Pubblicazione

Qualcosa di magico

Ha ragione Heinz Mariacher: «Il Sasso di Santa Croce è davvero qualcosa di magico: non esiste un’altra parete nelle Dolomiti che abbia i suoi colori e le sue forme. Uno scenario straordinario che ispira e lascia a bocca aperta ogni scalatore».
Mi è capitato di trascorrere una giornata intera sotto la grande muraglia e non mi sono mai stancato di guardare: le ombre del giorno mutavano di continuo i tagli delle quinte rocciose, che andavano accendendosi nel pomeriggio. Più che di scalarla, avrei avuto voglia di dipingerla, se fossi stato capace. È enorme e armoniosa, allo stesso tempo: un’impalcatura geologica inusuale perfino per le Dolomiti. Pensate a una parata concava di spigoli, diedri e muri che, dallo zoccolo frantumato, si susseguano “al di là della verticale”, come scrive uno dei protagonisti di questa storia – Georges Livanos – e oltre la cresta di vetta riposino nel dolce regno di Fanes. Vertigine e pace convivono nel colpo d’occhio, specie se si osserva la croda dal santuario che le dà il nome.
Più che una cima, il Sasso di Santa Croce (Sas dla Crusc in ladino) è un gruppo montuoso. La più alta è Cima Dieci (Piz dales Diesc), che raggiunge i 3.026 metri, la più conosciuta grazie alla posizione dominante nel panorama dell’Alta Badia è il Monte Cavallo (L’Ciaval), alto 2.907 metri.
Che non sia una montagna qualunque lo dice la leggenda. Nell’oscurità di una crepa del Sas dla Crusc viveva un terribile drago. Aveva pelle di serpente, lunghe gambe che terminavano con artigli affilati e una bocca capace d’inghiottire una persona intera. In valle si diceva che il drago sbranasse chiunque osasse avvicinarsi. I contadini non mandavano più il bestiame al pascolo, ma il drago scendeva nelle stalle a divorare gli animali. Per fortuna nel castello di Brach viveva il Gran Bracun, un eroe locale, che appena venne a sapere del mostro ne fece una sfida personale. Un giorno cavalcò fino ai margini della foresta, si spinse alla crepa in cui viveva il drago, estrasse la spada e si scagliò contro la bestiaccia. La battaglia fu breva ma intensa, e alla fine il Bracun riuscì a trafiggergli il cuore.
Probabilmente il famoso scalatore marsigliese Georges Livanos (le Grec) e il compagno Robert Gabriel non conoscono affatto la leggenda, ma nel 1953 basta guardare la grande parete per impaurirsi. Il fatto che non sia stata ancora salita parla chiaro. Infatti ne nasce un’avventura epica, anche se, con la ben nota ironia, le Grec ridimensiona l’impresa. Occorrono vari tentativi e una mole di materiale quasi disumana. La cattiva qualità della roccia non giova affatto alla progressione, prima, e alla fama della via, poi. Livanos e Gabriel salgono lo spigolo ovest del Ciaval in quattro giorni, dal 12 al 15 agosto, impiegando trentun ore effettive di arrampicata e centosettanta chiodi da roccia. A ferragosto scendono a valle sotto una pioggia torrenziale e il gestore del rifugio – scrive le Grec – «pensando che si possa dubitare della nostra impresa, stende un autentico certificato con firma e sigillo, dichiarando di essere stato testimone oculare della prima ascensione».
Passano gli anni. Molti. Dopo il logicissimo itinerario di Mayerl e Rohracher sul grande diedro centrale, nel 1962, bisogna aspettare il fatidico 1968 perché arrivino i fratelli Gunther e Reinhold Messner a tentare il pilastro di mezzo. «Avevamo bivaccato in un buco sulla grande cengia e alle 8 eravamo partiti – scrive Reinhold –. Dopo due brevi tiri di corda il pilastro diventava giallo e verticale. Traversammo finché fu possibile, piantammo un chiodo ad anello e pendolammo fino a una rampa. Su questa ci portammo a un piccolo pulpito… ma ora?» Messner riesce a scalare due metri “straordinariamente difficili”, cerca un buco, pianta un chiodo a lama corta, fa un altro passo e trova finalmente un paio di appigli e un diedro vagamente fessurato che lo portano su una cengetta. «Che faccio?», si domanda di nuovo. Tornare indietro è impossibile. «Devo tentare! Sopra c’è un piccolo appiglio, giusto per metterci le unghie. Se riesco a prenderlo… Poi devo alzare al massimo il piede destro, sollevarmi con un movimento ben bilanciato e prendere la lama con la mano sinistra… Oggi non so più come ho fatto ad arrivare su. So solo che mi ritrovai sopra, sollevato e pieno di gioia, e tutto era sembrato facile».
Passa un decennio e nessuno riesce a ripetere la via dei fratelli Messner. Anche i più forti scalatori sono costretti ad arrendersi e calarsi, lasciando cordini morti a testimonianza dei loro fallimenti. Cresce la leggenda e il famoso muretto di quattro metri diventa un giallo; alcuni malignano che non esista nemmeno, finché nel luglio 1978 arrivano Heinz Mariacher, Luisa Iovane e Luggi Rieser, che rappresentano la nuova frontiera dell’arrampicata. Mariacher non trova il passaggio chiave della via Messner e lo aggira con una variante, poi s’informa, ritorna in parete, scala la placca e la valuta ottavo grado inferiore! «Per me il Pilastro di Mezzo – scrive Heinz dopo la ripetizione – simboleggia il punto massimo dell’evoluzione avvenuta sulle Alpi, non importata dall’Inghilterra o dall’America».
Undici anni dopo è la volta di un altro itinerario eccezionale: Mephisto. Gli autori sono Reinhard Schiestl e ancora Luggi Rieser che, come scrive il ripetitore della via Sergio Antoniazzi, «formarono una cordata irresistibile negli anni ’70 e ’80. Furono protagonisti di alcune realizzazioni di altissima difficoltà, capaci di salire la Torre Trieste per la via Carlesso e di tornare a valle per la Cassin, arrampicando. Schiestl, nel 1980, in “free” solo scalò la via Jori sulla Nord dell’Agner in 1 ora e 25 minuti… Il 16 luglio 1979, Schiestl e Rieser crearono una via leggendaria: Mephisto sul Sass dla Crusc, un’avventura di 500 metri di difficoltà di VIII- con protezioni davvero minime (usati solo 5 chiodi) conclusa in appena 5 ore». Il fuoriclasse austriaco Hansjörg Auer salirà Mephisto in free solo il 26 agosto 2015.
Quasi tutti i protagonisti del Sas dla Crusc sono scalatori eccezionali, da Christoph Hainz e Kurt Astner che nel 1994 aprono Auf die Felsen ihr Affen (VIII+), a Helmut Gargitter e Renato Botte che nel 2003 si distinguono su Loss lei, heb schun (IX-), e allo stesso Hauer che, nel 2005, firma con l’amico Schreiber la notevole Silberschrei (IX), a destra del grande diedro.
Il resto della storia possiamo affidarlo alla creatività e ai racconti di Nicola Tondini, l’apritore più attivo nel terzo millennio, a dimostrazione che il Sas dla Crusc resta un laboratorio per la scalata d’avanguardia. La storia di Tondini comincia tra il 2006 e il 2008, con Nicola Sartori e Michele Zandegiacomo: prima salita e prima salita in libera della Perla preziosa (IX+), una via estrema che esplora lo spazio tra il Diedro Mayerl e la via Messner al Grande Muro. Cinque giornate in parete distribuite su due anni di ricerca con il «sogno di aprire una via in libera e in stile tradizionale». Il sogno è quasi esaudito, con due soli spit sul sesto tiro di corda.
Due anni dopo Tondini torna con Ingo Irsara per salire e liberare Menhir, sul Pilastro di Mezzo del Sas. Si tratta di un itinerario geniale che sale in tre tiri le placconate nere a destra della famosa via dei fratelli Messner e poi, dopo uno slalom tra i tetti gialli, con altre due lunghezze supera lo specchio grigio superiore.
Tondini e Irsara firmano infine la via più estrema della parete – Quo Vadis – e la liberano nel 2012, sfiorando il X grado. «Io e Ingo – scrive Nicola – avevamo vissuto un’esperienza mentalmente molto impegnativa, che ci aveva portato al limite delle nostre capacità di apertura in uno stile il più possibile puro: protezioni tradizionali su chiodi e friend, con sole due sezioni più “sportive”, ma prima di offrirla ai ripetitori volevamo renderci conto di cosa avevamo creato, percorrendo tutti i tiri in libera… Il totale si è rivelato molto più duro della semplice somma delle parti. Ne è risultato, secondo noi, un capolavoro di logicità, che a parte pochi metri ha una connotazione fortemente alpinistica e che ora offriamo volentieri alle tante forti cordate che girano sulle Alpi».