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Al cospetto dell’Orco

Se uno scenografo dovesse creare la parete del brivido per la platea più eccitata e morbosa del mondo probabilmente penserebbe a un’alta montagna di roccia ferita da una frana triste e grande come un’occhiaia ciclopica. Forse immaginerebbe due chilometri verticali di calcari martoriati dalle frane e dalle valanghe, li girerebbe a settentrione dove non batte il sole e per rafforzare il contrasto scenico inscenerebbe un trenino nella pancia della montagna, tipo antro delle streghe, e dei dolci prati alla base del muro di roccia, in modo che il paradiso dei turisti sbatta contro l’ossessione degli alpinisti. In pratica disegnerebbe la parete nord dell’Eiger, l’Orco dell’Oberland bernese.
Treno su treno, emozione su emozione, alla fine della prima guerra mondiale i turisti avvicinano l’Orco e i suoi misteri. Negli anni Trenta scoprono che l’Eigerwand, la Nord per eccellenza, è viva non solo per le valanghe e le scariche di sassi che la percorrono sollevando nuvole di polvere ed esclamazioni di orrore, o perché fa battere il cuore dei turisti quando si affacciano nel vuoto dalla finestra della galleria. La parete pulsa di vita dal giorno in cui qualche visionario ha immaginato una via di salita. Ah gli alpinisti! Spinti dalla passione giovanile e dal lugubre fascino del muro nero, incoraggiati dalla cultura del rischio, dal mito del coraggio e dalla diffusa atmosfera di esaltazione nazionalistica, i figli del Reich si stanno per avventurare sull’Eiger come in un viaggio d’iniziazione: la Fessura difficile, i tre nevai, il Ferro da stiro, il Bivacco della morte, il Ragno bianco, la traversata degli Dei…
I tentativi si succedono nei primi anni Trenta, quando la parete comincia a far parlare di sé. Il macabro interesse degli spettatori si accende nel 1935 dopo la morte dei bavaresi Sedlmayr e Mehringer, due ragazzi gentili che per guadagnarsi l’ospitalità alla baita di Alpiglen hanno scambiato un piatto di minestra calda con il taglio della legna, facendosi amare dai contadini. Disgraziatamente i bavaresi sono così forti e determinati che, prima di scomparire dalle lenti dei cannocchiali, hanno già raggiunto un’altezza eccezionale a quasi due terzi di parete, dimostrando che la muraglia è scalabile e aprendo la strada ai nuovi avventurieri. Nel 1936 la costernazione e l’orrore valicano il confine svizzero e l’Eiger diventa “la montagna assassina”. È dalla tragedia del Cervino del 1865 che la storia dell’alpinismo non concepisce una sequenza di fatti così cupa e narrativamente perfetta, rispondente alla trama di un romanzo. Ma la realtà supera la fantasia, perché a differenza del Cervino i drammi dell’Eigerwand si consumano in diretta sotto gli occhi del mondo. Il pubblico si contende da mattina a sera i cannocchiali puntati in parete e i giornali informano quotidianamente i lettori: «Partiti all’alba, salgono veloci, no!, un imprevisto rallenta la cordata, il tempo si guasta, scendono?, ci sono dei feriti?, situazione ormai disperata…». L’Eiger tira più di ogni altra impresa perché – scrivono i cronisti dell’epoca – lassù «la morte arrampica accanto agli scalatori».
Gli sventurati del 1936 sono gli austriaci Edi Rainer e Willy Angerer e i tedeschi Toni Kurz e Andreas Hinterstoisser. Si incontrano sui prati del campo base e sono destinati ad arrampicare insieme. In quattro non fanno cent’anni, ma hanno esperienza e coraggio da vendere. Il geniale Hinterstoisser sale sotto gli strapiombi, pianta un chiodo, fissa la corda, si appende e con un pendolo traghetta le cordate sulla zona ghiacciata di metà parete. I ragazzi si sentono sicuri e sfilano la fune, precludendosi la via del ritorno. Il secondo giorno arriva il brutto tempo, bivaccano, all’alba del terzo giorno Hinterstoisser e Kurz provano a scalare sotto la nevicata, poi rinunciano e preparano la ritirata. I cronisti dell’Echo von Grindelwald già preparano l’edizione dell’indomani: «Fallito l’attacco alla Nord dell’Eiger. I quattro alpinisti arriveranno alla Kleine Scheidegg verso sera, salvo complicazioni».
La situazione è seria ma non disperata, soprattutto perché non lontano dalla traversata a pendolo si apre la finestra della ferrovia. La finestra in parete è uno dei punti forti della messa in scena: gli scalatori sanno che in caso di bisogno possono salvarsi sgusciando nella galleria. L’elemento paradossale dell’Eigerwand è proprio questa vicinanza tra natura selvaggia e civiltà, la consapevolezza che aprendo una porta si possa passare dall’inferno alla salvezza. Molti sventurati troveranno rifugio nella pancia della montagna, come una madre compassionevole che si riprenda i suoi figli, e così pensa anche il controllore della ferrovia Albert von Allmen quando si affaccia alla finestra a gridare. I quattro ragazzi sono vicini e stanno bene. Così von Allmen torna in galleria a scaldare un tè, e non arriva nessuno, allora Albert urla di nuovo e gli risponde solo Toni Kurz, l’unico sopravvissuto.
Il povero Toni muore di sfinimento alle undici e trenta del 22 luglio 1936, a due spanne dai soccorritori. Il suo corpo resta grottescamente penzolante sull’immensa parete e ne diventa l’icona tragica. L’immagine raggelante del giovane alpinista senza vita tappezza le copertine e le cronache dei giornali di lingua tedesca, condita da sdegnate proteste e ipocriti commenti. Qualcuno propone di vietare l’accesso alla “mangiatrice di uomini”, qualcun altro pensa a come guadagnarci su. L’Eiger è ormai una questione internazionale, ma di un solo colore. Come non era mai successo nella storia delle montagne, la Nordwand divide ideologicamente gli alpinisti, anche se loro non lo sanno e si dichiarano estranei a ogni ideologia. L’Eiger attrae i ragazzi che hanno perso la libertà politica, ma non quella di scalare e rischiare. La parete è il gran riscatto per i figli dei regimi e lascia indifferenti gli altri.
Anche gli italiani ne sono affascinati e stregati. Dopo le rinunce dei fortissimi Cassin e Gervasutti, nel 1957 le cronache registrano l’orribile morte di Stefano Longhi e il miracoloso soccorso di Claudio Corti, così passa molto tempo prima che una lunga cordata scali la parete parlando piemontese, lombardo e trentino. Nell’agosto del 1962 è gara aperta tra i sei pretendenti, che alla fine decidono di unire le forze. Incontrandosi sotto il secondo nevaio si guardano negli occhi, si piacciono e continuano insieme, in un’unica cordata. Arrampicano di notte e nelle ore fredde del mattino, quando le scariche di sassi sono bloccate dal gelo, salendo lenti come formichine. Rappresentano l’Italia degli operai e degli artigiani, nessun professionista della roccia, solo ambizioni fatte a mano. Il più famoso è il roveretano Armando Aste, che all’accusa che gli italiani siano andati a “pascolare” sull’Eiger risponde che «è meglio pascolare su una parete piuttosto che farlo sporcando momenti ben più importanti dell’avventura umana». Meglio pascolare che morire.
Così finisce la stagione degli eroi, la politica si allontana dalla montagna e l’Eiger torna a essere quello che è: una sfida alpinistica. La prima salita a volo di farfalla è firmata da una guida molto capace e sicura di sé: il vallesano Michel Darbellay. C’è in palio la prima solitaria della grande parete, impresa assai rischiosa che ha già fatto tre morti. Anche Walter Bonatti è appena tornato indietro. Darbellay comincia la scalata prima dell’alba del 2 agosto 1963, forte di un precedente tentativo. Si sente tranquillo e porta uno zaino con poche cose, sperando addirittura di uscire in vetta in giornata. Non ci riesce per un soffio, ma alle 8 del mattino successivo ha la Nordwand sotto i piedi. Tutti plaudono la sua leggerezza di tecnica e spirito. Così comincia l’escalation della velocità, anche se l’Eiger è sempre una parete di notevole rispetto. Il progresso culmina il 14 agosto 1974, quando due alpinisti eccezionali – Peter Habeler e Reinhold Messner – tentano la ripetizione in stile leggero. Anche se non sono venuti per fare il record hanno memorizzato coscienziosamente i passaggi e li superano con un’accelerazione del tempo. Arrivati in cima guardano l’ora e si stupiscono di loro stessi: sono passate appena dieci ore da quando hanno cominciato la scalata. Negli stessi giorni Clint Eastwood gira in parete “Assassinio sull’Eiger”, il film giallo tratto da “Il castigo dell’Eiger” di Trevanian. Nelle scene finali Eastwood porta la pistola nello zaino per difendersi da un sicario, ma alla fine, come al solito, ci pensa la parete.
Nel nuovo decennio l’alpinismo diventa uno sport e l’Eiger un terreno di gara per i campioni del momento: i francesi Cristophe Profit ed Eric Escoffier. Negli anni Ottanta i record si sbriciolano uno dopo l’altro; i nuovi alpinisti sono atleti eccezionali e corrono anche in verticale. Ma bisogna attendere il nuovo millennio per assistere alla definitiva sconsacrazione del mito, anche perché l’Eiger nel frattempo ha subito gli attacchi del riscaldamento climatico ed è sempre più pericoloso nella stagione secca. Adesso i pretendenti preferiscono l’inverno e la primavera, quando il gelo blocca le cadute dei sassi in parete. Lo svizzero Ueli Steck la conosce così bene da portarci la moglie Nicole come regalo di compleanno, poi torna di corsa e senza compagni, in ogni stagione, fino a trovare la perfetta sintonia. Nell’inverno del 2008 è pronto a tentare il record:
«Faccio partire i due cronometri. Pronti, via! Questa volta non c’è traccia e battere la pista è faticoso, sulla parte bassa trovo molta neve e ogni tanto affondo… Do tutto e quando arrivo alla Fessura Difficile guardo l’orologio: ho impiegato ben 39 minuti dall’attacco, dieci in più dello scorso anno…»
Piano piano, ma sempre correndo, Steck recupera il tempo perso in basso. Nella seconda metà della scalata sfrutta la coesione della neve trasformata. Conosce a memoria i passaggi difficili e li esegue come un acrobata navigato, ripetendo i movimenti impressi nella memoria. Le ore spese a provare e riprovare gli vengono restituite in forma di minuti. Dopo le fessure terminali sfoga la potenza dell’atleta:
«Corro sulla cresta. È affilata, ma dopo la pendenza della parete sembra pianeggiante. Pieno di gioia mi avvicino alla vetta. I ramponi emettono quel rumore tipico, quasi uno stridore. Piegato in avanti faccio gli ultimi passi verso il traguardo e fermo il cronometro. Mi piego e cerco di riprendere fiato: sono pur sempre a 3970 metri». Il tempo di Steck si è fermato a due ore, quarantasette minuti e trentatré secondi.