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La Stampa: selezione di articoli

Aprite gli occhi, il montanaro è nudo
4 giugno 2002

Scrive un montanaro di Córteno Golgi, in Valcamonica:
«Noi abitanti delle valli e dei monti siamo diventati sempre più marginali a mano a mano che secoli di “Civiltà” si accatastavano.
Non lo eravamo (poiché inconsapevoli) migliaia di anni fa, quando pagani e liberi nella miseria scolpivamo le rocce prima di mungere le capre all’imbrunire, o costruivamo lance per cacciare i caprioli e trappole per scacciare gli orsi. Allora avevamo quali padroni e nemici solo gli elementi naturali, le superstizioni e gli sconosciuti abitanti delle vallate vicine, con i quali ci scontravamo durante il pascolo e le battute di caccia.
Marginali lo siamo stati già un po’ di più quando fummo periferia estrema d’una provincia dell’Impero Romano, con Valeriano che pur fece costruire l’omonima mulattiera, rimasta ancora oggi – unica via di comunicazione – quasi la stessa. O con Carlo Magno che passò di qui con le sue truppe, forse fondò un castello e una chiesa, e certo non poté infliggerci molte più gabelle di quante già la natura c’infliggeva.
Dimenticati e ininfluenti lo siamo stati quando, praticamente abbandonati da qualsiasi Cesare, siamo a malapena sopravvissuti alle orde barbariche, o siamo stati costretti a mischiarci con esse. Terra di nessuno, e di tutti. Di tutti quelli che da Valtellina a Valcamonica (o viceversa) transitavano, allora non certo per turismo.
E marginali lo siamo stati con la Milano degli Sforza e dei Visconti, indi con la Venezia dei Dogi (o con le “illuminate” dinastie dei Grigioni), dei quali conoscevamo direttamente gli editti e i vassalli, anche se non partecipavamo certo, nemmeno lontanamente, allo sfarzo delle Corti. Con buona pace del Clero, immischiato col potere temporale, direttamente amministrato o condiviso. Colmo dei colmi, la Serenissima da noi distrusse anche le più scenografiche evidenze esteriori: i castelli.
Siamo stati più che marginali (giusto sarebbe dire oppressi, come quando un esercito straniero invade il nostro suolo) con l’occupazione napoleonica prima e con quella austriaca poi. Abbiamo partecipato e pagato tributi d’eroismo e sangue al Risorgimento e alla Resistenza, ma ne abbiamo avuto solo lapidi e qualche medaglia. Altri, vicino a noi, profittavano delle pur nobili lotte irredentiste per guadagnarsi con modesti meriti politici strepitosi privilegi economico-istituzionali, rimasti immutati pur col mutare delle condizioni che li avevano generati.
Siamo marginali oggi, e al massimo grado. Con la globalizzazione che avanza silenziosa ed inarrestabile, che cancella le specificità e che rende vieppiù puerili i nostri sforzi per mantenere viva la flebile (ed eroica) economia locale e una cultura contadina che va in ogni caso scomparendo. Non più le acciaierie, di cui eravamo fieri anche se non erano nostre, ma le banche pigliatutto. E il turismo, che pur essendo il male minore, in parte ci snatura e rende culturalmente omologhi – complice la sciocca TV – ai nostri stessi ospiti. Ma, crollata l’agricoltura e in fase post-industriale, non ci resta che quello. Niente più fierezza contadina, magari ingenua ma genuina; non più orgoglio della propria identità culturale, ma piuttosto vergogna di testimoniarla, e ridicola emulazione dei modelli esterni. Senza renderci conto della nostra totale subalternità culturale e dell’ormai assoluta marginalità: economica, culturale, politica. Ridotti a infinitesimali ingranaggi periferici delle multinazionali, ad accoliti inconsapevoli della massificazione. Totalmente marginali nell’agricoltura e nella zootecnia, che stiamo disimparando, benché fossero fino a pochi decenni orsono la nostra vita. Totalmente marginali nell’industria, salvo rarissime eccezioni. Totalmente marginali nella politica: del resto in democrazia hanno ragione i numeri, non altro.
Dicevamo del turismo, l’unico spiraglio che ci resta. Ma dobbiamo quasi completamente imparare a farlo».
Un’analisi lucidamente antiretorica e realisticamente provocatoria, lontana duecento anni – ma sembrano mille – dal mito ottocentesco del fiero alpigiano autarchico; una rappresentazione impietosa del montanaro del terzo millennio, stretto tra emarginazione e globalizzazione. Altro che Alpi terra degli uomini liberi! Altro che dignità delle radici contadine e orgoglio della diversità alpina! Aprite gli occhi: il montanaro è nudo!
Un buon punto di partenza, indubbiamente. La coscienza critica di sé e della propria storia è premessa necessaria per non scivolare sugli ingenui ottimismi del passato e non cedere ai nuovi venditori di lusinghe. Ma c’è un pericolo altrettanto grave, e forse di più: è il rischio del vittimismo, nemico sempre in agguato quando un montanaro parla della sua valle e del suo futuro.
Il complesso di subalternità nei confronti della civiltà urbana opera come un tarlo che rode l’animo dei valligiani e soffoca ogni alito di riscatto. Il pessimismo esistenziale pervade le comunità alpine (specialmente le più chiuse ed emarginate, spesso auto recluse) celandosi dietro diverse spoglie: nel masochistico senso di appartenenza a un mondo in via di estinzione, nell’antico fatalismo montanaro trasformato in moderno nichilismo, nel vecchio e saggio senso del limite reinterpretato come sintomo di impotenza. Questi sentimenti variamente intrecciati generano un cortocircuito di atteggiamenti negativi quali la diffidenza, il settarismo, l’avidità, l’indifferenza, la non accoglienza, vizi ricorrenti nelle comunità chiuse e tipiche difese di chi ha scelto di vivere in trincea anche se la guerra è ormai finita da tempo, o guerra non c’è mai stata.
«La somma di orgoglio e di servilismo che caratterizza la psiche della maggior parte dei sudtirolesi – scrive Reinhold Messner – porta a quel sentimento di autosufficienza che non lascia spazio all’autocritica… Rimpiangendo il paradiso della mia infanzia, decisi di fuggire sulle montagne. Mi costruii una casa in legno usando i tronchi e le pietre dell’alpe. Le sere erano lunghe e i pensieri liberi. In seguito mi trasferii nella vecchia canonica sul colle di St. Magdalena. Un meraviglioso pezzo di terra! Da lassù non vedevo gli alberghi che spuntavano come funghi nella valle, né udivo il traffico che andava aumentando di anno in anno; e sul terreno tutt’intorno a casa mia c’era il divieto di costruire. Nessuno mi poteva chiudere il panorama. Ma come si diventa rapidamente miopi e presuntuosi quando si vive appartati!».

«Porre un limite all’illimitato diritto di usare serve a comprendere che merita rispetto»
10 luglio 2002

Perché tassare l’accesso agli ultimi beni “gratuiti” di questo mondo? Perché regolare con un’imposizione in denaro ciò che è stato creato da spiriti liberi per uomini e donne liberi? Città d’arte, isole, montagne, paesaggi artistici e naturali: non fa molta differenza. Quel che conta è che si pone un vincolo a ciò che vincoli – per definizione – non dovrebbe avere: l’arte, la cultura, la natura. Si tende a imbrigliare ciò che è nato senza briglie e che ci aiuta a volare un po’ più in alto del solito orizzonte quotidiano. Un bel quadro, un bel paesaggio, non fa differenza.
E invece, paradossalmente, sono proprio la presunta “gratuità” di questi beni, e la loro indistinta appartenenza alla “cosa” pubblica, a rendere necessario il famigerato balzello che è rimbalzato sulle pagine estive dei giornali. Non certo per rimpinguare le casse delle amministrazioni comunali o dei parchi naturali: ci sarebbero molti sistemi più efficienti e remunerativi. E nemmeno per filtrare l’accesso alle bellezze più delicate con una sorta di numero chiuso: non bastano pochi euro a fermare le masse. Il significato del ticket è innanzi tutto simbolico, e consiste nel dare un prezzo a ciò che prezzo non ha. In questo mondo dove la gratuità non è un valore ma un difetto, qualsiasi meta – un monumento, un luogo d’arte, un’isola, una valle – che non costa niente (almeno in termini simbolici) rischia di diventare implicitamente qualcosa che non vale niente: un terreno di gioco, un luna park, un balocco di cui si può godere e abusare a piacimento.
Mi pare che in giro ci sia molto più rispetto per la proprietà privata che per la “cosa” pubblica: la proprietà è comunque un bene conquistato mentre quell’altra “cosa”, anche se si chiama isola della Maddalena, o piazza San Marco, o Tre Cime di Lavaredo, è di tutti come un diritto naturale, senza padroni, dunque senza limiti d’uso.
Questo è il paradosso, questa è la patologia, perché invece il bene pubblico è sempre il più fragile e indifeso, a meno che i suoi “proprietari” (cioè ognuno di noi) non imparino a reclamarlo come una ricchezza personale. Ed ecco allora che quella piccola quota che sborsiamo per l’accesso, quel tarlo sul nostro cammino, ci può aiutare a sentirlo anche un po’ nostro, il bene di tutti, e a difenderlo dalla troppa licenza senza cultura, dalla prepotenza del più ignorante, dalla demagogia della libertà.