Ricordo che Gian Carlo Grassi disse che non si storpiano i nomi dei corsi d’acqua, anche se sono di ghiaccio. Per noi Pirron Dimonio era un amico della Sucai che si prestava agli scherzi e ci parve semplicemente divertente dedicargli una cascata. Era la logica delle vie nuove dopo la rivoluzione culturale del Nuovo Mattino, quando le prime salite erano invenzioni lessicali e verticali.
Avevo scoperto la cascata del Fè, o di Fornolosa, durante uno dei miei tanti pellegrinaggi in Valle dell’Orco, mi pare verso sera, scendendo a valle nel crepuscolo. Era una strana colata che si infilava tra le rocce della media valle, una specie di budello gelato, e mi piaceva l’idea di esplorare quella porta misteriosa. Più che le verticali di ghiaccio mi attraevano le linee congelate, quel farsi strada dell’acqua in posti assurdi, seguendo l’illogica fisica dei liquidi. Illogica per noi, naturalmente, che non eravamo salmoni e nemmeno raffinati ghiacciatori e ci arrangiavamo con attrezzi classici su verticali esagerate per i denti delle vecchie piccozze.
Ma a quei tempi passavo quasi dappertutto e salii divertendomi, anche se il cielo era grigio e non c’era luce, nessun contrasto, solo la gelida rappresentazione dell’inverno in Valle dell’Orco, quando la primavera sembra una chimera. Mi piacque anche per quello, perché era esattamente il contrario dell’oro del Caporal negli autunni infuocati. Sulla cascata era tutto morto, sigillato, muto.
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