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Joseph Gaspard e Ugo di Vallepiana: una straordinaria amicizia di guerra

Rassegna di studi, anno 7, 1999

La storia di Joseph Gaspard di Valtournenche, decorato nella Grande Guerra, è il racconto di una grande scalata e di una grande amicizia. Gaspard fu chiamato sulle Dolomiti nel 1916 da Ugo di Vallepiana, accademico del Cai, e con il tenente Vallepiana scalò il proibitivo camino della Tofana di Rozes che domina i torrioni del Castelletto. Quell’impresa li legò per tutta la vita, nella gioia e nella disgrazia.
Gaspard e Vallepiana probabilmente non si sarebbero mai incontrati se un freddo giorno d’inverno del 1913 il giovane Vallepiana non avesse accarezzato l’idea di una gita in sci sul Monte Rosa, che a quei tempi era come andare con le ali sulla Luna.
Joseph Gaspard di Valtournenche non calzava gli sci; aveva nove anni più di Ugo e ne dimostrava quasi il doppio; non era nobile, non era ricco, non era nemmeno istruito, ma gli alpinisti di mezza Europa avevano cominciato a rispettarlo dopo la prima salita della leggendaria cresta del Fürggen al Cervino – il vecchio sogno di Mummery e di Guido Rey – e la traversata invernale del Monte Bianco, passando per la cima. Di lì a qualche mese sarebbe partito per l’Himalaya del Kashmir al servizio di Mario Piacenza, per scalare i settemila metri del Kun.
La neve era alta sotto il Colle del Lys, neve inconsistente e ventata. Nell’algida luce dell’aurora invernale, Ugo e compagni intravidero tre puntini annegati nelle onde gelate.
“Ve l’avevo detto che non si era soli! Guardate là, sotto la Punta Parrot: saranno appena venti minuti davanti a noi” disse Vallepiana, e accelerò l’andatura.
“C’è gente che ci segue” disse Gaspard, e rallentò il passo.
In questi casi le cordate assomigliano a due navi che si studiano prima dell’abbordaggio. Prima non sono altro che sagome indistinte, anonime silhouette inghiottite dalla montagna, ma c’è un momento, durante l’avvicinamento, in cui si delineano delle personalità, vuoi per l’andatura, vuoi per il modo di reggere la corda, vuoi per la foggia dello zaino o il moto basculante della piccozza. Così Vallepiana aveva riconosciuto un valligiano modestamente vestito che saliva serio e mansueto in testa alla sua cordata. Non alto ma solido nell’aspetto, il baffo autorevole, il passo regolare, l’uomo lo salutò con un cenno di incoraggiamento:
“Buongiorno, come andiamo? Oggi fa poi ben freddo a quattromila metri!”
I modi franchi ma garbati esprimevano una dura tempra da montanaro affiancata a una naturale signorilità di stile. La cantilena valdostana non celava sottofondi di superbia o di rivalità, anche se l’interlocutore era inequivocabilmente un alpinista di città e portava sul maglione il distintivo del Club Alpino Accademico, il cenacolo dei “senza guida”.
“Meglio il freddo della nebbia” replicò pronto Vallepiana, che con tono arguto accendeva di calore ogni conversazione.
“Una volta mi sono perso su questo ghiacciaio, e non c’era verso di trovare il rifugio. Ci siamo messi a girare in tondo come delle trottole. Gira, gira, e si ritornava sempre nelle stesso posto. A momenti sa che si stava per scavare un buco nella neve e si pernottava là sotto, in un crepaccio!”
E Gaspard: “Lo so, lo so, è capitato a tanta gente. Si parte con il bel tempo e tutto sembra facile, poi basta un nuvolone lassù sul colle e ci si ritrova in alto mare. E allora si balla ben, accidenti se si balla! Ma oggi il tempo tiene, oggi non ci sono problemi.”
“Andate anche voi su alla Gnifetti? Possiamo venire su con voi?”
“Certo, certo, andiamo su insieme. Non correte troppo però, con quegli assi del diavolo!”
Salendo alla capanna Margherita, Vallepiana seppe che Gaspard era una guida del Cervino; in discesa lo distanziò con mirabolanti curve nella neve farinosa, danzando come Icaro sulle nuvole del Paradiso; tornato a casa scoprì che Gaspard era una grande guida, lo stesso Gaspard della cresta del Fürggen. Ma ancor più che il professionista e l’alpinista lo aveva impressionato la persona, lo avevano colpito la sua semplicità e la sua determinazione. Con un uomo così, si era detto il giovane Ugo, si può andare tranquilli da qualunque parte.
Invece non andarono in nessun posto, perché di lì a pochi mesi cominciarono a soffiare i venti di guerra e nella primavera del 1915 Gaspard ricevette la cartolina che lo richiamava alle armi e lo aggregava preventivamente al 94° reggimento di fanteria sul Garda, dove per il momento giungevano solo gli echi lontani della battaglia. Poi con suo infinito rammarico lo spedirono a Roma, al deposito militare, perché era troppo vecchio per la guerra.
Al contrario Ugo di Vallepiana, 25 anni, corse in guerra volontario quasi con “il timore che la rapidità della certa vittoria non gli permettesse di partecipare alla festa.” Il suo titolo di studio gli consentiva di diventare ufficiale e così, in un clima allegro e scanzonato, “più da studenti che da guerrieri”, nel settembre del 1915 si trovò a Torino al primo corso per aspiranti del Terzo alpini. Nell’inverno seguente era a Bardonecchia come istruttore di sci, una delle passioni della sua vita.
Nel marzo del 1916 lo avvicinarono al fronte a Malga Romanterra, nelle Alpi Giudicarie, alla testa di un plotone di alpini sciatori. Lì la guerra si faceva sul serio e al Dosso dei Morti il gioviale Ugo vide i primi crateri delle granate austriache. Era ancora un bel gioco, ma si faceva pericoloso. Quando la neve se ne andò il plotone-sciatore si improvvisò geniere e in una notte di maltempo tese una passerella sul torrente Chiese, dove i ponti erano stati minati dal nemico. A primavera fatta il gioco era già finito. Vallepiana partì per la Val Falzarego, nel cuore in fiamme delle Dolomiti.
L’estate del 1915 si era portata via tutte le illusioni di una facile vittoria e l’inverno aveva congelato anche le ultime speranze.
Il 26 settembre il generalissimo Luigi Cadorna confidava ai suoi familiari: “Intanto devo continuare a liquidar generali: Nava che sembrava un “tron de Dieu”, sfiduciato, mi ha fatto fallire la campagna del Cadore per lentezza e perché ha disgustato tutti.”
Gli faceva eco il comandante dell’Alpenkorps Krafft von Dellmensingen: “Gli italiani avevano ben avuto il tempo, dal principio della guerra al maggio 1915, di mobilitare le loro truppe e di spingerle avanti sui confini. Al momento stesso della dichiarazione di guerra essi avrebbero potuto penetrare da ogni parte con grandissima superiorità e impadronirsi praticamente di ciò che volevano. Noi dal lato opposto ci aspettavamo soltanto questo, ed eravamo sempre più stupiti nel veder passare due e più settimane senza che gli italiani si muovessero, un tempo che sarebbe bastato a occupare il Tirolo fino alla Pusteria e al Brennero.”
Anche sulle Tofane era successo esattamente così: poche settimane fatali. Se gli austriaci non avessero fatto in tempo a presidiare il Castelletto e gli altri punti strategici, sarebbe stato facile sfondare in Val Travenanzes e scendere in Tirolo. Se gli italiani fossero arrivati in cresta per primi, poi non ci sarebbe stato bisogno di strisciare nei camini, dormire sulle cenge larghe un metro, sacrificare gli uomini sotto le valanghe, e per guadagnare che cosa? un pezzo di roccia inutile, un anfratto dove riposare le ossa, un terrazzino per appoggiare la schiena e la gavetta vuota.
Perduto il momento magico, la guerra si era trasformata in uno snervante duello di posizione e il combattimento era diventato uno scontro di nervi, di astuzie, di attese, di resistenza al gelo e alla paura. La paura di cadere, di congelare, di dare di matto, di prendersi un sasso o una pallottola in testa. L’angoscia di non vedere la fine dell’inverno, di non riuscire ad asciugare le calze di lana, di perdere un mulo, o uno scarpone, lacerarsi il pastrano, sporcare la coperta, rimanere senza vino e senza caffè. E senza speranza…
Una mattina Vallepiana salì con un superiore sotto la Tofana di Rozes, là dove si staccava la strada militare per il Col dei Bòs, in via di costruzione. I soldati-operai lavoravano di gran lena, in maniche di camicia, mentre i portatori con i muli facevano la spola tra la valle e le postazioni alte, rasentando il fianco della montagna per non essere troppo visibili. Salivano carichi di viveri, attrezzi e munizioni, talvolta scendevano scarichi, o portavano giù un ferito, oppure un morto.
“Guardi lassù – gli disse a un tratto l’ufficiale -, guardi dove siamo arrivati.”
Vallepiana prese il binocolo e lo puntò sulla parete sud della Tofana prima, rigata da lunghe colate nere e continuamente battuta dalle scariche. Così viva, nel disgelo primaverile, metteva veramente paura.
“Non là, tenente: più a sinistra, verso il Castelletto.”
Rasente ai ghiaioni, tra le ghiaie e la parete, scoprì una piccola persona, anzi due persone, accidenti! decine di uomini che si muovevano lentamente. La montagna era animata come una città. Ogni anfratto conteneva un deposito di materiali o una baracca per i soldati, i camminamenti larghi un metro parevano strade maestre, percorse da lavoratori rapidi ed esperti, ogni cengia ospitava almeno un soldato e una mitragliatrice. “Stupefacente!” sussurrò Ugo. Per un alpinista addestrato a scalare le montagne nel più breve tempo possibile, abituato a toccare la cima e a scappare via, sembrava inverosimile che si potesse vivere per dei mesi e delle stagioni appesi a un precipizio: che ci si potesse dormire, sognare, bere, mangiare, andare di corpo, litigare, fare amicizie, patire la nostalgia, e tutto senza smettere mai un solo momento di guardarsi le spalle.
La parete del Castelletto era tutta scavata, e dietro le feritoie di calcare si indovinavano le bocche dei cannoni. Più in alto, ben mascherate sulla cresta del maniero, sporgevano le fortificazioni nemiche con le baracche delle sentinelle, i muretti a secco, i posti di vedetta, le fessure per le mitragliatrici. Poi un canalone di sfasciumi divideva la roccia tirolese da quella italiana, e in pochi metri si passava dagli appicchi del castello a quelli della Tofana. Le due vedette erano così vicine che potevano parlarsi e scambiarsi insolenze. Il canale era devastato dalle granate e dalle scariche di sassi.
“Vede quella curva della parete proprio sotto lo Scudo? Ecco – spiegò l’ufficiale -, fin lì siamo coperti e non ci possono vedere. A est c’è la baracca della “gran guardia”, e da un po’ c’è anche il ricovero dei minatori. Ma se ci azzardiamo a superare quella curva, se ci sporgiamo un metro più in là, allora cadiamo sotto il tiro delle mitragliatrici. Guardi bene il Castelletto: è bucato come una gruviera. Per loro è come fare il tiro al bersaglio.”
Vallepiana mise a fuoco le lenti del binocolo e cominciò a capire. Comprese perché il Castelletto era chiamato la Roccia del terrore, e provò a condividere lo strazio degli alpini, la vita che subivano da undici mesi senza guadagnare un solo centimetro. Poi spostò a destra il binocolo, e presso il vertice dello Scudo, ma un po’ più in alto ancora, scoprì tre uomini che stavano accovacciati su una cengia millimetrica a duecentocinquanta metri da terra. Gli sembrò che stessero fumando, immobili come falchi.
“Sono già risaliti a presidiare lo Scudo?” chiese stupito al suo superiore.
“Non sono mai scesi” – gli rispose -…
Da mesi il comandante si industriava per la presa del Castelletto, che secondo lui “si imponeva non solo per ragioni di indole tattica ma altresì per ragioni di ordine morale, poiché alle nostre truppe pareva quasi impossibile che non si potesse escogitare un mezzo per togliere tanto disagio.”
Era un tipo metodico il colonnello Tarditi, dicono che misurasse le penne degli alpini con il decimetro e se le trovava troppo lunghe le regolava di persona. Così prima aveva provato a espugnare il castello con l’artiglieria, poi si era convertito all’ingegneria sotterranea, ma il caposaldo in cima alla parete sud ovest restava un punto fermo della sua strategia.
“Non c’è qui quell’alpinista famoso? Quello con due nomi, quello con l’accento toscano…”
“Sì, signor colonnello, Ottolenghi Vallepiana è qui con noi.”
“Allora cercatelo subito. Portatemelo prima che faccia buio.”
Lo trovarono seduto nella tenda mensa, che cenava con gli alpini e discorreva di montagne lontane, di rifugi, di albe, di fantastiche scivolate sulla neve; gli alpini lo ascoltavano volentieri perché era un conversatore piacevole e aveva la faccia pulita, da ragazzo per bene. A sentirlo raccontare pareva che la guerra non avesse affatto intaccato la sua fiducia nella vita.
“Vengo subito” disse Vallepiana, “lasciatemi finire questa polenta prima che si sfreddi.”
All’ora del tramonto prese la giacca e salì di corsa dal colonnello.
Trovò Tarditi compassato come sempre, ma gli parve più teso del solito. Continuava a misurare in lungo e in largo la parete della Tofana con il binocolo, sembrava dovesse consumarla con gli occhi. Ogni tanto si fermava, puntava un particolare, restava dieci secondi immobile, e poi scuoteva il capo con aria scettica:
“Non si passa, non si passa. Ci vorrebbero le ali, per la miseria.”
“Sottotenente Ottolenghi di Vallepiana a rapporto”, disse Vallepiana.
“Ah, bravo, è già qui.”
“Mi scusi, signor colonnello: dov’è che non si passa?”
“Da quel camino, vede, a destra dello Scudo. Sarebbe la via ideale per salire in cima senza farsi vedere, ma è liscio e marcio come una grondaia.”
A Vallepiana il binocolo non serviva, aveva studiato e memorizzato la parete meglio dei suoi scarponi. Conosceva benissimo quel camino alto e cattivo, il budello di roccia scura che si insinuava come un serpente nella montagna e saliva fino in cresta, proprio a picco sui bastioni del Castelletto. Era un percorso spaventoso a vedersi e ben pochi arrampicatori l’avrebbero onorato di considerazione, anche in tempo di pace. A un posato occidentalista come lui, poi, appariva un itinerario da acrobati, da scimmie, da svitati insomma, anche se Dibona e altri specialisti del calcare avevano già scalato qualcosa del genere sulle Dolomiti e nelle Alpi tirolesi prima della guerra.
Ma quella sera Vallepiana si sentiva ottimista, forse perché stava per tornare sulle crode, o forse perché anche la grande parete di Rozes sorrideva mansueta nella luce tiepida della sera. Così raccolse la sfida più assurda e improbabile della sua breve vita, e strizzando gli occhi all’ultimo sole, con una faccia da monello scappato di casa, disse tranquillamente a Tarditi:
“Conosco un uomo che potrebbe anche scalare il suo camino, signor colonnello: si chiama Giuseppe Gaspard.”

Il camino degli alpini
Coscienzioso e prudente, Gaspard si preparò all’ascensione. Scrutò la parete all’alba e al tramonto, quando le luci sono radenti e le ombre sicure. Approfittando delle brume che si infilano dentro ogni piega cercò di decifrare il carattere del calcare che non conosceva: le sue montagne erano fatte di gneiss o di granito. Questa fase istruttoria gli prese qualche giorno prezioso, ma era molto importante familiarizzare con montagna, cercare di farsela amica come diceva Joseph.
Poi pensò all’itinerario, all’equipaggiamento, al compagno di cordata, agli uomini generosi che avrebbero dovuto seguirli per attrezzare il camino con le scale e con le corde: i soliti volontari feltrini.
Poiché gli avevano ordinato una scalata, lui si occupava della scalata, senza partecipare a discussioni di strategia militare e a fantasie di vittoria. Non erano compito suo. Non si interessò neppure alle grandi manovre che avvenivano a fianco dello Scudo, ma dall’altra parte rispetto al camino, dove i soldati si erano trasformati in minatori per sprofondarsi nella pancia della montagna e cavarne tonnellate e tonnellate di dolomia. Neppure quello era affar suo.
Dovette anche adattarsi all’idea che lui e il tenente Vallepiana avrebbero arrampicato come due acrobati in un circo equestre, a picco sopra le baracche dei soldati, sotto gli occhi dei compagni e dei nemici, eppure soli con il vuoto e con la paura. Adattarsi era il suo mestiere.
Una sera disse “va bene, si può andare”, e in una chiara mattina di giugno salirono alla “gran guardia” dove gli alpini avevano costruito con le pietre a secco una graziosa casermetta addossata alla parete. Il muro interno era la parete stessa, i primi tre metri dei seicento che portavano in cresta, mentre all’esterno si affacciavano sulla valle una porta di legno alta quanto un uomo e quattro finestrine, più fessure che finestre, tipo quelle che i montanari aprono nei muri delle baite per prendere luce senza disperdere calore. L’interno della casa era buio ma riparato, spartano ma accogliente; fuori si poteva prendere il sole e starsene seduti sulla panca a fumare la pipa.
“Ah, che bello!” sospirò Vallepiana quando arrivò in guardia, mentre si scrollava di dosso uno zaino più grande di lui. Era venuto su di corsa, seguito da un piccolo drappello di portatori.
“I chiodi e le mazze posateli là, dietro il muretto. Le corde invece tutte qui, se no si bagnano e sono guai.”
Gaspard comparve poco dopo; con passo elastico, senza smuovere un sasso, salì gli ultimi metri del ghiaione che erano i più ripidi e i più faticosi. Portava anche lui uno zaino di tela grigia colmo di materiale, e lo zaino era come se aderisse alla sua schiena, come se facesse un corpo solo con la persona. Joseph non ansava, non dondolava, pareva fermo anche camminando.
Sul terrazzo della “guardia” salutò prima gli ufficiali, poi i soldati, poi sedette su un angolo della panca di legno e si tagliò una fetta di pane con il coltello a serramanico, raccogliendo le briciole con la coppa della mano. Bevve anche un sorso di vino, ma solo un sorso.
“Non mangia, tenente? Bisogna ben mangiare prima di una scalata.”
“Un momento, Gaspard. Devo riferire il nostro piano al primo ufficiale qui in guardia.”
“Mangi, mangi. Fa poi in tempo a riferire più tardi.”
I cannoni tacevano, i fucili anche, l’aria era tiepida, una grondaia gocciolava gentilmente in un secchio. I due soldati sedettero vicini ad assaporare gli ultimi istanti di abbandono, prima di appendersi nel vuoto. Erano arrivati sulla terra di mezzo, e ora, con i piedi e con l’immaginazione, stavano in bilico tra le sicurezze della valle e le incognite della montagna. In faccia alla parete le Cinque Torri, il Nuvolau, la Croda da Lago già spandevano calore sotto il sole, mentre il camino della Tofana si nascondeva tetro e senza vita alle loro spalle.
Masticarono in silenzio per qualche minuto, poi Vallepiana, come per alleggerire l’attesa, disse alla guida:
“Oggi saliamo al “posto di corrispondenza” e ci infiliamo nella gola, tanto per vedere come va. Poi domani attacchiamo sul serio, ho già adocchiato un paio di strapiombi…”
Il “posto di corrispondenza” era un umido anfratto a quattro filate di corda: tre palazzi uno sopra l’altro; era precariamente attrezzato con delle assi di pino e dei sacchi di sabbia. Più in alto la vecchia via dello Scudo piegava a sinistra dietro il monolite appoggiato alla parete, mentre la nuova via continuava lungo il camino principale. Semplice, bastava continuare diritti, ma a vederla dal basso, più che di una continuazione dava l’idea di un’impennata, un ribaltamento della dolomia. La volta della parete si rovesciava nel cielo come gli occhi di quanti si torcevano il collo per scorgerne una fine.
“Oh sì: da domani si balla” assentì Gaspard.
Si alzò in piedi, scelse una treccia di corda da trenta metri e cominciò a srotolarla lentamente, con le gran mani nodose…
Nel pomeriggio erano scesi al posto di bivacco.
Prima in parete era salita la nebbia e li aveva avvolti come un mantello. Nella nebbia si erano sentiti protetti. Per la reazione allo shock Gaspard sentiva freddo, ma riusciva a stare in piedi, a muovere gli arti, a camminare. La testa era sana. Per evitargli gli attriti della corda doppia, Vallepiana lo aveva calato dolcemente con la corda di sicurezza e lo aveva accompagnato come un padre premuroso – lui che sembrava suo figlio – fino alla baracca in fondo al camino. Avrebbe voluto calarlo alla “gran guardia”, a una cuccetta calda e a un piatto di minestra, ma Joseph si era rifiutato e aveva ripetuto che stava bene e che voleva risalire. L’indomani.
Nella notte vaneggiò due volte. Verso mezzanotte chiamò la moglie e urlò qualcosa sulle bestie, tre vacche e un vitello, che non erano rientrate nella stalla:
“Bisogna andar su alla Vieille a cercarle! Non possono mica star fuori di questa stagione!”
Parlava in patois, e Ugo non capiva. La Vieille era l’alpeggio di famiglia vicino al vecchio Giomein, Joseph collegava il freddo con la stagione e forse, chissà, forse credeva di essere già scivolato nell’autunno.
Alle tre infatti ricominciò:
“Per i Morti bisogna che mi ricordi di Baptiste. Gli voglio prendere dei fiori di montagna, delle genziane e una stella alpina: Vallepiana, vada a cercare una bella stella alpina per Baptiste.”
La guida di Valtournenche Jean Baptiste Pellissier era un collega morto di colera fulminante il 2 agosto 1910, in Caucaso, durante la spedizione Piacenza.
Alle cinque e mezza, quando si svegliarono, Gaspard non ricordava più niente. Fu anzi lui a tirarsi su per primo, a cercare la neve da sciogliere sul fornellino, a rassettare le coperte, a infilarsi gli scarponi. Canticchiava contento perché si sentiva bene. Il cielo era libero e la cima del Pelmo cominciava appena a prendere colore.
“Oggi se la prenda un po’ comoda, Joseph” suggerì Ugo strizzando gli occhi verso la luce. “Oggi vado davanti io.”
“Jamais de la vie!” rispose la guida. “Voglio proprio vedere dove va a finire il nostro camino.”
Mandarono giù qualche galletta e una fetta di salame. Riempirono le borracce di acqua di fusione, allungandola con del vino. Ripartirono.
La giornata prometteva qualche cosa in più del solito, perché non c’erano ancora i batuffoli di vapore attaccati alle cime. La roccia si era scaldata ma le creste erano rimaste libere. Buon segno per il tempo, cattivo segno per le granate.
Gaspard si era ripreso completamente: scaldandosi non sentiva più i lividi della caduta e saliva velocissimo, a sfatare il tabù.
Sotto gli strapiombi si fermò giusto il tempo per rimboccarsi le maniche e per prendere con sé un altro chiodo, un ferro soltanto.
“Vado” disse a Ugo, e sparì.
Scalò di un fiato i venti metri difficili e gli parvero facili. Conosceva la strada. Arrivò tranquillo al chiodo del giorno prima, si slegò, si assicurò, prese fiato. Non guardò mai di sotto.
Rincuorato e sicuro, riprese subito ad arrampicare. La via obliquava leggermente e poi si perdeva di nuovo. Però dopo altri cinque metri Gaspard trovò un terrazzino sufficiente per far venire su il compagno, allora martellò il nuovo chiodo, si legò all’anello e urlò all’ufficiale:
“Venga pure Vallepiana!”
“Posso venire?”
“Venga, venga su Vallepiana!”
Nonostante la corda tesa, Ugo trovò il passaggio difficile: faticoso e difficile. Sbucando sudato sul terrazzino confessò a Joseph:
“Meno male che è andato davanti lei, non so se ce l’avrei fatta…”
“Non è ancora finita – precisò la guida -, ma credo che ci siamo quasi.” Sorrise.
La parete proponeva un ultimo risalto e poi si addolciva in una rampa di rocce grigie; scalando la rampa forse avrebbero potuto ritornare nel camino.
Gaspard ripartì senza attrezzatura, perché confidava di raggiungere degli spuntoni più in alto. Salì guardingo sulla roccia umida e porosa, cercò piccole tacche per i chiodi delle scarpe, si equilibrò su appigli invisibili. Fischiettava.
Le schegge della granata lo raggiunsero proprio mentre stava attraversando un tratto di parete aperta, nudo a metà del guado, impotente come un bimbo in mezzo a cani rabbiosi.
“Per la miseria – sussurrò -, ritorno indietro Vallepiana!”
Ugo non lo sentì. Non poteva sentirlo.
Per la seconda volta il pericolo esaltò i sensi di Joseph, i sensi liberarono adrenalina, e l’adrenalina richiamò le riserve di energia. In pochi secondi di arrampicata a ritroso Gaspard scese i dieci metri quasi verticali che aveva appena salito con cautela: corse, volò sul muro di calcare. Infine saltò sul terrazzino a si strinse stretto a Ugo, nell’angolo più riparato. Tremava un poco.
“Per poco non mi fanno fuori” disse ansimante.
“Ma lei è ferito!” notò Vallepiana sollevandogli il braccio.
La mano di Gaspard versava sangue, e il sangue si allargava a macchia d’olio sotto di loro. Dovettero strappare una manica della camicia per tamponare l’emorragia, e poi si sforzarono di tenere il braccio ben alzato. Il sangue diminuì.
“Se alza anche l’altro – ironizzò Vallepiana -, penseranno che ci vogliamo arrendere.”
“Sarebbe poi ben strano, a questo punto. Non le pare tenente?”
Mezz’ora dopo Joseph riprese colore, un’ora dopo la nebbia nascose la parete, due ore dopo assaporavano di nuovo il conforto del camino alla fine delle grandi difficoltà. Nel camino si strinsero la mano come due sodali ritrovati: la via era tutta incisa fino alla cima della parete, senza strapiombi invalicabili; sentivano di avercela fatta.
“Stasera si scende in guardia” disse Ugo, “stasera si fa festa!”
“Sa, Vallepiana, oggi sono stato contento” rispose Gaspard…
(continua “Il fulmine della Tofana” e “La vita dopo la guerra”)