Pubblicazione

Una montagna da riscrivere

Atti del convegno internazionale, Gargnano 14-15 ottobre 2002

Nel proclamare il 2002 Anno internazionale delle montagne, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha accolto le indicazioni emerse alla Conferenza sull’ambiente di Rio de Janeiro (1992) e al Mountain Challenges del Kirghysistan (1996), e ha inteso specificatamente “promuovere la conservazione e lo sviluppo sostenibile, assicurando così il benessere delle comunità montane e delle popolazioni di pianura”. Su tale assunzione di intenti e (si spera) di responsabilità sia a livello nazionale che internazionale, campeggiano due principi forti, due idee guida che potrebbero cambiare i destini delle montagne del mondo, e delle Alpi in particolare. A ben guardare si tratta di due coppie di opposti, di fattori apparentemente antitetici, eppure il futuro delle Alpi dipenderà proprio dalla composizione di queste antinomie: conservazione e sviluppo, comunità montane e popolazioni di pianura. In altre parole: tradizione e progresso, montagna e città.
Per affrontare questa avventura occorre innanzi tutto liberarsi dai pregiudizi che hanno condizionato (e continuano a condizionare) la visione della montagna. Il primo riguarda proprio il concetto di tradizione. Dai tempi in cui Jean-Jacques Rousseau affermava ispirato che “sulle alte montagne…le meditazioni assumono carattere grande e sublime, proporzionato agli oggetti che ci colpiscono, una sorta di voluttà tranquilla che non ha niente d’acre o di sensuale. Si direbbe anzi che, alzandosi al di sopra del soggiorno degli uomini, vi si lasciano tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che, a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima è toccata dalla loro inalterabile purezza”, l’idea dell’alpe purificatrice e del montanaro virtuoso ha segnato in profondità l’immaginario dei cittadini, tanto da imprigionare la cultura alpina in un sistema immobile di comunità arcaiche dedite ad antichi mestieri. La sensazione (o illusione) di armonia alpestre cara ai cantori delle Alpi di inizio Novecento prendeva slancio proprio dal concetto di staticità. Gli occhi romantici dei cittadini – con uno sguardo sopravvissuto almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, quando il fotografo Gian Franco Bini conquistò i cuori della gente con il suo affettuoso e patinato omaggio ai montanari valdostani in via di estinzione – hanno identificato la tradizione con la virtù, la conservazione con la salvezza, il mito con la realtà, rifiutando di accettare, persino a fatto compiuto, che una cultura priva di tensioni e spinte innovative è una cultura sterile, quindi senza futuro. Il gioco dei malintesi è proseguito con la resurrezione a scopo turistico del folclore alpino, che si sovrappone artificialmente agli usi e costumi scomparsi, sostituendo messaggi da azienda di soggiorno a simboli millenari incapaci di rinnovare la propria carica vitale.
Il secondo pregiudizio, diretta conseguenza del primo, riguarda la rigida separazione tra cultura montanara e cittadina, la divaricazione forzata tra alto e basso, la contrapposizione ideologica tra arcaicità e modernità. Nel nobile e affannoso intento di preservare l’agiografia alpestre da ogni contaminazione urbana, molti etnografi del Novecento si sono dimenticati di raccontare i continui rapporti tra il monte e il piano, le feconde emigrazioni dei valligiani verso le botteghe e i mestieri di pianura, le ricadute artistiche e culturali sulla montagna, e viceversa. Nell’ultimo ventennio del Novecento alcuni antropologi hanno denunciato l’inganno. Pier Paolo Viazzo ha dimostrato che «il fiorire di artisti e architetti in un piccolo villaggio d’alta montagna come Alagna e in tante altre valli alpine – dal Ticino alla Mesolcina, dal Vorarlberg al Cadore – smentisce nel migliore dei modi l’idea che le montagne “scoraggiassero il germogliare del genio”… Particolarmente degno di nota è il fatto che in tutto l’arco alpino fossero numerose le valli i cui abitanti emigravano stagionalmente per esercitare la professione di maestro di scuola e insegnare a leggere e a scrivere alle masse analfabete delle pianure».
Per paradosso, quando la montagna ha finito di essere “letta” come un mondo isolato e autarchico anche dai più irriducibili missionari della religione alpina, i benefici scambi di conoscenze e stili di vita tra il monte e il piano erano stati ormai soppiantati dalla colonizzazione urbana, con un processo di omologazione culturale che, non da oggi, è il dilemma delle Alpi: In questa prospettiva vanno “rilette” (e riscritte) la storia e la cultura delle popolazioni alpine.
Tavola rotonda con Luigi Zanzi, Annibale Salsa e Francesco Pastorelli