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Le sue montagne

«Le montagne attorno a Torino, visibili nei giorni chiari, e a portata di bicicletta, erano nostre, non sostituibili, e ci avevano insegnato la fatica, la sopportazione, ed una certa saggezza» ricorda Primo Levi sintetizzando il senso del suo alpinismo. È la dichiarazione di un giovane con gli occhi ben aperti sui profili delle Alpi – i mari misteriosi di chi nasce sotto la Mole – e la mente spalancata all’avventura. «La montagna per noi era il surrogato dei viaggi che non si potevano fare alla scoperta del mondo, e di noi stessi; le nostre letture: Melville, Conrad, Kipling, London. L’equivalente casalingo di quei viaggi era l’Herbetet». Ma prima dell’Herbetet, altissimo sopra la conca di Cogne, che Levi salirà in solitaria per sentirsi forte nonostante il fisico gracile e le braccia da studioso, vengono i domestici profili che cingono la sua città, dal triangolo ipnotico del Monviso (con cui Primo sembra avere scarsa confidenza) alle valli storiche dei torinesi: Sangone, Susa, Lanzo, Orco e Gran Paradiso. Da classico figlio della borghesia subalpina comincia con qualche sana e noiosa scarpinata sui sentieri, il pegno che si paga al privilegio delle villeggiature, e poi si stacca dalla famiglia per fare di testa sua. Dopo il liceo, mentre decide di dedicarsi agli studi di chimica, comincia a corteggiare la scalata e il vuoto, legandosi a qualche amico più sconsiderato di lui o sperimentando l’ebbrezza e i rischi del primo di cordata. «Per me gli anni della montagna hanno coinciso con gli anni della giovinezza, e quindi del pericolo e della sofferenza. Questa esperienza mi è stata preziosa, perché proprio in montagna ho imparato alcune virtù fondamentali: la pazienza, l’ostinazione, la sopportazione» dichiara nel 1982 in un’intervista a Giorgio Calcagno. Quando scrive di montagna – e lo fa spesso visto che la parola ricorre ben 95 volte negli scritti, ha calcolato Jana Nystedt – Levi non si riferisce all’apprendistato tragicomico delle vacanze alpine di certa borghesia («Nella mia famiglia c’era la tradizione della montagna che fortifica, un po’ l’ambiente che Natalia Ginzburg descrive in Lessico famigliare»), ma intende il vero alpinismo, che, per quanto facile, è uno schiaffo alla prudenza benpensante e a ogni sudditanza, regola e imposizione, compresa la discriminazione razziale. L’alpinismo che gli piace, la montagna che vuole, si fanno con abiti spartani – niente giacche imbottite, niente scarponi alla moda – e materiali poveri, che sono gli strumenti del confronto primordiale che non ammette scorciatoie: camicia e maglione di lana, giacca di tela, due o tre chiodi a lama di ferro, moschettoni, martello e corda di canapa. Prima della guerra, e anche dopo, le pareti che non portano su una cima si chiamano palestre di roccia e servono a imparare il mestiere. Torino gode di una buona scelta di palestre e Levi le frequenta quasi tutte, dagli speroni di gneiss del Pinerolese alle creste di serpentino delle Valli di Lanzo. Nel racconto Ferro cita testualmente «i Picchi del Pagliaio, i Denti di Cumiana, Roca Patanüa (Roccia Nuda), il Plô e lo Sbarüa», dunque possiamo immaginarlo impegnato sugli appicchi del Torrione Wolkmann in alta Val Sangone, forse sulla via Boccalatte alla Piramide del Plu in Val d’Ala, di sicuro ai tre Denti e alla Rocca Sbarua, o Monte Freidour, in Val Lemina. Sbaruvé in piemontese vuol dire “spaventare”, infatti i montanari hanno paura di quelle rocce e guadagnano la cima del Freidour tuttalpiù per riprendere una capra fuggita. Talvolta salgono il Dente orientale di Cumiana, che con i due gemelli prolunga e completa l’anfiteatro geologico di Cantalupa; in vetta si trova una cappella. Nel 1927, circa dieci anni prima che Levi metta le mani sulla roccia, l’arrampicatore Ettore Ellena registra sul diario di montagna le prime scalate sulle rocce della Sbarua. Nel 1937 il grande Giusto Gervasutti sale con Ronco la più bella fessura della parete, una temeraria arrampicata alla dülfer, e intanto frequenta i Tre Denti, simili ai profili granitici del Monte Bianco. Per i piemontesi la via del Brik e lo spigolo del Dente orientale sono il tradizionale checkup di fine inverno – con i primi caldi primaverili si va a riprovare i passaggi per misurare lo stato di forma – e probabilmente Levi imita i forti sul Brik, sullo spigolo del Dente e sulla normale della Sbarua, un quarto grado. Forse, ma non abbiamo le prove, tenta anche la via di Gervasutti. La prima avventura alpina è un mezzo disastro: a Bardonecchia, con un amico, sale d’impulso e senza attrezzature adeguate verso la Catena dei Magi, ma i due ragazzi sono sorpresi dal buio durante la discesa e devono intervenire i soccorsi. Una figuraccia, e una lezione. Tuttavia Bardonecchia e l’alta Valle di Susa restano mete privilegiate, perché c’è il treno che porta fin sotto le montagne e, in alternativa alla bicicletta, la ferrovia è un fantastico mezzo di trasporto. Nel 1940, con Delmastro sale il Monte Thabor, come testimonia una foto di Sandro appoggiato alla chiesetta in vetta. All’epoca va di moda anche la Torre Germana in Valle Stretta, una specie di dolomite in versione piemontese, ma non sappiamo se ci sia stato. Per certo frequenta il Colle del Sommeiller, quando era ancora ricoperto di neve, e Sauze d’Oulx, che cominciava a diventare la località mondana degli sport invernali. Sicuramente scala nella valle centrale di Lanzo, segnatamente all’Uia di Mondrone, e probabilmente alle Lunelle, altra storica palestra dei torinesi insieme a Rocca Sella, lo sperone che si arrampica proprio in faccia alla Sacra di San Michele. «Partii con Delmastro e con Alberto Salmoni – confida ad Alberto Papuzzi e a me nel 1983 –, a piedi di notte da Bard a Champorcher: il giorno dopo, con gli sci, e con 30 chili a testa negli zaini, dovevamo traversare fino alla cosiddetta Finestra di Champorcher, poi scendere, risalire la Valeille, raggiungere Piantonetto, puntare sul Gran Paradiso… Era un’idea di Delmastro, il quale più si faticava più era soddisfatto. Io rinunciai già a Cogne». Il Gran Paradiso è probabilmente il massiccio preferito, a giudicare dall’entusiasmo e dalla frequenza con cui ne scrive e parla. Lo è anche per Delmastro, che apre una mezza via sul Gran San Pietro e ama i valloni eterni, solitari. Nelle frequentazioni di Levi spiccano Lillaz e Cogne, il rifugio Vittorio Sella al Lauson, il bivacco Martinotti sotto la Roccia Viva e il selvaggio ghiacciaio della Tribolazione, ai piedi del Piccolo e Gran Paradiso. L’Herbetet è il suo Cervino, o il suo Everest. Gli orizzonti montani si allargano alle Alpi centrali quando si trasferisce in Lombardia per lavoro, nel 1942. Come ricorda Eugenio Gentili Tedeschi, la montagna è un collante per i giovani ebrei torinesi che passano un periodo storicamente fondamentale, tra il 1942 e il 1943, a Milano. «Le dedicavamo il nostro tempo libero e ne ricavavamo dei modelli di comportamento, inconsciamente intesi a costruirci una identità al di là delle timidezze imposte da una educazione moralista e repressiva, come si usava nelle buone famiglie, assommando robuste componenti ebraiche e piemontesi. Ci si emozionava di fronte ai grandi spazi e alle nostre modeste conquiste…»  Tra queste, per Levi, c’è la cima del Disgrazia, che lo vede in posa in una foto dell’agosto 1942 dopo il rocambolesco insuccesso di un mese prima con Silvio Ortona, reso noto nel divertente racconto Fine settimana.Frequenta anche le Grigne sopra Lecco e si spinge almeno una volta sulle Dolomiti, tra Val Gardena e Val di Fassa, senza dichiarate ambizioni alpinistiche. Dopo la prigionia, il campo e la liberazione, torna in montagna con spirito assai diverso. Lo ritroviamo in Valnontey, ancora con l’elegante Herbetet di sfondo, e sui monti di Gressoney, dalla Testa Grigia alla Punta Gnifetti. Poi città e ricordi lo imprigionano e le cime si allontanano.