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Onde

Chi lo fa per amore, chi per desiderio, chi per narcisismo, chi per sentirsi giovane. Io lo faccio per noia, solo fottutissima noia.
La ragione è che non ne posso più di scendere le autostrade di neve. Un giorno dalla seggiovia guardo i puntini che disegnano la stessa traccia con gli stessi sci e lo stesso lasciapassare sullo stesso identico monotono piatto insulso tappeto di neve da cannone e trabocco di noia. «Sono così anch’io?», mi chiedo fissando gli scarponi di plastica lattescente, e piuttosto di fare il puntino torno indietro con la seggiovia. Fuori pista non posso andare perché ci sono i sassi: i puntini sciano sulla striscia di carta igienica.
Non so niente del surf da neve. Neanche il nome, infatti non si chiama così. Mi documento, leggo storie, trovo qualche commento esaltato e qualcuno poetico e scopro che il mondo della discesa è diviso in due come quello della scalata. La gente come me ha cominciato a sciare con gli sci, due e distinti, ispirandosi all’eleganza dei vecchi maestri, invece i più giovani imparano direttamente sulla tavola, sorprendente metafora del nuovo pensiero. La tecnica dello sci deriva da una concezione lineare, classica, cartesiana, mentre lo snowboard s’ispira a un pensare obliquo e laterale, postmoderno, che ha un corrispettivo urbano nello skateboard. Le due filosofie non si parlano, sono mondi separati.
All’inizio lo chiamavamo surf, effettivamente, e lo consideravamo lo sport dei pazzi d’oltreoceano. Capelli lunghi, faccia abbronzata, brache larghe e cervello allentato. La filosofia della tavola veniva dall’America ed era molto diversa dalle tavole sempre apparecchiate di casa nostra. Il surf arrivava dalle nevi e dagli sciatori anarchici degli Stati Uniti, anche se nessuno conosceva l’inventore, e saliva dal mare, dove era nato in altre sembianze per cavalcare le creste delle onde. Il senso originario era appunto solcare le onde di neve, scivolando di bolina su un pezzo di legno incurvato. Non sciare, ma navigare. Gli sciatori scendono e i surfisti navigano, solcano, galleggiano. Sciare e navigare sono due parole diverse, e le parole sono importanti. Se fossi stato attento alle parole!
Lo snowboard arriva sulle Alpi negli anni Ottanta, espugnando un nocciolo di curiosi e di coraggiosi. Il popolo delle piste li guarda ghignando come si guardano i circensi e i numeri da circo. L’attrezzo piatto non si arrende e cerca faticosamente di conquistare il mercato europeo, di guadagnare immagine e fiducia, quindi inciampa, barcolla, si rialza e finalmente decolla negli anni Novanta, adattandosi al pubblico di quaggiù. Il surf di noialtri elabora un pensiero facile, che è la pratica sulle piste battute, demone e spauracchio degli sciatori tradizionali, e coltiva un pensiero complesso che è la navigazione sui campi di neve intonsa, che una volta si chiamava «vergine» in onore del maschilismo alpino. È su quella neve che il surfista che ha rinunciato a essere un macho disegna tracce e inventa attraversamenti.
L’attrezzo è concepito per veleggiare negli spazi aperti, dicono gli adoratori della buona tavola. Serve a navigare i mari di neve fresca, non a grattugiare le piste. Attratto dalla filosofia decido di sperimentare il nuovo linguaggio. Ci arrivo per caso, come succede per le cose importanti della vita. Basta non dire di no. Una domenica di febbraio salgo a Prali in Val Germanasca, che è il vecchio rifugio del valdesi dove i montanari dalla testa dura hanno mantenuto un comprensorio a misura d’uomo e di portafoglio. A Prali si scia bene e si spende poco. A Prali c’è una di quelle seggiovie di una volta che parti giovane e arrivi vecchio, però almeno hai il tempo per pensare. Anche dalla seggiovia vetusta di Prali si vedono i puntini che disegnano la pista di sci, ma oggi non si vedono perché è salita la nebbia. In cima alla seggiovia c’è un bar un po’ triste come tutti i bar degli sciatori, vicino al bar ci sono i cartelli delle piste battute e oltre i cartelli c’è la mia trappola.
«Allora vuoi provare?» dice Andrea.
«Sono venuto per provare, no?»
«Allora buttati, socio.»
Per provare per prima cosa bisogna inchiodarsi alla tavola, ed è già un passaggio difficile. Gli sci te li metti ridendo, li domini, invece la tavola ti cattura e sei in balia. Servo patetico e obbediente. Cerchiamo un posto in piano, lontano dagli sguardi indiscreti. Facendo la faccia dell’esperto scambio gli sci con la tavola di Andrea Giorda, vecchio compagno d’avventure, che si prende anche i bastoncini lasciandomi solo e imbullonato all’attrezzo. Lui scende scodinzolando e io sono un cane di marmo. Scultura ingloriosa.
Si è messo a nevicare e viene giù cattiva, di traverso, come quando ti sale la voglia di essere a casa. Tra un’ora chiudono gli impianti e io resto qui come un fesso, penso in cima alla pista, un monumento all’imperizia umana. Oppure mi tolgo l’asse maledetto e scendo a piedi, come fanno i bipedi. Quello lo so fare bene. Alle quattro del pomeriggio sono bloccato sul vertici invisibile della pista rossa, contento che nessuno mi veda, in precario equilibrio trasversale sulla tavola di Andrea. Nevica più forte. Sono sudato. Da un’ora sto inginocchiato in faccia al pendio cercando l’equilibrio. Ogni volta che provo a tirarmi su ricado come un fantoccio sulle ginocchia. Ho i menischi marci, nevica, tira vento e fa sera. Tempo da lupi, e qui ci sono i lupi. Erano decenni che non m’inginocchiavo davanti a qualche cosa.
Aggrappandomi alla neve bagnata cerco l’ancoraggio che non esiste. Se avessi capito la filosofia saprei che non c’è appoggio nel surf, c’è solo il vuoto. Bisogna imparare a volare. La tavola serve a quello. Mi rigiro faccia a monte, scivolo, gratto, derapo. La discesa è alle spalle. Eterna. Minacciosa. Per la prima volta affronto una montagna senza vederla.
Massaggiandomi il ginocchio tumefatto concludo che per oggi non ce n’è. Scenderò a piedi. Prendo la tavola sotto braccio e divallo come un reduce di Russia. Per dare un senso alla situazione mi dico che bisognava provare per rinunciare. Sono uno stupido, rido di me stesso. Eppure c’era scritto su tutte le riviste, che la tavola fa male all’ego, ma io ho sottovalutato le parole. Bastava leggere meglio, bastava credere alle disgrazie degli altri.
L’apprendimento dello snowboard in età adulta è una regressione sconvolgente. Le tecniche acquisite in trent’anni di vita sportiva sono inutili, anzi peggio, sono controproducenti. Più ne sai più non vai. Più ti gonfi più ti fai del male. Ti ripeti che sei nato con gli assi ai piedi, che sai sciare da quarant’anni, che ci andavi ogni festa comandata invece della messa, che come Smilla conosci la neve farinosa, ventosa, gessata, bianca come una sposa o sporca da chiedere scusa, e invece non sai niente di tavole e di neve e di volare, sei solo un pivello che annaspa sulla pista numero sei. Hai meno chance del principiante che eri da bambino, infinitamente di meno, perché lui aveva la mente libera mentre a te tocca prima disimparare, umiliarti, dimenticare: piede destro e piede sinistro, peso a valle, piegamento, rotazione… Addio regole, addio ragionamento simmetrico. Per pensare da surfer devi vuotare la testa e riempirla con qualcos’altro.
Allora guardi gli altri che volano sul pendio e ripeti «diamine è così facile!, guarda quello com’è grasso, quello è solo un ragazzino, quell’altro magari lavora in banca, non vedi che basta voltare le spalle e la tavola gira da sola!». E invece non hai capito niente, ruoti il busto, strappi la curva e sbatti la faccia sulla neve. Ti rialzi, prendi velocità, pieghi, ruoti, strattoni e cadi. Ti rialzi, strappi, t’inclini, bestemmi e sbatti di nuovo. È come se un energumeno ti tenesse le caviglie e un altro energumeno ti desse lo spintone. Una bella domenica.
Arrivo in fondo alla pista numero sei al buio e finalmente restituisco la tavola al mio amico. Portatela via, non voglio vederla mai più. Lui dice che è così per tutti: tre giorni di agonia e una vita di felicità. Non gli credo. Tre giorni e resusciti, dice. Non lo ascolto nemmeno. Ridammi i miei sci, grande millantatore, cerchiamo una tavola vera e facciamoci una birra.
Naturalmente non demordo, adesso è una questione di orgoglio. Per notti e giorni penso agli errori commessi: sono sicuro di avere imparato. Mi lecco le ferite e mi accarezzo l’ego. La domenica seguente affitto una tavola ancora più cattiva, una putrella blu metallizzato, e scelgo una giornata ancora meno misericordiosa, con la neve dura e gelata. Fa bello e fa freddo, è inverno. Questa notte il vento ha spazzato il tappetino di farina, ma io ormai sono un veterano e ho seminato buoni propositi. Basta lanciarsi, genuflettersi e raccogliere.
Va peggio della prima volta, perché i polsi fanno ancora male, la schiena è a pezzi e ho deciso di fregare la gravità. Quindi cado di continuo. L’energumeno non ha pietà. Ne esco più bastonato di domenica scorsa. Ma Andrea ha detto «tre giorni», che ci vogliono tre giorni per disegnare le prime curve, così aspetto l’alba magica della resurrezione e alle prime ore del terzo giorno sono di nuovo in cima al calvario. Questa volta ho affittato una tavoletta ridicola, corta e marroncina, l’ho battezzata «truciolo», pesa poco e si piega tanto. Eppure non si fa domare e io mi sento un manico di scopa. Alle dieci del mattino ho già le ginocchia fradice. Quel gran bugiardo di Andrea. Rivoglio le mie gambe, ridatemi due gambe.
Sulla pista c’è una specie di chalet e gli sciatori hanno appoggiato alla parete decine di attrezzi. Le tavole da surf sono poche, cromate e seducenti. Le guardo, le odio. Aggiungo la mia tavoletta beige e la fisso come una fidanzata che ha tradito. Nel bar ordino un génépy e bevo d’un fiato per dimenticare. Invece continuo a pensarci, perché ormai è una battaglia tra me e lei, la tavola. Anzi lui: Truciolo. È guerra tra il pensare diretto e il pensare laterale. Possibile che sia così fottutamente bello da vedere e così fottutamente difficile da fare?
Dopo il bicchierino della resa una voce bisbiglia all’orecchio: «Non hai capito? Funziona se non ci pensi troppo. Abbandonati, lasciati andare!». La vocina ha ragione, ma è solo filosofia. E non conosco neanche un filosofo che sappia vivere o surfare. Comunque ascolto la vocina e alleggerito dall’alcol faccio un ultimo tentativo. È uscito il sole e la pista sembra un tavolo da biliardo. I pendii luccicano di farina bianca, le creste si stanno scrollando la neve di dosso. Adesso che sono ubriaco mi sento meglio. Appena inforco la tavola la sento più leggera, malleabile, quindi la lascio fare e lei misteriosamente comincia a obbedire. Che fai adesso?, giri? Truciolo ruota docile sotto gli scarponi, rispondendo alle traiettorie del mio pensiero. Io lo penso e lui lo fa. Cazzo era un gioco facile, non c’era niente da imparare.
Quando il surfer in erba chiude la prima curva senza cadere pensa: «Che stupido, ero già capace». Più che apprendere il gesto bisognava liberarlo. La tavola asseconda le menti libere e non perdona la violenza. Lo sci era il pensiero forte della discesa, lo snowboard è una distrazione femminile. La tavola non si domina con i quadricipiti ma con la dolcezza, accarezzando il pendio sulla superficie, senza graffiare, senza far male. La tavola è come l’arco nelle mani dell’arciere: non è il braccio a scagliare la freccia, il dardo si scaglia da sé. Il saggio zen insegna che «con l’estremità superiore dell’arco l’arciere fora il cielo, all’estremità inferiore è appesa la terra fissata con un filo di seta. Se il colpo parte con una forte scossa c’è il rischio che il filo si spezzi. Per il volitivo e il violento la frattura diventa allora definitiva e l’uomo resta irrimediabilmente nello spazio intermedio tra il cielo e la terra».
Pochi in Europa hanno ascoltato i maestri dello snowboard. Con il passare degli anni la filosofia è scivolata rapidamente verso soluzioni sintetiche, verso tavole sempre più corte, arcuate e nervose, gobbe artificiali, trampolini di neve compattata, snowpark per le esibizioni acrobatiche. Nell’immaginario collettivo il surfer è diventato il ragazzino che gratta, derapa e rimbalza a bordo pista, il funambolo della discesa, la palla da flipper che taglia le gambe agli sciatori per bene, l’indisciplinato utente delle piste, il teppista. Porta pantaloni a vita bassa, scarpe da astronauta e giganteschi giacconi per nascondersi dai grandi.
Io continuo a vestirmi da sciatore alpinista e comincio a navigare i valloni delle Alpi occidentali con il mio vecchio compagno di cordata. Monviso, Monginevro, Monte Rosa, nevi in rosa. Riscopriamo la magia della neve fresca, l’odore gelido della farina e la gioia del mare aperto. Le nostre tavole solcano onde zuccherose d’inverno e campi di neve trasformata in primavera. Nella farina facciamo il disegno e sul firn ci divertiamo senza lasciare traccia. Abbiamo dei vantaggi sugli sciatori. Quando gli assi sprofondano noi galleggiamo, in crosta ce la caviamo, sulla neve marcia voliamo. Le tavole da surf tratteggiano linee diverse dagli sci, creano altre geometrie. Il diverso pensiero genera segni differenti. Si scendono dislivelli fantastici e si scopre un’altra montagna, disegnandola e ridisegnandola come i bambini con quelle lavagnette magiche: scrivi scrivi e poi cancelli tutto.
L’avventura è quella cosa: passare e cancellare la traccia. Per assaggiare l’avventura devi spingerti oltre la pista segnata e battuta, se c’è un confine devi superarlo, se trovi un divieto devi trasgredirlo. Ma l’avventura è per pochi e la navigazione in neve fresca pretende coraggio. Bisogna essere molto amici dell’inverno e della montagna per distinguere fra il tracciato sicuro e il pendio da valanga, e bisogna farlo molto in fretta, con i tempi della discesa. La neve fresca non è programmabile, la fresca è anarchica, scende dal cielo e copre il segno che c’era prima. La neve fresca non è né sintetica né pop, infatti il mercato usa la seduzione dei grandi spazi per catturare i nuovi adepti e poi li mette in fila sulle piste. Ti faccio vedere il mare, te lo faccio perfino annusare, e dopo t’incateno all’ombrellone.
Non bisogna essere dei filosofi per esercitare l’avventura con la tavola da snowboard, comunque si fa della filosofia. La tavola è rovesciamento logico, trasgressione sintattica e reinvenzione estetica. Si vola con il vento e ci s’impantana nel mucchio.
Per me la buona tavola in neve fresca è stata una liberazione della mente. L’evasione da una cella chiusa. Per qualche inverno ho partecipato al nuovo pensiero, anche se si trattava già di uno sguardo minoritario, e forse lo era sempre stato, superato in un lampo dalle convenzioni sintetiche che abilmente ci seducono e subdolamente ci fregano. È successo anche con l’arrampicata, il mio primo amore, una delle invenzioni più libere e anarchiche della storia umana. Da qualche tempo c’è chi scala sintetico e lo fa solo sulla plastica.
Io non sono sicuro che non si possa sognare una pista di neve finta o una via di plastica, ma i miei sogni erano diversi. Direi che erano il contrario. Il primo sogno si chiamava Promoron ed era un parallelepipedo di pietra e cemento. Credo fosse il 1962, avevo cinque anni, era estate e c’eravamo spinti nella valle del Cervino. Quando i miei genitori scelsero Valtournenche per le vacanze comperarono un piccolo alloggio in un grande condominio che affacciava una leggendaria vetrata sulla Tersiva e su un dirupo orribile che piaceva solo a me: il Panquerot. Molto prima di scoprire e corteggiare il Cervino mi sono innamorato della centrale idroelettrica di Promoron, un edificio grigio impiccato al dirupo del Panquerot, che con un tubo prende l’acqua del Dragone e la butta sulle turbine di Maen.
A cinque anni dicono che passassi il tempo a fissare quel rifugio arroccato al versante di roccia; quando il buio nascondeva le rocce e accendeva le fantasie, la centrale era una fiaccola nel buio, mio faro e chimera. La prima montagna che ho amato con tutta l’anima è stata la misteriosa centrale appesa al Panquerot, anche se si poteva raggiungere facilmente con il sentiero di Cignana, e io stesso ci andai – forse la prima estate. Ma il sentiero non mi bastava e anni dopo, verso i dodici, ho deciso di scalare la centrale.
Come tutte le condotte forzate della valle, il tubo che pompava l’acqua di neve su Maen era affiancato da un piano inclinato e da un cavo per trascinare il carrello di servizio. Il tubo era magico e poggiando l’orecchio si sentiva correre la forza di altri mondi. Era la voce dei ghiacciai. La condotta idraulica sfuggiva con pendenze sopra i trenta gradi e dalla piattaforma della centrale s’inabissava come uno scivolo di ghiaccio o una fuga di placche, due emozioni che ancora non conoscevo. Comunque era il mio obiettivo.
La prima avventura è stata la centrale, e anche la seconda. Scalare la centrale era una doppia avventura perché potevo essere visto e denunciato dai guardiani, oppure prendere il volo e smerigliarmi le ginocchia sulle pietre. Così sono andato ai piedi della rampa di cemento, ho raggiunto il punto dell’impennata, ho zampettato per cento metri con il cuore in gola, ho gonfiato i ventricoli del cuore e i muscoli dei polpacci finché lo scivolo si è ribaltato e le suole delle scarpe da ginnastica hanno cominciato a perdere aderenza. Con le piante delle mani spalmate sulla rampa mi sono sentito nudo nella trasgressione, e colpevole; avevo addosso tutti gli occhi inquisitori della valle, il superego infieriva sull’istinto e lo piegava con la voce petulante del buon senso. Che fare?, martellava il buon senso. Insistere o rinunciare all’impresa? Ero solo ed era la prima volta che decidevo del mio destino.
Ha prevalso la paura. O l’obbedienza, chissà. Ho scavalcato il confine e ho gettato la spugna. Non so se sia stata una prudenza o una vigliaccata, cerco ancora la risposta, comunque ho scelto la via di fuga e sono sgusciato in salvo nel verde della boscaglia. Per erbacce e arbusti ho raggiunto una centrale grigia più del solito, poi sono sceso a Valtournenche con l’animo pesto dei disertori.
A diciotto anni ho ritentato la scalata in inverno, ma c’era ghiaccio dappertutto e si scivolava anche sul sentiero. L’avventura si è trasformata in una corsa solitaria alla diga di Cignana, con le ombre lunghe e il fiato corto. Da qualche tempo frequentavo le montagne vere e la centrale non era più la mia sirena. Le fate si erano spostate sulle creste dell’anfiteatro – Becca di Cian, Balanselmo, Fontanella, Dragone, Chateau des Dames –, ma nell’imbrunire di dicembre, l’ultimo crepuscolo del 1975, le cime si stagliavano pallide e senza incanto. Ero perso in un mondo di morti, così ho toccato il muraglione concavo della diga di cemento, ho soffiato sulle dita per riscaldarle e ho girato i tacchi lasciandomi dietro l’inutilità di un sogno congelato.
A ventitré anni non pensavo più alla centrale, ero un alpinista. Scalavo le montagne e volevo aprire nuove vie sulle Alpi. Odiavo il cemento, le infrastrutture e ogni angolo di natura alpina contagiato dalla mano dell’uomo. A riportarmi a Promoron è stato il destino, forse, e certamente la tecnica scozzese di arrampicata su ghiaccio che per noi del continente alpino si chiama “piolet-traction”. Con le piccozze ad arco, i chiodi filettati e la complicità del gelo avevamo finalmente imparato ad arrampicarci sui vetri. Scalavamo l’acqua delle cascate ed esploravamo la vita effimera. Rispetto alla roccia la scalata glaciale richiedeva un supplemento d’immaginazione perché le dita non toccavano la materia. C’era di mezzo la tecnologia e scalare con i coltelli non era naturale. Però era bellissimo. Per risalire una cascata o eri nato salmone o t’inventavi di essere Robocop, con due lame di piccozza alla fine delle braccia e ventiquattro punte di rampone sotto i piedi scarponati. Il bello è che a forza di picchiare e calciare finiva che le protesi diventavano arti e prolungamenti del corpo, e potevi credere di essere cresciuto con il metallo addosso.
Forte della nuova tecnica e di splendidi miti – Walter Cecchinel, Jean-Marc Boivin, Gianni Comino: un amico –, in un inverno con molto cielo e pochissima neve ho corteggiato la cascata di ghiaccio di Maen che fiancheggia lo scivolo della centrale. Avevo notato che nelle mattine serene la parte alta della cascata era un nastro di luce accesa. La spiavo da un pezzo, la desideravo. Alla fine mi ero convinto che fosse la linea perfetta per me, con stalattiti di cristallo e arabeschi di gelo. Finalmente il gioco dell’infanzia poteva ricominciare.
Ci sono andato con mio fratello Marco perché era una questione di famiglia. Il sentimento precedeva l’avventura e le dava un senso. Mettemmo insieme un po’ di materiale decente – per gli attrezzi più moderni serviva un patrimonio – e tentammo alla buona. Renzo Luzi mi aveva venduto un martello d’oltre Manica un po’ obsoleto ma aggressivo. Nome prestigioso, e tanto bastava. Abbinammo due piccozze francesi e un martello italiano, così per fare l’internazionale.
Mentre planavamo con la Peugeot di papà sulle case di Maen sapevo già di riuscire, e non era da me. Dopo pochi metri di avvicinamento mi sono sentito a casa e ho cominciato a darci dentro con le piccozze. Piantavo le lame, mi fidavo e tiravo dritto. Più che un’avventura alpinistica, la cascata di Maen è stata il viaggio in un ricordo; quel giorno non ero l’alpinista Camanni o il caporedattore della Rivista della Montagna, ero Enrico che scalava un vecchio sogno. Non sentivo la fatica e chiudendo gli occhi potevo sentire la mia voce da bambino. È stata una fantastica scalata. La sera abbiamo festeggiato in famiglia, ho guardato la centrale che si accendeva dietro la vetrata del soggiorno e mi sono addormentato pensando alle briciole di luce congelata.
Finite le vacanze di Natale siamo scesi a Torino dove ho ripreso il lavoro alla Rivista. Una mattina è venuto a trovarmi Gian Carlo Grassi, uno dei più geniali scalatori italiani di sempre, e gli ho raccontato della mia cascata. Mi ha guardato con occhi da folletto: capiva al volo certe cose. Giorni dopo è ritornato per dirmi che gli spiaceva, ma io a Marco avevamo fatto solo la prima ripetizione. Gian Carlo stava completando il libro 100 scalate su cascate di ghiaccio per la serie Görlich, così ha fatto in tempo a correggere la numero sessantasei:
«I fratelli Camanni credettero di compiere la prima salita, ma a loro insaputa erano stati preceduti di pochi giorni da un’altra cordata, dimostrazione palese che su ghiaccio ogni ripetizione conserva tutto il fascino di una via nuova.»
Aveva ragione: nessuno saprà mai vedere nella centrale le magie che ci ho visto da bambino. Probabilmente verrà un ragazzo capace di andare oltre il mio sogno, ma non avrà i miei occhi. Siamo diversi, ognuno scala la sua montagna.
Il punto è che l’avventura è irriproducibile. La plastica si può imitare ma l’avventura è unica. La plastica è un numero di sintesi, l’avventura fugge dai numeri e si nutre d’incognita e mistero. Resta solo il ricordo di chi l’ha vissuta. Oggi so con certezza che per vivere un’avventura di neve bisogna che prima altra neve cancelli le tracce e che per un’avventura di ghiaccio serve che il ghiaccio stesso elimini i segni delle piccozze. Se ci sono i segni è una ripetizione, se non ci sono è un viaggio di esplorazione.
Non è un pensiero da vecchi, lo scrive anche Viola sul suo blog, e Viola ha sedici anni:
«Gli arrampicatori mi hanno deluso. Immaginavo delle persone fuori: fuori in tutti i sensi, fuori dagli schemi. Invece ho scoperto che sono dei burocrati, soprattutto quelli più capaci, e tutto lo sforzo che fanno è finalizzato a qualcosa. Si allenano con tabelle e programmi, seguono una dieta, e quello che riescono a fare, sembra che lo stiano mettendo da parte come fosse denaro… A me piace arrampicare. Mi piace tantissimo la roccia: non so perché. Mi piace la magnesite, mi piace quando volo, mi piace sentirmi stanca la sera. Mi piace quasi più del sesso. Ma la gente che incontro mi piace sempre meno. Credo che smetterò…»
Sono d’accordo: è meglio smettere che tradire una visione. Scalare con i numeri in testa è come scrivere un libro preventivando i diritti d’autore, o scegliere una montagna in base al dislivello, oppure fare sesso con tanti partner per contabilizzare le prestazioni erotiche. D’altra parte la scalata e il sesso si assomigliano. Ci sono affinità di stile, sintonie di pelle, simboli in comune. Per esempio chi ha fatto il sesso e il vuoto con tutto se stesso sa che non sono i muscoli a comandare, è la testa, eppure la razionalità è nemica dell’arrampicata e dell’eros. E anche dello snowboard. Ci vuole un cervello fuori di testa, per usare l’immagine di Viola; serve una mente che si lasci andare e si lasci fare, che conceda al corpo la libertà di inventare, e poi ci vuole un corpo capace di leggere la natura, di farsi natura. Per salire una roccia, navigare un pendio e amare una persona servono sguardi comprensivi e creativi, non la forza della volontà, e neanche la brama del possesso. Chi non pone condizioni alla vita, finché vive batte la morte.