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Dal viaggio al turismo


Le Alpi sono come un incidente naturale nel cuore della vecchia Europa. Fino a tutto il diciassettesimo secolo furono considerate una barriera possente e selvaggia che si alzava a turbare le linee ordinate delle pianure e delle colline, ostacolando la mano civilizzatrice dell’uomo e i suoi disegni colonizzatori. La letteratura e le arti che per secoli e secoli cercarono l’armonia, l’equilibrio e la simmetria del paesaggio, rincorrendo l’antico mito dell’arcadia, rimossero quasi completamente l’esistenza delle Alpi perché, oltre a fare paura, non rispondevano neanche lontanamente al concetto classico del “bello”. La teologia protestante fondata da Martin Lutero le interpretò addirittura come il prodotto del diluvio universale, apocalittica raffigurazione del disordine e del male.
Nel 1671 Thomas Burnet si trova involontariamente al cospetto delle Alpi mentre accompagna il giovane conte di Wiltshire lungo l’itinerario del Grand Tour. Le montagne lo atterriscono e generano in lui un fiume di domande:
«Non trovai pace finché non fui in grado di darmi una spiegazione accettabile di come quel disordine fosse entrato nella natura».
Premesso che «il mondo è immerso a tal punto nella stupidità e nel piacere dei sensi che si potrebbe raccontare che i monti crescono sulla Terra come vesce o che sono prodotti da certi mostri, come le talpe producono i loro cumuli di terriccio, e la gente non avrebbe alcunché da obiettare», la spiegazione non poteva essere che una: il Dio che aveva fatto le Alpi non era un provvidenziale orologiaio, ma un sublime, anche se furibondo, drammaturgo. La Terra al tempo della Creazione era una sorta di «uovo terrestre, senza un segno né una frattura sul suo corpo, nessuna roccia, nessun monte», ma il Diluvio inviato a lavare la malvagità del mondo aveva sconvolto per sempre quella purissima sfera primordiale, creando le montagne.
Il Settecento fu il secolo della grande svolta. Da pattumiera del mondo fisico, in pochi decenni le Alpi furono promosse a oggetto delle indagini illuministe e a rifugio della spiritualità romantica. Da un lato gli scienziati iniziarono una capillare opera di esplorazione del territorio alpino per fare luce sull’origine dei fossili, sulla nascita dei fiumi e sulle teorie leggendarie dei ghiacciai, risolvendo contemporaneamente molti problemi cartografici, dall’altro lato gli uomini d’arte e di lettere influenzati da Haller e da Rousseau cominciarono a rovesciare la visione tradizionale delle Alpi, scoprendo nei luoghi malfamati del passato il segno del bello e del sublime. Le cascate e i ghiacciai alpestri divennero ricercate mete di escursioni romantiche, destarono la meraviglia dei viaggiatori e impreziosirono con i loro “deliziosi orrori” i taccuini dei borghesi e degli artisti che avevano la ventura di addentrarsi nelle vallate.
Sul finire del secolo, Horace-Bénédict de Saussure impersona meglio di ogni altro quell’intreccio di formazione illuminista e di ispirazione romantica che mosse i primi alpinisti verso le alte quote. Come noto, il naturalista ginevrino fu il fautore della prima salita del Monte Bianco dal versante francese e nel 1787 salì lui stesso la cima più alta delle Alpi, ma i suoi interessi andavano ben oltre la conquista delle montagne. Nel 1789, l’anno fatidico della Rivoluzione francese, il Saussure compì un viaggio intorno al Monte Rosa che può a ragione essere considerato tra i primi tour alpini:
«Da molto tempo il Monte Rosa era oggetto della mia curiosità. Questa alta montagna domina il confine meridionale della catena delle Alpi così come il Monte Bianco ne domina il confine settentrionale. Il Monte Rosa si vede da tutte le pianure del Piemonte e della Lombardia, da Torino, da Pavia, da Milano e perfino da molto più lontano. Ho già detto come la sua altezza e la sua massa appaiano imponenti dalla chiesa di Superga sopra Torino, ma ancor più mi colpirono dall’alto della torre di Vercelli. Sebbene fossi un pessimo disegnatore, cedetti alla tentazione di tracciarne uno schizzo da portare con me. Da allora decisi di concentrare tutti gli sforzi per avvicinarmi il più possibile alla montagna. Ciò che aumentava ancor più il mio desiderio di osservarlo era il fatto di non trovarlo descritto nell’opera di nessun naturalista».
Il Saussure alpinista e il Saussure viaggiatore sono una sola persona, in grado di percorrere per ore a dorso di mulo le polverose strade dei fondovalle, di individuare e descrivere le testimonianze della civiltà alpina, oppure di valicare con le guide i colli innevati di tre o quattromila metri, dopo un bivacco all’addiaccio e un’interminabile giornata di cammino tra pascoli, pietraie e ghiacciai, con il barometro in mano e la passione nel cuore.
Ben diverso è l’approccio di Alexandre Dumas, il popolare scrittore francese che molti anni più tardi, nel 1832, lascia una Parigi infestata dal colera per un viaggio di riposo in Svizzera e in Valle d’Aosta, al cospetto delle Alpi favolose:
«Ai nostri piedi la vallata di Lauterbrunnen, verde come uno smeraldo, disseminava le sue case rosse sul prato; in faccia, il magnifico Staubach, di cui scorgevamo le cascate superiori, meritava il suo nome di “polvere d’acqua” tanto pareva un vapore fluttuante; a sinistra, la valle chiusa dopo due o tre leghe dalla montagna nevosa da cui si precipita lo Schmadribach, come se il mondo finisse lì; a destra, la valle che avevamo percorso si sviluppava in tutta la sua distesa, e riconducendo lo sguardo fino al villaggio di Interlaken, attraverso quell’atmosfera azzurrina che si trova solo in montagna, si vedevano le case e gli alberi, simili a quei balocchi che si chiudono in una scatola e con cui i bambini si divertono a costruire giardini e città». L’alpinismo rientra dalla finestra, per così dire, perché Dumas si reca anche a Chamonix a far visita al famoso Jacques Balmat, il primo salitore del Monte Bianco, e ne pubblica un’intervista tra i suoi monumentali resoconti di viaggio.
Ormai le Alpi sono una meta d’obbligo per chi intraprende un viaggio in Svizzera e in Italia. All’inizio dell’Ottocento l’interesse per i “voyages dans le Alpes” si è già spinto fino al punto da indentificarsi con l’invenzione letteraria, come nel capolavoro romantico di Mary Shelley Frankenstein, in parte ambientato tra i crepacci della Mer de Glace:
«Il giorno successivo lo spesi a girovagare per la valle. Andai alle sorgenti dell’Arveiron, che nasce da un ghiacciaio che, dalla cima dei monti, avanzando lentamente, arriva a sbarrare la valle. Avevo davanti a me i fianchi scoscesi di enormi montagne e la gelida parete del ghiacciaio mi sovrastava; sparsi all’intorno c’erano solo pochi pini rovinati e il silenzio solenne di questo magnifico salone delle udienze di Sua Maestà la Natura era rotto solo dal rumoreggiare delle acque, dalla caduta di qualche blocco di ghiaccio, dal tuono della valanga o dallo schiantarsi, riecheggiato da tutte le montagne, degli ammassi di ghiaccio che per l’opera silenziosa di leggi immutabili, di tanto in tanto si crepavano e si spaccavano come fossero stati giocattoli nelle loro mani. Queste scene sublimi e magnifiche mi donarono tutto il conforto che potevo ricevere…».
Più che un’immagine da romanzo, sembra il racconto autobiografico di una vacanza sulle Alpi, inesauribile fonte di emozioni scaturite dalla solitudine, dalla verticalità e dal mistero delle vette. Le cupe bellezze che fino a pochi decenni prima mettevano in fuga i montanari e tenevano lontani i cittadini si sono trasformate in rimedi dell’anima, esattamente come aveva promesso Jean-Jacques Rousseau:
«Sulle alte montagne dove l’aria è pura e sottile, la respirazione è più agevole, il corpo è più agile, lo spirito più sereno, i piaceri meno ardenti, le passioni più moderate. Le meditazioni assumono lassù non so che carattere grande e sublime, proporzionato agli oggetti che ci colpiscono, una non so che voluttà tranquilla che non ha niente d’acre o di sensuale. Si direbbe che, alzandosi al di sopra del soggiorno degli uomini, ci si lascino tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che, a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima sia toccata in parte dalla loro inalterabile purezza».
“The Alps, the Alps!” è il nuovo imperativo che risuona nei salotti londinesi. Le Alpi sono la nuova frontiera, l’ultimo pezzo di mistero nel cuore stanco del vecchio continente. E allora via per le strade più impervie e le locande più primitive, a inseguire la moda del viaggio e il brivido dell’imprevisto. Leslie Stephen, il padre di Virginia Woolf, definisce le Alpi come il “terreno di gioco dell’Europa”, introducendo la variabile del piacere su una geografia della mente che è sempre stata sinonimo di fatica e sofferenza. Gli inglesi portano del denaro ma spesso considerano le Alpi alla stregua delle terre di colonia, abitate da gente sporca, gozzuta e primitiva; però divulgano le bellezze della natura, attirano altri visitatori e di fatto obbligano i valligiani a inventarsi due nuovi mestieri: l’albergatore e la guida alpina. Nascono anche le prime guide di carta, le bibbie dei viaggiatori alpini: lo Handbook for travellers in Switzerland and the Alps of Savoy and Piemont di John Murray, del 1838, e per gli alpinisti le guide di John Ball sulle Alpi occidentali, centrali e orientali, edite ripettivamente nel 1863, 1864 e 1868. Chi compra una guida del Ball lo fa certo perché è interessato alla montagna, mentre il Murray e altri autori si dilungano sui luoghi classici del viaggio, che restano i laghi, i sacri monti, le chiese, i castelli, le piccole città. Comunque sia i valichi alpini sono un passaggio obbligato per scendere in Italia e ritornare indietro. Charles Dickens, lasciato il Lago Maggiore e le leggiadre Isole Borromee, una notte di novembre del 1845 deve attraversare il Passo del Sempione e lo descrive così:
«Lasciandosi dietro i tranquilli paesini italiani addormentati sotto la luna, la strada cominciò subito a serpeggiare tra alberi cupi e dopo un po’ sbucò sopra un pendio più spoglio, dove la luna batteva alta e luminosa…
Proseguimmo così tutta la notte per un tragitto difficile, salendo sempre più in alto senza un momento di tedio: eravamo immersi nella contemplazione delle nere rocce, delle vette e degli abissi spaventosi, delle lisce distese di neve adagiate nei crepacci e nei calanchi, dei gagliardi torrenti che precipitavano rumorosi giù per le profonde lontananze. Raggiungemmo le altezze innevate verso l’alba. Un vento penetrante fischiava con gran forza. Dopo avere svegliato non senza difficoltà gli abitanti di una casa di legno che sorgeva in questa solitudine, nel mezzo di un furioso turbinare di neve, facemmo colazione alla meglio in un ambiente di tavole grezze, ben riscaldato dalla stufa e idoneo a riparare, secondo necessità, dall’impeto delle bufere…».
Un altro luogo di culto dei viaggiatori ottocenteschi è l’Engadina, apprezzatissima per le sue terme e la dolcezza delle vallate, per i laghi, le foreste e i ghiacciai, che scendono come fiumi dalle cime del Bernina e precipitano come cascate dai picchi granitici della Val Bondasca. All’inizio del secolo Saint Moritz è ancora un piccolo villaggio di neppure duecento anime, isolato dal resto del mondo; nel 1832 viene inaugurato il primo albergo dotato di sei bagni termali, nel 1864 un gruppetto di turisti inglesi prova a soggiornarvi d’inverno (dietro garanzia di rimborso in caso di prolungato maltempo), nel 1870 si contano quasi 1000 turisti in tutto l’anno e nel 1873 i pernottamenti salgono a oltre 20.000 nella sola estate. L’Engadina diventa il rifugio degli artisti e dei sognatori. Di lì a pochi anni Friedrich Nietzsche, soggiornando a Sils Maria nel chiuso, nella solitudine e nella penombra di una vecchia casa senza luce, raccoglie le illuminazioni di Zarathustra nei primi capitoli del suo capolavoro.
E spostiamoci sulle Dolomiti, dove implacabilmente gli inglesi approdarono con qualche decennio di scarto rispetto alle Alpi occidentali, ma dove il pioniere della scoperta fu un alpinista viennese: Paul Grohmann. La sua opera Wanderungen in den Dolomiten (“Escursioni nelle Dolomiti”), riferita all’estate del 1862, contiene un ampio corredo di notizie geografiche, toponomastiche e alpinistiche della regione, senza concessioni romantiche. Grohmann è un viaggiatore che non si occupa assolutamente dei propri sentimenti, o di quelli delle persone che incontra, ma è dedito come un certosino alla descrizione asettica dei luoghi. Si può dire che abbia sposato la divulgazione topografica come unico scopo del viaggio, annullando ogni contorno umano:
«Alla sella di Dobbiaco, 1204 metri, si incontra la strada d’Ampezzo. Vi si arriva da Bressanone, che si trova ad occidente, a 558 metri sul mare, oppure da Lienz che è ad oriente a 667 metri. In ambedue i casi bisogna superare un dislivello considerevole, tuttavia, eccettuato qualche tratto da Brunico a Perca, e da Abfaltersbach a Strassen, la pendenza è in complesso così lieve che non ci si accorge di arrivare a Dobbiaco, su un valico vero e proprio, che divide le acque dell’Adriatico da quelle del Mar Nero. Siamo quasi alla stessa altitudine del Brennero, ma quanto diverso è l’ambiente! Il Brennero si trova alla sommità di una stretta oscura valle, con qualche rara casa di contadini, una chiesa e una trattoria, mentre qui alla sella di Dobbiaco si apre una verde ampia distesa, solcata da corsi d’acqua cristallini e disseminata fin dove arriva lo sguardo da villaggi e casolari».
Venticinque anni più tardi, nel 1887, tocca a un giovane alpinista tedesco, Theodor Wundt, colorare con passione e buon gusto i racconti delle proprie esperienze nelle Dolomiti d’Ampezzo. Il clima è già completamente cambiato e gran parte delle Dolomiti è ormai terra esplorata e “valorizzata”:
«A Dobbiaco siamo giunti chi dal Brennero e chi dalla valle della Drava. Una fitta frotta di turisti si accalca all’uscita del treno sovraffollato, lieta di lasciare il fumante cavallo a vapore e di poter respirare a pieni polmoni la fresca aria di montagna. Fuori però, davanti alla stazione, ci attende la combattiva schiera dei portieri, facchini e vetturini dai quali non è facile potersi liberare. Si precipitano avidi sulle loro prede: Hotel Ampezzo! Hotel Toblach! Hotel Ploner! Desidera una vettura? Diligenza per Cortina! eccetera eccetera, sono offerte che risuonano furiosamente l’una sull’altra…
Solo una volta fuori dal bailamme posso guardarmi intorno con un po’ di calma. Ci troviamo in un’ampia valle rinfrescata da una continua aura leggera e gradevole. In violento contrasto, sopra i boschi, si ergono cupi i selvaggi dirupi della Cima Nove».
Si avvicina l’alba di un nuovo secolo e i viaggiatori cominciano a parlare il linguaggio affrettato e confuso dei turisti. Certo un viaggio sulle Alpi resta un’esperienza costosa ed elitaria, ma le strade, le ferrovie, gli alberghi e il lusso dei centri alla moda cominciano a ridurre sensibilmente la distanza tra la città e la montagna, stravolgendo alcuni dei tradizionali valori alpini. Se ne accorge il polemico e acuto Abbé Gorret, il prete di Valtournenche che ha scalato il Cervino con Carrel e ha scritto nel 1876 la prima guida della Valle d’Aosta:
«Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che rimarrebbe assai contrariato se vi trovasse la città che ha appena lasciato.
Il vero viaggiatore si distingue a occhio dalla sobrietà delle sue parole, dalle ridotte dimensioni dello zaino, dalla regolarità del passo e dal calcolo riflessivo e coraggioso dei rischi di un’escursione o di una scalata. Il turista novellino, invece, si fa notare per il numero e il volume dei suoi bauli, per il clamore dei suoi programmi e dei preparativi per la partenza, per le osservazioni scientifiche fuori misura, per il panico o la vanitosa imprudenza davanti al pericolo».
In queste parole profetiche c’è già l’incolmabile contrapposizione tra la vocazione solitaria del viaggio interiore e l’infinita ripruducibilità del gesto turistico. Ci sono voluti cento anni per sconfiggere la paura della montagna, e altri cento per esplorarla e descriverla, ma con il Novecento il tempo sembra impazzire tra le mani degli uomini.
Nel 1907 gli ingegneri svizzeri sfiorano la profanazione progettando una cremagliera sul fianco orientale del Cervino, “il più nobile scoglio d’Europa”; sconfitti da un referendum popolare, si rifanno cinque anni dopo con un treno nella pancia dell’Eiger. Sulle Dolomiti si lavora alacremente per costruire la futuristica carrozzabile in quota che unisce Bolzano a Cortina attraverso gli alti passi: “la più bella strada delle Alpi”. Ma mentre i primi motori rombano alla base delle Torri di Sella e delle Tofane, ben altri tuoni squarciano il silenzio dei Monti Pallidi: i fuochi della Prima guerra mondiale.
Nella primavera del 1915 le Dolomiti vengono improvvisamente ricoperte di baracche, carri, cannoni, arsenali e animali, con un affollamento di uomini e di mezzi come non si era mai visto dal tempo della Creazione. Così sull’Adamello, sull’Ortles, sul Cevedale, sul Pasubio, sulle Alpi goriziane e su tutti i proibitivi confini di montagna dal giogo dello Stelvio al Carso triestino. Gli alpini e i “cacciatori” del kaiser si fronteggiano e si uccidono inutilmente per due anni, cercando scampo dalle granate e dalle valanghe, odiandosi e fraternizzando tra italiani e austriaci, gente del Nord e gente del Sud, montanari, contadini e uomini di città.
Non è l’invenzione del turismo ad indicare al popolo l’esistenza delle Alpi, ma è la guerra più assurda di tutta la storia moderna: la Guerra bianca.