambiato tutto. Lo sci di massa è ormai una pratica sintetica a tutti gli effetti, anche se la promozione turistica insiste ad ambientarla tra candide vette e immacolati versanti. Lo sci è un’industria sempre più complessa, che deve funzionare ovunque e in qualunque condizione climatica, a Dubai come sulle Alpi, anche su nastri posticci che sembrano strisce di carta igienica. Si chiama neve programmata ed è il principale adattamento individuato dagli imprenditori del settore per rispondere al riscaldamento climatico, con il sostegno di ingenti finanziamenti pubblici. Oggi tutti sciano sul facile, gli sci girano da soli sulle autostrade di neve artificiale e sempre più fradicia, per via delle alte temperature, e anche se il cielo regala un po’ di neve vera si privilegia paradossalmente quella dei cannoni. Il rapporto tra lo sci e l’ambiente si è così affievolito che le recenti olimpiadi cinesi si sono davvero svolte in una periferia metropolitana.

Ormai esistono almeno due turismi di montagna: l’industriale (di massa) e l’altro, o gli altri, fondati sulle pratiche dolci e integrate. La differenza si misura nell’impatto ambientale e nella sostenibilità economica. I due turismi convivono ma non si parlano: non per antipatia, ma perché rispondono a modelli di mercato troppo distanti. Da un lato si continua a forzare e nascondere l’evidenza, come se il clima e le priorità non fossero cambiati; dall’altro si cerca di adattarsi, cambiare e guardare avanti.

Ma non scivoliamo nel moralismo: lo sci industriale non è perverso di per sé. Come osservano Maurizio Dematteis e Michele Nardelli nel libro-dossier “Inverno liquido” (Derive Approdi, 2022), lo sci di massa è un paziente affetto da bulimia: «Ne verrebbe l’urgenza di cambiare, ma né le comunità umane, né le loro classi dirigenti sembrano all’altezza di invertire la rotta. Se non ne saremo capaci, le nostre montagne, i nostri mari, le nostre città sono destinate a diventare le macerie di una civiltà estinta per mancanza di senso del limite». Siamo molto più bravi a correre che a rallentare. Questo è il problema.