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La Stampa: selezione di articoli

Bellezza maledetta
24 giugno 2007

Nella prima metà degli anni settanta si aggirava in Valsavarenche un mitico esemplare di camoscio bianco. Le rare fotografie lo mostravano superbo, bello, e soprattutto eccezionale. Una di quelle meraviglie della genetica che si presentano una volta, nella vita di un uomo. O le sai cogliere, e te ne penti per sempre. Ricordo che, adolescenti, partimmo alla ricerca dell’animale misterioso, e il destino volle che in giugno si incappasse in una tempesta da pieno inverno, così che il camoscio scomparve in un bianco assai più grande di lui, e il nostro sogno rimase chimera, miraggio, materia di un altro mondo. Ora che sono passati anni, e gli anni insegnano che non esistono altri mondi ma altri occhi, semmai, la notizia dello stambecco bianco fotografato sulle pendici del Monte Emilius mi fa pensare con i suoi, di occhi. Lo vedo bellissimo anche lui, ed eccezionale, certamente, ma nascere belli può voler dire essere soli, perché il mondo la sfrutta, o ne ha paura, della bellezza. E nascere eccezionali vuol dire essere diversi, che forse per uno stambecco, anche per lui, è motivo di distacco aristocratico, o di pregiudizio raziale, o di attenzioni morbose da parte degli osservatori, umani e non. Se sei bianco non puoi confonderti nel branco, non puoi passare inosservato, non puoi concederti una vacanza, ma l’unica parentesi consentita è quella del distacco o della fuga, come succede a certi principi o re che hanno tutto ma non possiedono niente. Quindi, caro stambecco bianco, non verrò a cercarti questa volta, ma ti penserò come si pensa a un essere baciato dalla genetica e calpestato dal destino, destinato a una vita difficile, forse tragica, probabilmente sola. Se lotterai per una femmina diranno che vinci perché sei bianco, o che perdi perché non vuoi rovinarti un corno. Se avrai una femmina penserà che non ti merita, oppure che non sei meglio di uno stambecco normale, a fare all’amore. Sì, forse era meglio se nascevi beige, caro stambecco bianco.

Montagna dimenticata e ferita
21 luglio 2007

«E voi, popolo felice, mai la stirpe nera dei vizi ha attecchito nei vostri animi – scrive lo svizzero Albrecht von Haller nel 1729, in un poemetto alpino che raggiungerà l’undicesima edizione –, la natura vi è sufficiente con i suoi beni gratuiti… Nessun nemico si annida nei vostri petti, né mai il rimorso tardivo paga la gioia con il sangue; non vi sommerge nessun vortice di desideri sfrenati, contro cui la ragione ostenta vani insegnamenti… Serena è la vostra vita, e naturale la morte».
Dopo Haller e Rousseau le Alpi diventano un oggetto di desiderio, e per molti rappresentano il paradiso perduto. I cittadini sognano le montagne, nasce il viaggio alpino, crescono il turismo e l’alpinismo, ma questo strano esodo che risale le valli controcorrente, portando denari e illusioni, coincide con la crisi dell’economia rurale alpina, che si manifesta soprattutto nelle fasce di media montagna con una rapida emorragia della popolazione contadina. La gente dei monti scende al piano, i villaggi si spopolano e gli alpeggi tornano a coprirsi di boschi.
Gli impianti industriali che si insinuano nelle basse valli e lungo le principali vie di transito bilanciano in parte l’esodo dei montanari, ma un mondo è finito per sempre. Pochissimi riescono a conciliare la fabbrica con i campi. Così i giovani fuggono verso le città e i vecchi restano a presidiare villaggi fantasma popolati di ricordi. In montagna non nascono più bambini.
Turismo, esodo e industrializzazione sono le tre facce delle Alpi, perfettamente rappresentate dalla fotografia novecentesca della Valle di Susa.
L’alta valle è stata trasformata dall’industria dello sci. Il modello urbano si è trasferito in quota con le città della neve (Sestriere, Sauze d’Oulx, Sansicario, Bardonecchia) e la montagna è stata attrezzata come un parco splendente di luci, ma per due o tre mesi soltanto. La media valle, al contrario, si è spopolata né più né meno delle valli povere, perché fondata ancora sull’economia della terra e sull’eredità della cultura tradizionale, mentre la bassa valle è un nastro dove la città ha collocato le sue industrie, e successivamente ville e case alla ricerca di spazi verdi e nuovi stili di vita. Sì, la Valle di Susa è una specie di paradigma della realtà alpina, dove in un poche decine di chilometri convivono situazioni e processi storici non solo distanti, ma addirittura in conflitto tra loro. La Valle è una, ma incorpora tre mondi storicamente, geograficamente e culturalmente separati.
In questo senso va letta la resistenza dei valsusini alla linea ferroviaria ad alta velocità, che non è solo la lotta romantica di Davide contro Golia, e non è neanche una becera contrapposizione tra città e montagna, ma è la rivendicazione di un corpo strapazzato e mai risarcito, con la testa ridotta a parco giochi, il cuore che batte troppo piano e i piedi affondati nella modernità e nello «sviluppo», dove il lavoro si unisce al disagio e al conflitto sociale, in un territorio che è diventato corridoio per oleodotti, elettrodotti, strade, ferrovie e autostrade, infine polmone residenziale della nuova Torino che cerca spazio e conforto ai piedi delle montagne.
Che senso avrà mai il vino del ghiaccio in questa Valle di Susa, un nettare che nasce dal gelo? Credo abbia il senso delle cose antiche rigenerate da un pensiero nuovo. Nasce dalla terra della media valle, come a dire che tra la bulimia dello sci e la bulimia dei trasporti, entrambi in difficoltà, c’è bisogno di pensieri e di tecnologie che guardino alla qualità della vita. Semplicemente.

Grazie ai soldi i ghiacci tornano a far sognare
3 agosto 2007

Siamo sinceri, il Polo era in coda ai nostri pensieri. Se togliamo qualche avventuriero visionario, emuli fuori tempo di Amundsen o di Scott, ostinati sognatori di terre inesplorate, stravaganti solitari che rischiano senza guadagno (e non finiranno neppure sui giornali), sciatori in goretex che guardano la neve con gli occhi dei vecchi esploratori, navigatori senza satellitare, eroi senza spettatori, ebbene – esclusi questi signori – il Polo Nord era diventato un luogo inutile e dimenticato, al massimo un posto per ricchi viaggiatori, decollo volo emozioni atterraggio e ritorno compresi nel prezzo. Quando Reinhold Messner ha tentato il Polo Nord con uno dei tanti fratelli, che di professione fa il medico, si è accorto sulla sua pelle che più che una scalata (in orizzontale) era una navigazione su zattere di ghiaccio alla deriva, dove nemmeno gli sci bastavano a scavalcare crepacci spaventosi e iceberg destinati a tornare al mare. Sì, perché il Polo Nord è ghiaccio senza la terra di sotto, e per questo è più inquietante del Polo Sud e dei più spaventosi ghiacciai himalayani, per un alpinista abituato a dominare un vuoto fermo, non un abisso in movimento, o un luogo in liquefazione. Siamo sinceri, quando i climatologi ci ammonivano sulla scomparsa dei ghiacciai non gliene fregava niente a nessuno, salvo qualche romantico adoratore delle cime, o quelli che il ghiaccio lo scalano, e sono pochi. Per il whisky di ghiaccio ce n’era ancora, e questo ci bastava. Poi abbiamo cominciato a vedere in televisione pezzi di Polo Nord che veleggiavano verso mari sempre più caldi, sciogliendosi nell’oceano. I climatologi ci hanno spiegato che quella era acqua dolce, la più grande riserva del pianeta, e che senza acqua dolce l’uomo muore. Allora qualcuno ha cominciato a preoccuparsi, anche se il Polo Nord restava un posto lontanissimo, più distante sui nostri schermi che nei pensieri di Amundsen o di Scott, e in fondo le fontane continuavano a buttare acqua, e questo ci bastava. Cent’anni fa il Polo era un mito, e per i miti si può anche perdere il sonno, ma adesso sono tutte terre (ghiacci) conquistate, e sull’Everest ci vanno le spedizioni commerciali, se paghi ci portano anche te. Ma i climatologi non demordono, e i pessimisti insistono che se il Polo si scioglie il livello dei mari sale, e prima si mangiano le spiagge, poi le coste e infine le città. Allora qualcuno ha pensato “se è vero siamo proprio spacciati”, ma gli ottimisti hanno ribattuto che bastava costruire le ville più in alto sulla collina, e tutti avrebbero avuto il loro golfo a buon mercato, vista mare garantita. In fondo, hanno aggiunto gli ottimisti, il clima ha sempre fatto quello che voleva, e se ci sono delle conchiglie sulle Dolomiti vuol dire che una volta stavano nel mare. Ma i climatologi, ostinati, hanno detto che questa volta era colpa dell’uomo se il Polo si scioglieva, e che solo l’uomo poteva fare qualcosa per far tornare a casa quei pezzi di ghiaccio che veleggiavano nel mare. Allora altri climatologi, gli ottimisti, hanno detto che l’uomo non c’entrava niente, e che non c’era niente da fare. Il mercato segue le sue leggi, e il mercato non lo si può fermare neanche se un iceberg grande come la Sardegna va a sciogliersi nell’oceano.
Infine qualcosa è cambiato, fino al punto da muovere le navi e i sottomarini, e scomodare le grandi potenze. Merito dei climatologi? Sembra di no. Forse di quei pazzi visionari che cercano il Polo come si cerca l’isola che non c’è? Figurarsi. Che la gente abbia unito le forze per convincere i grandi a fare qualcosa? Non risulta. Merito di chi, allora, se il Polo è tornato nei nostri pensieri? Ma del mercato, naturalmente. Non era solo ghiaccio, evidentemente.