Saltiamo Virgilio, scavalchiamo Dante e ignoriamo Petrarca. Ipotizziamo per un momento che il latino Mons Vesulus, il “monte visibile”, prenda corpo e anima solo nella seconda metà dell’Ottocento, quando i piemontesi ci costruiscono ai piedi un nuovo stato e gli stranieri soffiano la più italiana delle montagne a un Regno ancora in fasce. Il Monviso s’impone come un caso innanzitutto politico, emblema di una nuova nazione, e non è certamente una coincidenza che Quintino Sella inviti il barone Giovanni Barracco a partecipare alla storica ascensione dell’agosto del 1863 sulla via normale della Val Varaita; lo fa perché il barone è un discreto alpinista, in grado di raggiungere la vetta della montagna, ma il vero motivo è un altro:
«Mi recai a tentare Baracco onde venisse a rappresentare la Calabria di cui è oriundo e deputato, – scrive Sella a Bartolomeo Gastaldi – su questa estrema vetta delle Alpi Cozie».
Il Monviso è già stato scalato dai britannici Jacomb e Mathews e dalle guide Croz di Chamonix due anni prima, nel 1861, acquistando subito una certa internazionalità; sebbene appartenga territorialmente al Piemonte, secondo la nuova frontiera occidentale alpina disegnata da Cavour e Napoleone terzo nel 1860 ora si trova più che mai su una linea di confine e spartiacque tra stati: di qua il Regno d’Italia, di là il Regno di Francia, in mezzo il regno perduto. Infatti il Monviso non è più da tempo il cuore di quella Repubblica degli Escartons che per secoli accomunò usi, lingue, costumi e speranze delle valli allungate ai suoi piedi, usando la montagna come fulcro e cerniera. Infine il Monviso è diventato l’emblema di una particolare riscossa post risorgimentale, che sostituendo la piccozza al moschetto tenta di riappropriarsi delle cime delle Alpi e lotta per l’ultima vetta inviolata: il Cervino.
Ecco, il Monviso è una specie di Cervino di casa, che il Sella colloca nel “panorama dell’Italia settentrionale” perché ancora identifica l’Italia con il suo Piemonte. Ben sapevano, lui e gli altri deputati del neonato Regno d’Italia, che se in una limpida giornata di primavera si sale da Torino ai Cappuccini, a Superga o al Colle della Maddalena, l’arco alpino si manifesta come un semicerchio di oltre quattrocento chilometri di estensione, caratterizzato da alcuni picchi inconfondibili come il Rocciamelone, la Ciamarella, le Levanne, il Gran Paradiso, la Torre di Lavina, la Tersiva, il Monte Rosa e, primo su tutti, il Monviso. Quintino Sella e i fondatori del Regno avevano negli occhi le montagne e sapevano che nessun’altra città europea poteva né potrà mai vantare un simile spiegamento di terre alte; idealmente avevano fondato la loro idea di nazione intorno a quella cerchia simbolica di profili rocciosi, ai valori del popolo subalpino e montanaro, alla propria conoscenza delle valli, dei versanti, degli affioramenti di pietra e ghiaccio. Sella era un valente mineralologo, come pure l’amico Gastaldi, geologo e glaciologo. La nuova Italia è dunque plasmata nella terra delle campagne e nella roccia delle Alpi, è fatta di città sovrastate da picchi selvaggi, di storia e natura cucite assieme:
«Gli abitanti del Nord – scrive ancora Sella nel 1863 – riconoscono nella razza latina molto gusto per le arti, ma le rimproverano di averne pochissimo per la natura. Veramente chi avesse visto le nostre città pochi anni or sono, e considerata, ad esempio, la guerra spietata che si faceva alle piante, e il niun conto in cui si tenevano le tante bellezze naturali che ci attorniano, avrebbe potuto convenirne. Però da alcuni anni v’ha grande progresso. Bastino in prova i giardini di che Torino e Milano cominciano ad ornarsi. Oltre a ciò ogni estate cresce di molto l’affluenza delle persone agiate ai luoghi montuosi, e tu vedi i nostri migliori appendicisti, il Bersezio, il Cimino, il Grimaldi, intraprendere e descrivere le salite alpestri, e con bellissime parole levare al cielo le bellezze delle Alpi. Ei mi pare che non ci debba voler molto per indurre i nostri giovani, che seppero d’un tratto passare dalle mollezze del lusso alla vita del soldato, a dar piglio al bastone ferrato, ed a procurarsi la maschia soddisfazione di solcare in varie direzioni e sino alle più alte cime queste meravigliose Alpi, che ogni popolo ci invidia. Col crescere di questo gusto crescerà pure l’amore per lo studio delle scienze naturali, e non ci occorrerà più di vedere le cose nostre talvolta studiate più dagli stranieri, che non dagli italiani».
Qui finisce la lettera di Sella a Gastaldi e inizia la storia del Club Alpino Italiano, fondato al Castello del Valentino di Torino il 23 ottobre 1863, due mesi e undici giorni dopo l’ascensione del Monviso. Una quarantina di soci riuniti in assemblea approva lo statuto e vota il primo consiglio di direzione. Spiccano alcuni deputati del Regno, segno dell’evidente continuità tra alpinismo e politica, e un «piccolo mondo cittadino di personaggi autorevoli, gentiluomini, studiosi, professionisti, benestanti, che – osserva Massimo Mila nel suo studio sui primi cento anni dell’alpinismo italiano – evadevano dalle costrizioni della vita di città percorrendo le Alpi, per lo più col pretesto di compiere studi geologici… A vederli oggi effigiati in fotografia, così autorevoli nei loro alti colletti duri, con la catenina d’oro sul panciotto, così precocemente anziani, secondo il costume ottocentesco, con le loro barbe e i loro mustacchi folti, si stenta a credere che fossero degli sportivi come noi, gente che aveva un soprappiù di energia da spendere e che probabilmente, appena si erano lasciati alle spalle le mura della città e le solenni dimore del patriziato torinese, si comportavano come scolari in vacanza, scherzavano, si canzonavano, dicevano delle sciocchezze, scoppiettavano di quel buonumore irresistibile che viene indotto dal sano esercizio fisico all’aria aperta».
Nella seconda seduta del 30 ottobre la direzione del Club Alpino elegge presidente Ferdinando Perrone di San Martino, che muore l’anno successivo lasciando il posto a Bartolomeo Gastaldi, l’escluso del Monviso. E Gastaldi, ancora una volta, ci guida sul filo del pensiero ottocentesco. Forse non è del tutto vero che lo studioso di scienze si fosse assentato dalla storica ascensione per motivi professionali, anzi c’è chi adombra che non si sentisse all’altezza del Monviso, resta il fatto che mentre il Sella gli indirizzava la commossa missiva zeppa di osservazioni e proponimenti, il Gastaldi era partito per la Val Varaita e la Valle Po, proprio ai piedi della montagna in questione. Lo apprendiamo da una lettera privata che l’ingegner Felice Giordano, consulente minerario del Regno, indirizza allo stesso Sella dopo il 24 agosto 1863:
«Sono stato cinque giorni con Gastaldi presso il Viso passando da Castel Delfino alla valle di Crissolo, osia del Po, che è molto più bella di quella della Varaita. Quando giunsi colà ero arrabbiato con te perché non mi avevi neanche avvertito della partenza per la salita: ma sapute le cose come stavano, che eravate già in quattro, mi ragionai e misi da parte il pensiero di bastonarti».
Ora il quadro ottocentesco del Monviso è completo: politica, scienza e rivalità-complicità alpinistica. L’ha ben rappresentato molti anni dopo un artista americano: Mark Kostabi. Il suo disegno a matita del 1993 mostra alcune persone armate di binocolo che, scrutando la montagna, scoprono dei personaggi fusi nella roccia, padri di qualche patria, imitazione subalpina dei presidenti americani scolpiti nel granito del Mount Rushmore.
Ma il Re di pietra incarna un secondo significato fondamentale che va oltre scienza, politica e alpinismo, superando i secoli e sopravvivendo alle culture. L’ha interpretato un altro artista contemporaneo, Antonio Serrapica, inventandosi un Monviso molto poco sabaudo, finalmente colorato e scanzonato, che regala le sue acque alla città riempiendola di vita: “Quando il Monviso fiuma un po’, Torino balla”. Il titolo intende dire proprio “fiuma” nel senso di fiume, acqua, fertilità, gioia, ben sapendo che altri autori hanno notato la somiglianza con un vulcano fumante e che i piemontesi sono abituati al Monviso con il pennacchio dopo le perturbazioni fredde che scavalcano le montagne: anche in questo senso il Monviso segna uno spartiacque, un frangiflutti tra le Alpi Graie e Cozie settentrionali inghiottite dalle nuvole e le Alpi del Sud che sorridono nel cielo terso, preservate dalle bufere.
Dal Monviso Re di pietra sgorgano le acque del Po, il grande fiume che irriga le pianure e disseta le città. Dalla roccia nasce la vita, attribuendo al monte durezza di padre e benevolenza di madre. Basta richiamare alla mente la classica fotografia dal ponte di Casalgrasso: il Po che scende placido in mezzo alle campagne e sullo sfondo, perfettamente inquadrata tra fiume alberi e cielo, l’affettuosa presenza del Viso. Non è la classica montagna matrigna e crudele che sbarra l’orizzonte rovesciando a valle ghiacci e devastazione, è piuttosto la montagna madre che protegge e dà speranza, la più verosimile interpretazione nostrana dei miti orientali che attribuiscono ai monti candidi dell’Himalaya l’origine della fertilità. Anche se il Monviso è fatto essenzialmente di pietra, e più che mai i cambiamenti climatici tendono a spogliarlo degli ultimi depositi glaciali, la sua immagine è fortemente intrecciata a quella dell’acqua fonte di bellezza e vita, come già certificavano le fotografie di Vittorio Besso negli anni settanta e ottanta dell’Ottocento: notabili assiepati intorno alle sorgenti del Po, naviganti in barca sulle chiare acque del Lago Fiorenza, uomini austeri che giocano con l’acqua miracolosamente donata dalla pietra.
Altri due significati sono fortemente evocati dalle rappresentazioni artistiche del Monviso, nonché dagli accenni letterari dedicati alla montagna del Po: la forma perfetta e l’isolamento. In fondo si tratta dello stesso fenomeno, perché lo straordinario profilo a triangolo isoscele noto a chi osserva il monte dalla pianura piemontese è semplicemente dovuto al fortunato momento del lungo processo geologico che, milioni di anni fa, ha innalzato il massiccio di pietre verdi nel cielo e contemporaneamente ha iniziato il formidabile processo distruttivo delle sue rocce, delle sue creste, dei suoi contorni, lasciandolo isolato come una piramide a dominare valli e città. Scrive Michelangelo Fontana nel 1906:
Qual sacro nome nel terror d’un mito
Aëvo indefinito
Sonò dal rombo e i schianti
Di tue rupi evolventi
Lungo il pendìo dei nivei ghiadi orrenti?
Sonò dall’urlo delle belve in fuga
Dalla valanga delle scosse selve,
Sonò dal rovinìo
Delle dirute vette
Tuonanti l’uragano e le saette?
È l’immagine romantica della distruzione di cui ci parlano le sterminate pietraie disseminate ai piedi della montagna, e anche le cime minori che danno slancio al Monviso: l’elegante Visolotto, il tozzo Viso Mozzo, la Punta Gastaldi, la Roma, la Udine, la Venezia e per Italia andando. Il Monviso, come il Cervino, è la dimostrazione che le montagne più belle non sono il risultato di un accumulo, ma di una sottrazione. L’inconfondibile prisma roccioso che domina le pianure di Torino, Saluzzo e Cuneo, incendiandosi al primo sole quando gli operai entrano in fabbrica e i contadini si avviano nei campi, e appassendo di luce sul far della sera resuscitando il romanticismo che è in noi, non è il risultato di una costruzione ma di una distruzione geologica. Come qualunque altra scultura progettata dalla natura o dall’uomo, la mole geometrica del Monviso deriva dall’inesorabile opera di spoliazione della materia, di cui noi vediamo solo ciò che resta e non quanto c’era prima.
Per farsi un’idea della massa che imprigionò la piramide che affascinava gli antichi Romani bisognerebbe essere capaci di dare un corpo e una dimensione ai milioni di tonnellate di detriti che il tempo e gli agenti atmosferici hanno gettato ai piedi del Re di pietra, formando le sterminate sassaie delle Alpi Cozie e riducendo non solo il re, ma l’intera corte del Monviso, a un’immensa distesa di detriti dalle infinite forme e tonalità. Il Monviso si alza dal cimitero delle sue stesse membra, rocce della sua roccia, carni della sua carne. La frana che nel 1989 ha scaraventato improvvisamente a valle il ghiacciaio pensile del Coolidge aggrappato alla parete nord, non è altro che una delle tante manifestazioni dell’inarrestabile processo di erosione e spoliazione del corpo originario.
Eppure, e lì sta la meraviglia, il disegno erosivo ha voluto che per sottrazione, in questo preciso momento storico, venisse fuori la cima perfetta, l’archetipo della montagna. Specialmente se osservato da Torino il Monviso si presenta come un triangolo isoscele dalle forme regolari e simmetriche, striato dalla neve e dal ghiaccio a inizio estate, grigio in autunno, con le creste est e ovest che convergono a freccia verso il vertice della piramide. Il Monviso si presenta isolato, sovrano unico e indiscusso nell’interminabile arco di montagne che va dalle Liguri alle Graie. Nemmeno la vela bianca del Rocciamelone riesce a incrinarne la supremazia, perché contornata da cime che si fanno via via più alte e uniformi. I cinquecento metri di dislivello che separano il Monviso dal vicino Visolotto, montagna esteticamente notevole e alpinisticamente più difficile del suo “superiore”, diventano una distanza incolmabile sul piano della prospettiva perché il Visolotto è allineato con la restante cresta di confine, mentre il Viso svetta da ogni prospettiva avvicinando il tetto dei quattromila metri. E certamente, ai suoi tempi, è stato un quattromila.
Si può dunque parlare di montagna sacra? Sì ma con prudenza, perché la sacralità delle cime alpine è un problema delicato: sacri sono gli eremi, i santuari, speciali “monti” come Orta o Varallo, i luoghi insanguinati delle Dolomiti, forse perfino i colli resi tali dal sudore degli uomini. Ma le cime alte e difficili delle Alpi non furono sacre per i montanari, che nell’antichità le ignoravano, e lo diventarono solo successivamente per i seguaci della fede cattolica, quando le si identificò con i luoghi di culto: per esempio il Rocciamelone, salito nel 1358 dal crociato Roero d’Asti per onorare un voto alla madonna.
Probabilmente il Monviso è così amato e “sacro” non tanto perché sia una cima eccezionale, ma perché è la montagna di tutti. Questo è il suo credo, questa la sua bellezza.
Scorrendo la storia dell’alpinismo si scopre che il primo a sfiorare la cima fu un saluzzese, Domenico Ansaldi, che nel 1834 giunse a centocinquanta metri dalla vetta, sfiorandola. Se Ansaldi fosse riuscito il Monviso avrebbe avuto un destino diverso. Invece entrano in scena gli alpinisti d’oltre Manica: prima i britannici Forbes, Ball, Whymper, Mathews e Jacomb con le guide francesi sul versante sud, poi il reverendo americano Coolidge con le guide svizzere sulla parete nord.
Nel mezzo si dipana un’iniziativa assai variegata, poco decifrabile: Leopoldo Barale e Antonio Castagneri raggiungono la cima in inverno, i francesi salgono la parete nord ovest, Guido Rey e ancora Castagneri scalano la bella cresta est, che sarà ripresa dai Kind e Ubaldo Valbusa con la salita integrale; infine i lombardi Bonacossa, Binaghi e Bramani si aggiudicano la severa parete ovest, che guarda verso la Francia.
Poi arriva la terza e fondamentale fase di esplorazione, e qui comandano gli alpinisti locali. Emergono i saluzzesi e i cuneesi: i Perotti innanzitutto, guide della Valle Po, poi Giuseppe Gagliardone sugli itinerari di roccia, Campia ed Ellena sullo sperone nord, don Severino Bessone, Ernesto Bano, i fratelli Berardo, Hervé Tranchero, Guido Ghigo, il monregalese Gianni Comino, il forte Tristano Gallo, il ligure Fulvio Scotto e il valsusino Gian Carlo Grassi. Leggendo nel dettaglio le ascensioni della terza “conquista” si ritrova l’attaccamento affettivo e simbolico alla montagna di casa, che non ha certo la roccia da film del Monte Bianco, non ha ispirato pagine memorabili di letteratura alpinistica, non ha mai dato fama a nessuno scalatore e non tocca nemmeno i 4000 metri; eppure fa misteriosamente battere i cuori dei piemontesi. La ricerca degli ultimi problemi di ghiaccio e roccia del Monviso è una faccenda di amore e familiarità, bisogna amarla e conoscerla profondamente una montagna come il Viso per passarci le notti a bivaccare e rischiarci le mani in inverno, sapendo che difficilmente si finirà sulle pagine delle riviste più patinate. Bisogna averla scoperta e sognata dalla valle o dalla pianura, non sui libri ma sull’orizzonte.
Numerosi escursionisti e alpinisti piemontesi sono stati così rapiti dal fascino delle proprie montagne da perdere ogni gusto per il viaggio. Hanno scelto di “viaggiare” per sempre nelle loro valli e sui loro sentieri, riscoprendo senza mai stancarsi i familiari dettagli sotto nuove luci, come se l’infinita nostalgia del mondo vi fosse completamente racchiusa e non servissero altri profili, altre sfide. Il bello era lì a un passo da casa, bastava saperlo vedere:
«Davanti al paesaggio dolomitico – ha scritto Gian Piero Motti in un articolo dedicato alle Alpi Marittime e Cozie – chiunque si sente di dire che è “bello”, come chiunque, di fronte al versante meridionale del Monte Bianco, sa dire che è “grandioso e selvaggio”. Invece, percorrendo una qualsiasi valle delle Alpi piemontesi, non ti compare di fronte agli occhi nulla di così bello, nulla di così sconvolgente e grandioso. Ma se poi ti soffermi, se osservi, invece di guardare semplicemente, se vi ritorni con luci e ombre diverse, se ne segui il mutare dei colori nelle stagioni, come per magia e incanto scoprirai un mondo di bellezza riposta e nascosta che esplode in tutta la sua luminosità solo dopo una lunga conoscenza».
Le nostre montagne sono come il Viso, e lui sembra fatto apposta per noi piemontesi che bruciamo di passioni carsiche e amiamo misteriosi amori. Bisogna conoscerci dentro per imparare a capirci e a volerci bene.
E allora, per finire, dobbiamo chiamarlo Monviso o Viso? La lingua del cuore dice Viso imitando la forma semantica usata nelle valli, il toponimo espresso graficamente nelle forme lo Viso, o lou Visoul. È il titolo di una poesia di Tòni Baudrier, il poeta occitano:
Per nous soulajar, Pàire, per nous ensoulelhar,
nous as dounà ’n pairin, un miralh dau soulelh,
miralh nòu, soulelh vielh,
grand’oumbro, ’schalo-bruno, òuro freid, òuro chaud,
bas e mountant en àut,
per nous pourtar mai àut, bou l’armeto voular.
(Per consolarci, per colmarci di sole, Padre,
ci hai dato un padrino, uno specchio del sole
specchio nuovo, sole antico,
grande ombra, scala bruna del crepuscolo, ora freddo, ora caldo,
basso e salente in alto,
per portarci più in alto, con la piccola anima volare).
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