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Scarpe che hanno scritto la storia dall’alpinismo eroico ai nuovi mattini


Anche se il calzatiruficio della Val di Fiemme è stato fondato nel Ventennio e ha operato attivamente durante la seconda guerra mondiale, il marchio La Sportiva comincia a prendere posto sulla scena del grande alpinismo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Il teatro è tipicamente dolomitico e il periodo è quello delle direttissime, o delle vie a goccia d’acqua sugli strapiombi calcarei. A fianco di Cesare Maestri risalta la figura di Bepi de Francesch, il cui carattere schivo contrasta con il trionfo mediatico delle imprese. Non c’è ombra di esibizionismo in questo bellunese arruolato nelle Guardie di Pubblica Sicurezza e generoso animatore della Scuola alpina delle Fiamme Oro, che le fotografie dell’epoca ritraggono quasi sempre con gli scarponi di cuoio ai piedi, appeso a staffe e scalette, lo sguardo stupito e il cappello di lana sulla testa. De Francesch esprime la volontà, se non il “dovere”, di percorrere fino in fondo la strada delle direttissime.
Nel 1961 si festeggiano i cent’anni dell’Unità d’Italia. Cullato dal boom economico, il Paese scopre l’automobile e la televisione. Tra gli eroi più amati dagli italiani c’è l’alpinista bergamasco Walter Bonatti, che nel luglio del 1961 è protagonista di una terribile tragedia sul Pilone centrale del Frêney. Sette scalatori di livello internazionale sono sorpresi dalla tempesta oltre i quattromila metri di quota, non lontano dalla cima del Monte Bianco; dopo una ritirata di più giorni Bonatti riesce a riportarne in salvo solo due, oltre a se stesso. Ancora una volta l’alpinismo entra nel tritacarne mediatico, tra chi lo considera un suicidio e chi invoca prudenza e misericordia. Riesce indigesto ammettere che nell’epoca del miracolo tecnologico si possa morire sotto la neve in piena estate.
Dall’altra parte delle Alpi il pubblico si appassiona al nuovo progetto di Bepi de Francesch: la fantastica prua gialla del Piz Ciavazes, 2828 metri, che precipita sui tornanti del Passo Sella, la strada più battuta delle Dolomiti. Il fendente del Ciavazes, oltre che bello, è una provocazione alla forza di gravità. In Val di Fassa si dice che «se fosse capovolto non supererebbe il quarto e il quinto grado, e con delle ottime cenge in mezzo»; peccato che si tratti di una geologia rovesciata, con i soffitti al posto dei gradini.
Nel settembre del 1961 de Francesch decide che è venuto il momento di «attaccare quel diavolo di spigolo» con i fidatissimi Quinto Romanin, Cesare Franceschetti ed Emiliano Vuerich. «Se fossi riuscito a vincerlo lo avrei dedicato al Centenario dell’Unità», dichiara Bepi, dunque non manca la giustificazione patriottica. Ma prima bisogna scalarlo, ed è quasi un’esibizione pubblica. Il biografo di Bepi, Tommaso Magalotti, racconta che «la scalata ebbe per quasi tutta la sua durata una platea di spettatori che in certi momenti finivano con il rallentare e talvolta addirittura con l’intasare la viabilità del passo. Tutti si fermavano con le loro auto e, una volta scesi, naso all’insù, pieni di curiosità seguivano l’insolito spettacolo».
Innanzitutto è una questione di materiali. La sera dell’11 settembre i quattro rocciatori si accomodano in due tende ai piedi dello spigolo. Hanno viveri per alcuni giorni, centocinquanta chiodi normali, cento chiodi a pressione, alcuni cunei di legno per le fessure larghe del calcare, quindici staffe, varie corde da arrampicata (di cui due da cento metri) e un lungo cordino da recupero. Ai piedi portano scarponi La Sportiva con suola Vibram.
La mattina del 12 settembre de Francesch e Romanin scalano il primo tratto verticale e chiodano un diedro strapiombante, poi arriva il primo soffitto dello spigolo, che il capocordata affronta direttamente: «Tra me e la roccia si ingaggia una lotta disperata: io dico che l’amo, ma lei non ci crede». A metà pomeriggio i due raggiungono il grande tetto. De Francesch recupera una bandiera e la fissa sotto il soffitto. Appena il tricolore sventola nella sera, dalla strada del Passo Sella salgono alcune grida: «Viva l’Italia!».
Il secondo giorno è dedicato al soffitto centrale che esce di cinque metri nel vuoto, perfettamente orizzontale. È un lavoro di forza e pazienza: servono circa trecento colpi di martello per forare la roccia e farci entrare il chiodo a pressione; quindici colpi e un bel respiro, altri quindici e una scrollata. «Scolpivo la mia via. Mentre andavo in fuori per quel grande tetto pensavo alla figura di Michelangelo che in quella stessa posizione dipingeva la volta della Sistina». La sera del 13 settembre i quattro poliziotti delle Fiamme Oro bivaccano appesi ai chiodi e la mattina del 14 raggiungono la Cengia dei Camosci a metà parete. Ormai lo spigolo è scalato, ma l’etica impone di andare in vetta al Piz Ciavazes. Ci arrivano un’ora dopo mezzogiorno sotto il cielo pastello di settembre. Estraggono la bandiera e la sventolano di nuovo. Battezzano la nuova via Italia 61.
Superata l’epica dell’artificiale l’alpinismo cambia direzione. Si va verso la scalata libera e il grande alpinismo invernale, andino e himalayano. Gli scarponi fiutano la nuova aria: sempre più morbidi e leggeri per la libera, più rigidi e massicci per la neve e l’alta quota. L’ampezzano Lino Lacedelli, consulente La Sportiva, impersona le due tendenze perché è valente scalatore dolomitico e alpinista himalayano. In gioventù ha salito pareti molto difficili come la Cima Scotoni e nel 1954 è stato sulla cima del K2. Negli anni Settanta l’alpinismo subisce una specie di forza centrifuga: la zavorra della tradizione perfeziona e appesantisce i materiali, mentre l’alito della trasgressione tende a ridurre, semplificare, velocizzare. Anche l’enfant prodige Reinhold Messner interpreta le due vie, e lo fa correndo e togliendo sempre più. Nel 1968, prima di perdere il fratello Günther sul Nanga Parbat, ha scritto che i chiodi e la tecnologia sono gli “assassini dell’impossibile”.
Intanto il mercato consumistico dello sci sta invadendo gli spazi alpini, portando nelle valli lo sport delle masse. Sulle Alpi nascono stazioni gigantesche, in tutto simili alle città di pianura. La famiglia Delladio segue il nuovo mercato degli scarponi da discesa finché sono fatti di cuoio, che è lo storico materiale di riferimento; quando arriva la plastica e gli sciatori indossano scafi rigidi, sintetici e colorati, coerentemente i Delladio rinunciano. Secondo tradizione la Casa della Val di Fiemme si rivolge all’alpinismo e all’arrampicata, ma anche lì soffia vento di rivoluzione.
E pensare che all’inizio degli anni Settanta gli alpinisti vestivano ancora alla montanara!, con i calzettoni della nonna e i grigi pantaloni alla zuava. Una specie di divisa. Dieci anni dopo è cambiato tutto. Gli scalatori di ogni età si danno del tu, usano parole inglesi come freeclimbing, indossano salopette marchiate Fila e Cerruti, e scarpette a suola morbida firmate San Marco e La Sportiva. Il grigioverde degli alpini è morto e sepolto, uno sbiadito ricordo della Guerra Bianca. Sulle pareti di roccia si ostenta la nuova arrampicata protetta, si provoca, non ci si nasconde più.
Per gli alpinisti dell’epoca eroica il completamento obbligatorio della scalata era la vetta, che corrispondeva alla croce stagliata sulle creste. In termini bellici la cima della montagna era l’occupazione della postazione estrema, la medaglia della vittoria. Con il Nuovo Mattino dell’arrampicata la cima è sparita: non c’è più nessun fine, e nemmeno una fine; a chiudere una scalata bastano l’allentarsi del vuoto e il termine del precipizio. I ribelli hanno introdotto il termine provocatorio di “altopiano”, che è molto più di un concetto geografico. Significa che per divertirsi è sufficiente scalare la parete, e che il fine è l’arrampicata stessa, che è diventato uno sport per tutti. Quasi di massa.
I Delladio colgono l’opportunità, anche perché la plastica si sta prendendo pure gli scarponi da alpinismo. Dopo il passaggio intermedio della scarpa “Yosemite” di Alberto Campanile (1978), nei primi anni Ottanta una vincente intuizione sposta il focus dell’azienda sul settore dell’arrampicata sportiva, arruolando personaggi geniali come Heinz Mariacher e Luisa Iovane. Viene ideata e realizzata un’innovativa scarpetta dai caratteristici colori viola e giallo – la Mariacher – che sarà capostipite di una lunga serie di prodotti all’avanguardia e segnerà, in breve tempo, il successo mondiale del marchio.
Heinz è un grande scalatore e un appassionato sperimentatore. Inoltre ha spirito imprenditoriale. Progettando la sua scarpetta ha capito che l’immaginario collettivo degli arrampicatori era in fervente attesa di una scarpa morbida, appuntita, coloratissima e “magica”. Con le sue babbucce ai piedi si sentono tutti più bravi, e soprattutto più moderni. La Mariacher è la nuova divisa, uno stile, il simbolo del cambiamento.
Nell’estate del 1985 arriva l’eresia delle eresie: la gara verticale. Si gareggia sulla storica Parete dei Militi della Valle Stretta, sopra Bardonecchia, in Piemonte. Sulla spinta dell’accademico torinese Andrea Mellano, del giornalista Emanuele Cassarà e del fuoriclasse Marco Bernardi, dal 5 al 7 luglio si celebrano le prime competizioni europee di arrampicata sportiva e i giudici fanno il loro ingresso nella storia anarchica e libertaria della montagna con la benedizione di Riccardo Cassin, somma gloria dell’alpinismo del Novecento. Atleti e atlete con il pettorale si esibiscono davanti a centinaia di spettatori festanti, in un rito collettivo e liberatorio che ricorda Woodstock e i concerti da stadio. La Sportiva ci crede e appoggia le gare di scalata fin dagli esordi, candidandosi come sponsor di Sport Roccia a Bardonecchia e del Rock Master di Arco e aggiudicandosi atleti di primo piano come Stefan Glowacz, Didier Raboutou e Catherine Destivelle.
Nel gruppo entra anche Manolo, che è contrario alle gare ma è lo scalatore più famoso d’Italia. Il più carismatico. Gli amici lo chiamano il Mago per la sua capacità di leggere la roccia e inventare linee impossibili, immaginando anche gli appigli che non si vedono. Lui la definisce “intelligenza motoria”. Si è imposto all’attenzione del mondo alpinistico arrampicando in libera alcune vie dolomitiche di prestigio come la Carlesso e la Cassin alla Torre Trieste, nel gruppo del Monte Civetta, oppure la via di Emilio Comici alla Cima Grande di Lavaredo, e ripetendo con Mariacher, Iovane e Pederiva la temutissima via Attraverso il pesce sulla parete sud della Marmolada. Nel contempo ha aperto con una manciata di chiodi itinerari durissimi sui grandi muri di calcare e ha spinto l’arrampicata in falesia ai vertici mondiali assoluti. Gli aspiranti ripetitori hanno costatato a gran fatica e sulla loro pelle i misteriosi attributi delle vie del Mago, perché Manolo è poco propenso alla pubblicità e sceglie sempre montagne defilate e pareti nascoste.
La prima rivelazione pubblica del suo talento è legata a un monte che al tempo non conosce nessuno, il Totoga, modesto risalto dolomitico che divide la Valle del Vanoi da quella dello Schener, non lontano da Imèr e Fiera di Primiero. A oriente il Totoga presenta una parete verticale e accessibile quasi tutto l’anno, il luogo ideale per cimentarsi sulle alte difficoltà. Manolo la frequenta assiduamente, esplora e scala la roccia salda e solare, inventa alcuni itinerari, finché nell’estate del 1981 lascia il segno che dura: «Pesavo molto poco a quel tempo – dichiara –, m’ero cacciato in testa che così leggero avrei potuto appendermi dappertutto e quel giorno riuscii in un passo veramente molto difficile sul “Mattino dei maghi”». Nel vocabolario di Manolo “molto difficile” è un abbinamento di parole da paura. Infatti negli anni successivi, respinti dalle difficoltà e dalla chiodatura a dir poco spartana, gli sparuti imitatori scoprono che Il mattino dei maghi rappresenta un exploit irripetibile. Sull’intera lunghezza di corda Manolo si è protetto solo con un cuneo, due chiodi normali e due chiodi a pressione vecchio stile, eppure la via raggiunge il nono grado superiore (7c+ nella scala francese)! In Europa, in quel momento, Il mattino dei maghi corrisponde al livello massimo mai concepito e scalato. Nemmeno i campionissimi francesi Patrick Berhault e Patrick Edlinger sono ancora riusciti a scalare così in alto, anche se la Francia è la patria indiscussa dell’arrampicata sportiva.
Negli anni Novanta arrivano i fratelli bavaresi Thomas e Alexander Huber e nasce la scarpetta “Mythos”. Più tardi, con il modello “Mirage”, la scarpetta diventa curva e dolorosa, permettendo prestazioni impensabili. Nel marzo dell’anno 2000, all’alba del nuovo millennio, Alexander Huber affronta sette ore di marcia forzata nella neve per raggiungere la base delle Cime di Lavaredo. Porta cinquanta chili di zaino sulla schiena. Arrivato sotto gli strapiombi si sdraia sullo zaino e ribalta gli occhi al cielo: «Da dove dovrei cominciare?» si domanda. «Il mio campo base è un buco di due metri sotto la parete. Proprio sotto il tetto. Guardando su capisco che in realtà è indifferente dove comincio, tanto sembra tutto uguale…» Alexander vuole tentare una via nuova, da solo e in inverno, sul soffitto più spaventoso, il grande tetto centrale della Cima Ovest di Lavaredo che Riccardo Cassin e Vittorio Ratti hanno aggirato sulla destra nel 1935.
La prima lunghezza di corda si rivela una delle più pericolose, perché Huber collezione una serie di protezioni aleatorie e non trova modo di riposare. Tornare indietro è impossibile, andare avanti è una roulette. Poi finalmente gli entra un chiodo a prova di bomba, «che rassicurerebbe perfino una società di polizze assicurative». Per il momento può bastare così; il sole tramonta ed è ora di calarsi alla truna e al sacco a pelo.
La gelida mattina del secondo giorno lo vede appeso al soffitto come un pipistrello. Indossa scarponi pesanti e guanti perché è stanco di congelarsi. Procede in artificiale con tutti i ferri del mestiere – chiodi, martello, gancetti metallici, staffe, friend e blocchetti da incastro –, ma le fessure sono così avare che entrano solo i chiodi a lama sottile. Quelli più grossi gli restano in mano.
Il terzo giorno, proprio sullo strapiombo finale, le lamette cedono e Huber vola: «Sto cadendo. Il mondo è rovesciato! Adesso in basso c’è il tetto e in alto la pietraia. Un chiodo sembra tenere, nonostante tutto; la corda mi strattona; no, continuo a cadere, precipito a lungo, poi la botta. Da cento a zero in un secondo, mentre i miei organi interni tendono a proseguire verso il centro della Terra…»
Huber scende a valle a riposare, fa rifornimento di ferri e torna dopo pochi giorni ai piedi delle Tre Cime. Ora la scalata non ha più segreti e il tetto di Cima Ovest è solo più questione di pochi chiodi, purché giusti; in una mattinata di lavoro riesce a raggiungere il punto massimo del primo tentativo e a regolare l’ottava lunghezza di corda, emergendo finalmente dall’ultimo strapiombo. Calza le scarpette, batte le mani per riattivare il sangue e continua in libera. Il secondo e ultimo giorno raggiunge la via di Cassin, incontrando neve e vetrato, ma ormai il peggio è passato e nel fugace bacio del sole pomeridiano Alexander esce dalla parete nord. È nata la via Bellavista.
Ci torna l’8 luglio del 2001, per ripetere la scalata in libera. Sale con Gernot Flemisch al punto estremo sotto il tetto, tenta il passaggio chiave e passa: undicesimo grado inferiore. Da scalatore navigato sa che adesso viene il momento peggiore, perché il cervello ti dice che sei all’ultima chance, che ora il corpo non può più sbagliare: «Scalo come su una falesia, e invece sono di nuovo appeso alla parete nord della Cima Ovest… Ho paura, sono vicino al traguardo, non deve succedermi più nulla! Dieci minuti ancora, e devo dare tutto. All’ultimo movimento non mi fido dell’appoggio sinistro, vorrei temporeggiare ma non posso. Gli avambracci sono immediatamente in tensione, devo rischiare, continuare… eccolo! Ecco l’appiglio, la sosta, la salvezza».
Intanto è finito il tempo della plastica e nel 1992 Jeff Lowe, fresco salitore della fantascientifica Metanoia sulla parete nord dell’Eiger, ha testato il prototipo del “Trango”, lo scarpone leggero da alpinismo. Nel 1998 Stevie Haston ha collaudato il “Trango Extreme”, che ne è l’evoluzione. Con gli scarponi leggeri e i moderni ramponi ai piedi, la tendenza è portare l’estrema difficoltà del ghiaccio in alta montagna, inventando vie futuristiche dalle cascate di casa alle pareti extraeuropee. Il gelo crea il ghiaccio e il sole lo distrugge, così ogni volta è una nuova avventura.
Ormai si scala ovunque con piccozze simili ad armi letali, anche agganciandosi con le becche alla roccia come fece il precursore Joseph Knubel sul Grépon nel 1911 anticipando il dry tooling, oppure affrontando le volte a precipizio delle caverne schizzate dagli spruzzi congelati delle cascate, dove si sale su fragili arabeschi incollati allo strapiombo. Succede in Canada, il paese del freddo, ed è come arrampicare nel Paese delle Meraviglie. Nel febbraio del 2012 la difficoltà schizza dal vecchio grado limite WI 7 della scala americana (la sigla sta per Water Ice) al lunare WI 11, che è la cifra dichiarata dall’inglese Tim Emmett e dallo sloveno Klemen Premrl dopo la salita in arrampicata libera di Wolverine nelle Helmcken Falls.
Sulle Alpi la soglia del doppio sesto in roccia e del grado estremo su ghiaccio non è forse ancora matura, ma si supplisce ampiamente con la seconda variabile della scalata: la velocità. È quello il dodicesimo grado, la marcia in più dell’élite, il record che non si misura in appigli e strapiombi ma in ore e minuti, fissandolo con il cronometro.
Dopo il grande Patrick Berhault, scomparso prematuramente sul Dom de Mischabel nel 2004, lo svizzero dell’Emmental Ueli Steck è il nuovo re dei concatenamenti veloci. Nell’inverno del 2008 è pronto a tentare il record dei record: Eiger, Grandes Jorasses e Cervino, la storica triade delle pareti nord. Sull’Eigerwand conosce a memoria i passaggi più difficili e li esegue come un acrobata navigato. In vetta il cronometro si ferma a due ore, quarantasette minuti e trentatré secondi. A fine anno scala la Nord delle Grandes Jorasses in due ore e ventun minuti, correndo sul ghiaccio misto a roccia della via Colton-McIntyre. L’inverno seguente completa la trilogia salendo l’itinerario dei fratelli Schmid sulla parete in ombra del Cervino in poco meno di due ore. In tutto fanno sette ore e pochi spiccioli.
I nuovi materiali sono complici fondamentali dei progressi sportivi, specie nella velocità. Ormai si corre dappertutto, dalle gare di sci alpinismo ai concatenamenti d’alta quota, dal running sui sentieri alle performance di elevato contenuto tecnico. La Sportiva segue l’evoluzione alleggerendo sempre più, e nel contempo, con scarpette sempre più performanti, segue il circuito internazionale delle gare di arrampicata. Nel 2007 il Climbing team raggiunge un importante traguardo con la vittoria di Patxi Usobiaga nella Coppa del mondo di difficoltà e con quella di Kilian Fischhuber nel Campionato mondiale di boulder. La scalata sulle prese sintetiche tende ad allontanarsi a grandi passi dalle sue radici outdoor, ma è ottimo terreno di sperimentazione per i nuovi materiali e i nuovi metodi di allenamento. Successivamente i risultati possono essere esportati in montagna.
Ma dove va l’alpinismo di oggi? Se le Alpi possono ancora parzialmente rappresentare il laboratorio dell’evoluzione mondiale, osserviamo la tendenza verso la ripetizione in libera dei grandi itinerari artificiali del passato (o anche del presente, come nel caso della via Bellavista sulla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo), la scalata di goulotte e cascate che gelano per pochi giorni nei colatoi più selvaggi (per esempio l’aleatoria Birthright ai Grands Charmoz, aperta da Twight e Backes nel 1993 e liberata da Helliker e Bracey nel 2013) e infine, ma non ultima, la corsa con il cronometro sulle grandi pareti (in particolare Steck e Daniel Arnold sull’Eigerwand, tra il 2008 e il 2011). Sintesi estrema di tutto ciò, almeno per quanto riguarda la roccia, è la ripetizione “free-solo”, cioè senza corda, di itinerari mitici e rischiosi come la via Attraverso il pesce sulla Marmolada, scalata dal solitario Hansjörg Auer nel 2007. Quando tutto ciò viene esportato sulle grandi pareti patagoniche, andine, nordamericane o himalayane si sfiorano i vertici dell’alpinismo contemporaneo, ben sapendo che il limite assoluto per sua natura non esiste.