Pubblicazione

Campanile Basso

Granito e calcare non sono soltanto due tipi di roccia, ma due archetipi verticali. Chi scala pareti e montagne li riconosce come il lato maschile e femminile di se stesso: la duplice espressione della vertigine.

Quando ero ragazzo andava di moda Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse, un classico racconto di formazione. Narciso era un orgoglioso asceta proiettato verso le vette assolute dello spirito, Boccadoro un romantico vagabondo avido di vita e assetato d’amore. Quando finiva in carcere rischiando il capestro veniva salvato dal nobile Narciso all’apice del cammino spirituale, ma il monaco riconosceva la superiorità dello scapestrato Boccadoro: «Le nature come la tua – gli confessava Narciso – sono dotate di sensi forti e delicati; voi siete gli ispirati, i sognatori, i poeti; gli amanti sono quasi sempre superiori a noi uomini di pensiero. La vostra origine è materna, vivete nella pienezza, avete la forza dell’amore e dell’esperienza viva… La vostra patria è la terra, la nostra è l’idea. Il vostro pericolo è di affogare nel mondo dei sensi, il nostro di asfissiare nel vuoto. Tu sei un artista Boccadoro, io un pensatore. Tu dormi sul petto della madre, io veglio nel deserto. A me splende il sole, a te la luna e le stelle, e i sogni delle fanciulle…»

Boccadoro ribatteva con argomenti speculari, ma la contrapposizione restava insanabile: da un lato c’era la meditazione interiore riflessa in pensieri elevati e azioni frenate, dall’altro l’estroverso gioco della vita; il rigido insegnamento dei padri, oppure una carezza di madre; le solenni limitazioni dell’etica, oppure la burrasca del gesto creativo. Da un lato il granito e dall’altro il calcare.

La materia rocciosa diverge non solo dal punto di vista estetico. Il granito è una pietra eruttiva, monolitica, di foggia semplice e primordiale, il calcare ha origini sedimentarie e si mostra plastico alla vista e duttile al tatto. Il granito è materia pura e intransigente, senza linee di compromesso, mentre il calcare è il risultato di molte ibridazioni. Uomo granitico vuol dire testa dura; uomo calcareo forse non significa niente, ma se esistesse sarebbe uno che si sa adattare. Se dico “domani vado a scalare” non ho ancora detto niente perché prima devo fare una scelta – granito o calcare? –, che sono due interpretazioni del mondo e della vita: maschia e introversa la scalata del granito, duramente segnata da fenditure, diedri, lastre e scudi, variamente scolpita quella del calcare, di solito esterna, tendenzialmente femminile. Spesso sul granito c’è un solo modo per superare il passaggio, invece il calcare si lascia inventare, interpretare, danzare.

Anche il paesaggio è diverso. La valle di granito è solitamente incassata e severa, l’altra è addolcita dagli orizzonti. Sugli altopiani calcarei il bosco sale a toccare la roccia e le crode decollano per spianare altrove; i valloni si aprono, le persone s’incontrano. Torna alla mente l’antica querelle tra occidentalisti e dolomitisti al tempo del fascismo, un po’ prima che Balzola cominciasse ad arrampicare, quando gli alpinisti delle Alpi occidentali dileggiavano quelli delle Dolomiti in quanto interpreti di un alpinismo minore. Che alpinismo è se manca il gelo e non si lotta sui ghiacciai?, dicevano gli uomini dell’ovest. I Monti Pallidi erano bollati come “paracarri” di bassa quota, guglie di mare, relitti di scogliere, ammassi di conchiglie. Sulle crode dolomitiche gli scalatori si permettevano di salire senza gli scarponi e la piccozza, simboli sacri della Montagna, danzando leggeri e scanzonati sotto i raggi del sole. Quello non era alpinismo — gufavano gli occidentalisti —, ma un’esibizione da circo.

Naturalmente avevano torto, e gli sarebbe bastato avvicinare le vertigini del Campanile Basso per riconoscere l’errore. Nessuno scalatore può restare insensibile all’apparizione quasi metafisica del Campanile di Brenta, e neppure un artista. Penso all’emozione di Gino Balzola, che era insieme alpinista e artista, e amava spaziare tra le Alpi di casa e le altre per assaporare le differenze dei profili, dei colori e delle emozioni. Ha arrampicato sulle Alpi Marittime, sul Monte Bianco, nel gruppo del Cengalo e del Badile e sulle Dolomiti, dalle Cime di Lavaredo al Campanile Basso.

Il Basso è un prodigio della geologia. Visione fantastica dal lato di Molveno (quello della fotografia), se le nuvole acconsentono. Distinguendolo tra le guglie degli Sfulmini, i contadini di Cembra lo battezzarono il campanile delle Strie: le streghe. Per i cantori della montagna eroica divenne l’Urlo pietrificato. Immaginate una torre campanaria di dolomia dalle forme così eccessive e improbabili che gli alpinisti, staccandosi da terra, talvolta si domandano se l’obelisco sarà in grado di reggere il loro peso. C’è un solo punto debole nell’architettura: a mezza altezza il Campanile è attraversato da una cengia – lo “Stradone provinciale” – che ha permesso ai primi salitori di ingannare gli strapiombi con un geniale itinerario a spirale, l’attuale via normale, che aggira il pauroso appicco della parete est per agguantare la vetta dall’altra parte.

Sullo Stradone passarono per primi il fotografo trentino Carlo Garbari, il portatore di Covelo Nino Pooli e la guida di Primiero Antonio Tavernaro, nel 1897. Portandosi sullo spallone ovest i tre scalatori raggiunsero la terrazza dell’Albergo al Sole, poi un terrazzino sotto l’ultima parete di trentacinque metri. Pooli riuscì a scalarne una dozzina, ma alla fine dovette rinunciare e i pionieri se ne andarono lasciando un biglietto in una bottiglia. Due anni dopo, nel 1899, arrivarono due ragazzi di Innsbruck: Otto Ampferer e Karl Berger. Studenti di geologia, forse intuirono le bizzarrie della dolomia e quando si trovò sul terrazzino sotto l’ultimo muro, Ampferer si affidò completamente al vuoto e si spinse qualche metro sulla parete nord, scoprendo il passaggio in leggera discesa che il giorno dopo lo portò in cima al mitico Campanile.

Mancava il sogno dei sogni – la parete est – e nel luglio del 1911 l’austriaco Paul Preuss firmò il capolavoro, salendo slegato il muro orientale. Era il più audace flirt con la vertigine immaginabile da uno scalatore del suo tempo (e non solo), non tanto per la difficoltà di quinto grado – eguagliata e superata dalla guida ampezzana Angelo Dibona –, quanto per la concezione e lo stile. Preuss mise piede sullo Stradone provinciale il 28 luglio 1911. La via normale se ne andava a destra, ma Paul non era uomo da aggiramenti; venerava l’estetica e odiava i patteggiamenti. Dunque si rimboccò le maniche, strinse i lacci delle scarpe, salutò i compagni e si appese al muro grigio di centodieci metri, danzando per due ore sulla punta delle dita. Dopo un viaggio solitario nell’avvenire, ritrovò gli amici in vetta.

Sono sicuro che anche l’artista Balzola incontrò lo spirito di Paul Preuss sul Campanile Basso, perché la roccia le terrà anche su, ma le montagne sono fatte di sogni.

Enrico Camanni