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La terza via dello sviluppo alpino: oltre la conservazione museale e lo sfruttamento sconsiderato

Atti del convegno, Cuneo 23 novembre 2002

Oggi abbiamo una sola certezza: “tradizionalisti” e “modernisti” sono entrambi disarmati di fronte alla crisi culturale ed economica delle Alpi.
La prima visione è sfociata in tentativi di “museificazione” dell’ambiente alpino e della sua civiltà tradizionale, a scopo conservativo e a beneficio turistico. Ne sono prova i reiterati sforzi per far resuscitare i riti e i costumi del passato anche là dove tali recuperi appaiono evidenti forzature favorite dalle pro loco e dalle aziende di soggiorno per ricostruire una parvenza di identità storica. Quale località non esibisce il suo animale selvatico o il suo essere mitologico risalente a un non ben identificato leggendario alpino? Ma sono simboli così addomesticati da fungere tuttalpiù da mascotte per le insegne delle tavole calde o per il marchio dello ski pass. Quale villaggio, infine, non riesuma con orgoglio i colori dei costumi tradizionali, le danze dei propri avi, i canti e le mascherate “alla moda di una volta”? Come a dire: qui non è arrivato nessuno a inquinare le antiche usanze, qui siamo rimasti quelli che eravamo. Ma si tratta di un’altra mistificazione, perché nessuno può congelare la tradizione.

Se non si rinnova, la tradizione muore
L’antropologo Gian Luigi Bravo, attraverso una ricerca condotta in Piemonte e in Valle d’Aosta nell’ultimo quarto del Novecento, ha smascherato il preconcetto che le feste popolari sopravvivano nelle valli più arcaiche e isolate. Contro ogni apparenza ha dimostrato che la rinascita dei rituali alpini è tipica delle zone più coinvolte nei processi di scambio con la pianura e la città:
«Per una migliore comprensione apparve utile chiedersi quali categorie sociali e individui fossero i protagonisti di questa continuità del rito e i promotori delle feste ricostituite dopo interruzione o assemblate su un modello e con elementi proposti come tradizionali. Questi protagonisti, più che persone chiuse e immerse nel passato montano e rurale, apparivano gli individui più aperti, attivi nelle istituzioni e negli apparati produttivi delle strutture sociali contemporanee, dalla fabbrica ai servizi alla scuola. In particolare si è ritenuto che essi dovessero essere ricercati tra i pendolari: abbiamo inteso con questo termine non solo e non tanto coloro che si spostavano sul territorio per la loro attività lavorativa o di studio, ma più precisamente quelli che per gli stessi scopi agivano ora in un contesto socioculturale, ora in un altro, a prescindere dall’ampiezza dello spazio geografico percorso».
Queste riflessioni sul pendolarismo riportano all’antica consuetudine dell’emigrazione stagionale alpina e alla ricchezza storica degli scambi tra montagna e pianura, confermando la tesi di Jon Mathieu:
«Le Alpi si differenziano dalle terre pianeggianti che le circondano in forme molteplici e mutanti nel tempo, ma non sono mai state un mondo alternativo e opposto alla pianura e ai centri europei. Ha fornito una base importante per questa illusione il fatto che la maggior parte degli intellettuali, come anche il loro pubblico, abbiano fatto ricorso alle Alpi dall’esterno, per le loro proprie necessità. Si è trattato di una di quelle piuttosto strane dichiarazioni d’amore, che non richiedono il parere dell’interessato. Il tempo per simili approcci dovrebbe essere scaduto».
Tradizione e identità alpina non traggono ossigeno dall’arroccamento in enclave, ma dallo scambio creativo con la pianura e la città. È una premessa fondamentale per misurare la congiuntura attuale delle Alpi, e soprattutto per proiettarla in una visione futura. Le gelosie montanare, le chiusure regionalistiche, le sterili difese di privilegi e particolarismi, le nostalgie non salvano la cultura alpina. Senza ossigeno la montagna soffoca.

Lo sviluppo mangia se stesso
L’altra idea forte novecentesca, nata da una visione “progressista” delle Alpi ed evolutasi attraverso la moda della villeggiatura alpina, gli entusiasmi modernisti di inizio secolo, le ferrovie, le strade, le funivie, l’invenzione dello sci di massa, ha mostrato tutti i suoi limiti dopo gli anni Settanta, quando è parso chiaro che la montagna stava diventando un surrogato della città. Nient’altro che un surrogato.
Nell’euforia del progresso, abbagliati dalla panacea del turismo guaritore di tutti i mali, si era semplicemente perso di vista il punto di partenza: «Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che rimarrebbe assai contrariato se vi ritrovasse la città che ha appena lasciato». Sono parole di fine Ottocento, eppure chi ci ha fatto caso nell’ubriacatura di investimenti e speculazioni del secondo dopoguerra? Chi ha pensato ai devastanti effetti collaterali?
Come hanno osservato gli studiosi dei flussi turistici diretti verso i paradisi esotici del pianeta, il turismo “mangia” se stesso: «La vacanza turistica è un’attività che si alimenta del mito della verginità da svelare e dell’incontaminato da contaminare. Più il turismo sale, più il valore edenico di un luogo scende». Nessun luogo può rappresentare meglio delle Alpi questo paradosso, perché nessun luogo si è nutrito più a lungo e più in profondità di orizzonti puri, ideali assoluti, altezze liberatorie, natura rigeneratrice. Eppure cosa ha fatto la città per sviluppare quei valori e godere quegli ambienti? Li ha aggrediti, rosicchiati e addomesticati, ne ha cancellato l’alterità e la bellezza, li ha ridotti a banali copie senz’anima.
Si è continuato per lungo tempo a pensare e progettare la montagna come un territorio dalle risorse inesauribili, erodendo – con la complicità di montanari e cittadini – l’unica vera ricchezza delle Alpi: l’ambiente naturale. Comunità locali e investitori esterni hanno continuato negli anni Settanta e oltre a ragionare su progetti di corto respiro, con operazioni di sfruttamento e rapina ambientale di cui oggi si raccolgono i pezzi.
Il vero segnale di svolta non è giunto né da un sussulto dell’antica sobrietà montanara né da un ripensamento etico della città. È stata l’economia a ripensare se stessa.

La terza via, ovvero l’obbligo di guardare lontano
I complessi problemi di disagio ambientale, flessione demografica e difficoltà economica che, su un territorio molto articolato ma con elementi ricorrenti, accomunano gli oltre undici milioni di abitanti delle Alpi e i circa seimila comuni, portano ormai quasi ovunque a parlare di “sviluppo sostenibile”. La definizione è così inflazionata da tradire già una debolezza diffusa, proprio perché mancano i riferimenti a un modello più generale e perché ogni valle e ogni comunità pretende di risolvere (comprensibilmente, ma anche pericolosamente) i propri problemi da sé. E’ come se ogni amministratore delle Alpi avesse annusato un po’ della ricetta miracolosa.
I più sembrano aver compreso che, per esempio, non è “sostenibile” un turismo che sacrifichi la qualità dell’ambiente, che cannibalizzi le colture agricole e le attività silvo-pastorali, che annienti la storia e le tradizioni locali. Alcune amministrazioni ragionano sull’opportunità di allontanare le auto dal centro dei villaggi, per non ricreare in montagna lo stesso clima di stress che si cerca di scacciare dalle città. Altre si stanno accorgendo che la monocultura dello sci uccide ogni altro sviluppo possibile, per cui bisogna creare urgentemente delle alternative. Si tende finalmente a rivalutare la gastronomia del luogo contro le tentazioni del fast food, e a rilanciare i prodotti tipici contro la logica del supermercato. Correttivi giusti, iniziative sacrosante, che però nella maggior parte dei casi rispondono a imperativi generati dal disordine del sistema, ma non si inquadrano in un progetto a lunga durata, coordinato con i comuni e le valli vicine, inserito in una politica di larga prospettiva nello spazio e nel tempo.

Tre problemi prioritari
Nel quadro complesso delle Alpi all’alba del terzo millennio si possono delineare tre snodi cruciali: agricoltura, turismo e trasporti. Si tratta di tre insiemi di problemi indissolubilmente connessi, ed è ingenuo e illusorio pretendere di risolvere l’uno senza intervenire sull’altro, Proprio la visione parziale delle questioni ha portato alcune valli al collasso e altre all’abbandono.
Agricoltura e turismo: salvo situazioni particolari (sussidi straordinari ai coltivatori, monoculture dello sci, casi di urbanizzazione selvaggia) è dimostrato che l’una non può vivere in assenza dell’altro e viceversa: solo un equilibrio integrato garantisce un futuro di qualche respiro.
L’agricoltura senza il turismo non è in grado di reggere l’economia alpina, ma il turismo senza agricoltura snatura in breve l’identità locale, altera il paesaggio, globalizza i prodotti e sottomette la montagna all’economia di città.
Turismo e trasporti: la dipendenza è evidente, perché sono stati i progressi nei trasporti (prima ferroviari, poi stradali)ad avvicinare la montagna alla città e a scatenare il fenomeno turistico. Ma oggi il dominio delle automobili e la loro espansione incontrollata rende invivibili molti centri alpini nei mesi punta, equiparandoli in negativo ai centri di pianura, riduce alcuni santuari delle Alpi a parcheggi d’alta quota, compromette i beni primari di silenzio e aria pulita su cui si fonda il turismo. Ai problemi del traffico locale si affianca l’emergenza sempre più drammatica dei grandi trasporti, soprattutto su gomma.
Agricoltura e trasporti: se da un lato l’agricoltura e l’allevamento traggono beneficio dalla meccanizzazione e da una rete adeguata di strade ad uso interpoderale, dall’altro lato l’abuso delle sterrare nate con finalità agricole e poi trasformate in strada turistiche dagli interessi speculativi, l’avanzata dell’asfalto e del cemento, il graduale rosicchiamento dei campi coltivati e dei pascoli, il depauperamento dei terreni agricoli di fondovalle a beneficio dei grandi assi di transito, porta l’agricoltura e gli agricoltori verso una condizione sempre più . Vittime anziché beneficiari della modernizzazione.

Il turismo non è solo oro
Negli ultimi anni si è andata finalmente diffondendo l’opinione che il turismo non sia la panacea per ogni male delle Alpi, soprattutto un turismo scarsamente o per nulla inserito nel tessuto culturale locale, un turismo invasivo, onnivoro, monocorde, predatore dell’ambiente.
Anche i grandi comprensori turistici, che rappresentano l’industria più largamente dotata di esperienza e di mezzi, manifestano segnali di crisi e commissionano complesse indagini socio-economiche per riposizionare il “prodotto” e integrare lo sci di pista e le altre attività tradizionali con offerte alternative.
Dal 6 al 9 aprile 2000 si è tenuto nel Principato di Andorra il secondo Congresso mondiale del turismo della neve e degli sport invernali. A conclusione di una stagione ancora una volta povera di neve, gli esperti si sono trovati concordi nel collocare la congiuntura meteorologica- tutt’altro che irrilevante nell’ultima decade del Novecento – tra i parametri secondari con cui misurare le difficoltà e le prospettive dello sci. Non si può “scaricare” sui capricci del tempo, e neppure sul più che probabile riscaldamento dell’atmosfera terrestre attribuibile ai gas serra, i motivi di preoccupazione per un’industria che fino a pochi anni fa appariva solida e inattaccabile. Per esempio – hanno detto i sociologi e gli economisti – bisogna tenere in conto che la vacanza sulla neve risulta ogni anno più costosa per le famiglie, in contrasto con i prezzi sempre più ridotti e concorrenziali delle vacanze invernali nei mari tropicali. Appare improbabile che la pratica degli sport invernali si possa estendere ulteriormente: il numero degli sciatori europei cresce a ritmi debolissimi, mentre quello degli sciatori americani (ci si riferisce ovviamente alla situazione precedente l’attacco terroristico alle torri di New York dell’11 settembre 2001) è stabile da circa vent’ anni. Inoltre la popolazione dei paesi occidentali invecchia e giovani sembrano meno interessati allo sci tradizionale.
Insomma, l’epoca delle classiche settimane bianche sugli sci volge al tramonto. Per competere nel nuovo mercato occorreranno investimenti e interventi di considerevole portata. Le stazioni maggiori potranno probabilmente affrontarli e aggiudicarsi la maggior quota del mercato rappresentato dai trentadue milioni di sciatori europei.
E le piccole stazioni? Anziché insistere sullo sci di massa scimmiottando i colossi sempre più irraggiungibili, devono investire con miglior fortuna sui loro veri punti di forza: l’ambiente naturale, la storia e la cultura tradizionale, l’artigianato di qualità, la gastronomia tipica, gli sport “morbidi” come la sci di fondo o le racchette da neve, l’escursionismo d’estate. Da questi punti d vista le piccole stazioni di villaggio si trovano paradossalmente in vantaggio rispetto – per esempio – ai sempre più ingestibili centri di ski total, sorti sulle Alpi francesi (e non solo) e destinati a costosissime riconversioni o a un veloce degrado.
In ogni caso né i grandi né i piccoli centri possono sottrarsi a un ripensamento globale. Quella buona metà di arco alpino che è stata trasformata dal turismo, spesso in modo così rapido e invasivo da non rendersene neanche conto, deve ripartire almeno mentalmente dalle origini per riorientare – ovunque sia ancora possibile – la propria immagine e il proprio futuro.

Scacciare la tentazione dello stereotipo
Non sono tutti belli, né tutti muscolosi, né tantomeno intrepidi i centoventi milioni di turisti che ogni anno visitano le Alpi, eppure in televisione, sui giornali, nei saloni e nelle fiere prevale ancora l’immagine consumistica della montagna artificiale, patinata, spettacolare, esasperata e finta.
Questa è la prima contraddizione. La seconda è speculare e consiste nel fatto che il turismo spesso vorrebbe far tornare indietro la ruota della storia. «La pubblicità cerca di attrarre gli ospiti con le immagini del passato. Un mondo museale che poi raramente corrisponde al vero, e i turisti ne sono ormai ben consapevoli. Tuttavia per adeguarsi in qualche modo a quelle rappresentazioni improntate a logori cliché, diventa necessario attingere a qualche elemento scenografico della cultura tradizionale, che viene con ciò degradata a risorsa utilizzabile a piacimento…I locali, che, nella loro funzione professionale di ospiti, si prestano alla messinscena davanti ai turisti e ne traggono vantaggi economici, dopo la “rappresentazione” si ritirano nella sfera dei servizi».
I due stereotipi non pagano, non rappresentano la montagna. Forse oggi, forse per qualche anno ancora, ma il trucco è sempre più logoro e si comincia a vedere attraverso i buchi. I turisti hanno bisogno di offerte credibili per soddisfare la loro sete di autenticità e i montanari non possono prestarsi oltre a fare le comparse. Sono sulla stessa barca e devono remare insieme.