Pubblicazione

Guido Rossa, alpinista piemontese

Catalogo della mostra. Genova, Palazzo Ducale, Sala Liguria, 14 gennaio-20 febbraio 2022.

Le immagini di Guido Rossa scalatore ci riportano innanzitutto nei due luoghi che il giovane operaio frequentò senza sosta quando viveva a Torino: la Rocca Sbarua, storica palestra di roccia del Pinerolese, e la Parete dei Militi, l’appicco dolomitico confinato sopra Bardonecchia, nella Valle Stretta, già in territorio francese. Prima di diventare il “re” della Militi, Rossa scalò assiduamente gli speroni della Sbarua, dove si confrontavano – e lo fanno ancora – i rocciatori piemontesi, arrampicando sulle placche di gneiss, i pilastri dorati, i diedri geometrici, forse immaginando di essere sul Monte Bianco.
La Rocca Sbarua si trova a pochi chilometri da Pinerolo, tra la Val Lemina e la Val Noce, ma ai montanari delle due valli non importava niente di quel pezzo di roccia, anzi ne avevano paura, tanto che sbaruvé in piemontese significa “spaventare”. Se capitava, se proprio dovevano, i valligiani salivano sulla cima erbosa del Monte Freidour per riprendersi una capra scappata troppo in alto, prima che l’animale potesse precipitare dalle balze verticali. Più frequentemente salivano il Dente orientale di Cumiana, che con i denti gemelli prolunga e completa il teatro geologico spalancato sulla conca pedemontana di Cantalupa. La cima del Dente è raggiunta da un sentiero e sulla vetta si trova un piccolo santuario.
La Sbarua no, sulla Sbarua ci sono solo pietra e vento. La Rocca è un posto per alpinisti. Nel 1927 l’elegante arrampicatore pinerolese Ettore Ellena registra sul diario di montagna le prime scalate sulle rocce del Freidour, e in breve anche il vicino ambiente torinese scopre il magnifico terreno di allenamento. Le vecchie palestre dei Picchi del Pagliaio, di Rocca Sella e delle Lunelle sono ormai usurate dai troppi passaggi e non offrono più una vertigine all’altezza dell’agguerrito movimento alpinistico cresciuto tra le due guerre: Gabriele Boccalatte, Michele Rivero, Francesco Ravelli e, sopra tutti, l’oriundo friulano Giusto Gervasutti. Proprio Gervasutti, nel 1937, sale con Ronco le fessure granitiche del primo salto della Sbarua, superando passaggi di incastro e opposizione che ben ricordano lo stile di arrampicata del Monte Bianco e delle lontane, favolose Aiguilles de Chamonix. Poi Boccalatte, il più dotato arrampicatore torinese, inventa un numero da acrobata sull’ultimo appicco, un lastrone inchiodabile di trenta metri ornato da una perfetta vena di quarzo. Ci vuole tutta la flemma del grande placchista per calmare il battito del cuore e seguire fino in cima la sottile linea bianca. Infine la “Gerva” e la “Vena” diventano le due grandi classiche della Sbarua.
La stagione del dopoguerra appartiene alla nuova generazione dei Mellano, Rabbi, Barbi, Mai, e su tutti spicca la personalità di Guido Rossa, il ragazzo-operaio che non ha paura di niente fuorché del conformismo. Si impegna a risolvere i problemi “impossibili” della Rocca, come le aggettanti e spaventose Placche Gialle, il muro yosemitico che sale utilizzando i diabolici tasselli artigianali fatti in officina che tengono lontani gli imitatori:
«Aveva inventato dei rudimentali chiodi a espansione – mi ha raccontato Dino Rabbi – costituiti da particolari bulloncini con testa a brugola presi in Fiat e da una placchetta artigianale bloccata dal moschettone: tolto quello rimaneva solo il bullone. Alberto Marchionni ha cercato di ripetere la via e si è trovato una sfilza di tondini senza placchette!»
Rossa vuole sperimentare, stupire, trasgredire, rompere i tabù. Una domenica raggiunge i piedi della via di Gervasutti in giacca e cravatta, con ai piedi scarpe da città.
«Vai a un matrimonio?» chiedono gli amici.
«No, vado alla Gerva» risponde serissimo. E così, slegato, sale e ridimensiona il mito.
A Guido piace scandalizzare. Adora sbriciolare le certezze borghesi, e non solo. «Viaggia su una moto tenuta insieme dal fil di ferro e ornata di teschi e ossa incrociate. Si atteggia un poco a pirata – ricorda Armando Biancardi – sempre pronto a scendere all’arrembaggio. E ha il becco, e le spalle, di portarsi ovunque, arrampicate estreme incluse, un impermeabile con relativo cappellaccio, di non so quanti chili, rigido, ingombrante, in dotazione sui pescherecci». Leo Ravelli l’ha visto a cavallo di un crocefisso in Valle Stretta e di una mucca in Val Lemina, come al rodeo. Un anno, non si sa perché, partecipa al corso di formazione per istruttori nazionali del CAI. Sul terreno è quasi perfetto, ma al colloquio con il grande Riccardo Cassin, un monumento dell’alpinismo italiano e internazionale, dichiara alla commissione: «A me delle scuole non frega niente». Naturalmente viene espulso dal corso.
Come tutte le azioni umane, le gesta di Rossa vanno contestualizzate. Il dopoguerra appartiene a una generazione di alpinisti proletari, molto diversi dagli scalatori colti e aristocratici del ventennio. È finito un tempo e se ne affaccia un altro, confusamente. Nei primi anni Cinquanta del Novecento, quando Guido inizia ad arrampicare, l’alpinismo subalpino è ancora alle prese con una crisi di transizione e si dibatte tra la nostalgia per la grande stagione finita da poco – quella a cavallo della guerra – e un’altra appena abbozzata che oscilla tra scherzi goliardici, reminiscenze autoritarie, vecchi miti e nuovi orizzonti. Lo stesso Rossa è affascinato dai gesti forti, virili, che dietro la volontà trasgressiva, forse innovativa, nascondono pericolose tentazioni superoministe retaggio del Ventennio. A Torino l’influenza del regime è stata fortunatamente meno marcata che altrove e l’alpinismo ha mantenuto vitalità e spirito, salvandosi almeno in parte dalle degenerazioni eroiche, ma si avverte comunque lo smarrimento per una tradizione che va sfumando, un associazionismo senza leader e un sentimento alpino non più patriottico, non più romantico, non ancora rinnovato.
Il secondo dopoguerra è iniziato nel modo più crudele con la caduta di Giusto Gervasutti sul Mont Blanc du Tacul, nel settembre 1946, durante una discesa in corda doppia. Gervasutti ha lasciato un vuoto enorme, apparentemente incolmabile. È stata proprio la scuola intitolata al “Fortissimo”, una delle accademie alpinistiche più attive e convinte, a selezionare e motivare i nuovi talenti seguendo gli insegnamenti del maestro ma allontanandosi in parte dal suo stile. «Chi si dà all’alpinismo con i soli muscoli – scriveva il friulano rivolgendosi ai giovani – si ritrarrà da esso dopo pochi anni, sazio di azioni puramente sportive; chi è alpinista con il cervello e con il cuore saprà trovarvi valori durante tutta la vita, tanto da giovane quanto da vecchio». Senza dubbio Giuseppe Dionisi, direttore e capo indiscusso della Scuola Gervasutti, ha in mente un alpinismo più semplice, asciutto e concreto, poco condizionato dalle reminiscenze romantiche del passato, semmai teso al risultato in un clima di scarse confidenze e rigidi rapporti gerarchici che ricordano più la caserma che l’università. La montagna è proposta come scuola di vita attraverso un tirocinio duro, disciplinato, poco affettuoso o scanzonato. E per niente ironico. Così la Gervasutti di Torino diventa il rito di iniziazione verso un alpinismo tutto di un pezzo, dove si impara ad arrampicare e si disimpara a fare di testa propria, e dove l’insegnamento è improntato al modello antico, coriaceo, sperimentato, sottilmente intransigente, seppure mitigato dal benefico understatement subalpino. Durante le lezioni teoriche Dionisi ha modo di ribadire il suo concetto di scuola e di montagna:
«Non è necessario rammentare che la disciplina, in tutti i casi della vita, ha un’importanza di prim’ordine, poiché nulla si può ottenere quando essa venga a difettare […] Nella scuola che dirigo da molti anni è obbligo all’Istruttore dare del Lei all’allievo, così come, naturalmente, l’allievo deve fare rivolgendosi all’Istruttore».
In questo contesto matura il giovane Rossa, che subito si dimostra un arrampicatore di eccezionale talento. Un po’ artista e un po’ artigiano, sale con scioltezza dove gli altri non passano, specie sul delicato e sul friabile, ed è bravissimo a costruire e adattare attrezzi, strumenti, metodi, visioni. In questo è subito un innovatore. Esibisce un coraggio fuori dal comune, come non avesse paura di niente fuorché della ripetizione. Il lavoro in fabbrica limita notevolmente le mete e gli spostamenti del giovane Guido, e per questo, complici il treno di Bardonecchia e quella moto rabberciata descritta da Biancardi, la Parete dei Militi diventa il suo terreno preferito in ogni stagione dell’anno.
«Ci incontrammo sulla via Dubosc alla Parete dei Militi – mi ha raccontato il sindacalista torinese Mario Gheddo –. Lui era con una ragazza, Giuliana, che non voleva saperne di salire la grande placca. Per convincerla è salito e sceso bel po’ di volte, tranquillo, senza esitazioni. Sapeva essere molto persuasivo…».
D’altra parte in parete Guido comandava già a diciassette anni, quando con Giacomo Menegatti era andato sulle Dolomiti per scalare niente meno che le due mitiche vie di Emilio Comici sulle Cime di Lavaredo: parete nord della Cima Grande e Spigolo Giallo. Per il prudente ambiente torinese si trattava di due salite proibite, ma Rossa e Menegatti, spregiudicati e dissacratori, non si erano lasciati intimidire. Anzi. Al ritorno sghignazzavano di scherzi grevi in parete e di orinate all’indirizzo del compagno.
La Militi è la dolomite di casa, su cui Rossa sale almeno trenta volte ripetendo tutte le vie classiche e aprendone di nuove, molto difficili, avventurandosi perfino in inverno, quando sulla muraglia non si vede anima viva, neanche alla base delle rocce, e sembra di essere capitati in un gelido avamposto del grande Nord. Guido è il migliore su quel calcare friabile e un po’ inquietante che Massimo Mila ha definito “un’imitazione riveduta e peggiorata” delle Dolomiti, passa leggero dove gli altri penano o “trovano lungo”, come si dice a Torino. La Militi è fragile. Per scalare la parete grigia e strapiombante non serve la forza, bisogna essere delicati e arrampicare con la testa. Lui lo fa con stupefacente sicurezza, d’estate, d’inverno, solo, in cordata, con amici forti e principianti. Per molti anni è il vero signore della Militi, finché «lascia Torino e se ne va lontano. Per un po’ il silenzio avvolge la grande parete… Anche lei sa di aver perduto la sua stessa anima», osserva Gian Piero Motti, altro cultore del muro della Valle Stretta e, in un certo senso, “erede” spirituale di Rossa:
«Un giorno d’inverno incontrerò Guido Rossa – scrive Motti nel pieno di una crisi di nervi –. Fissandomi a lungo con quei suoi occhi che ti scavano e ti bruciano l’anima, con quella sua voce calma e posata, mi dirà delle cose che avranno un valore definitivo».
Ciò che li unisce è la capacità di guardarsi da fuori, come alpinisti e soprattutto come uomini, valutando i pro e i contro della comune passione alpinistica. Un fuoco che scalda il cuore e riempie la vita, senza dubbio, ma inevitabilmente, come l’eroina, può allontanare gli scalatori dal consorzio umano, fino al rischio del fallimento esistenziale.
«L’indifferenza, il qualunquismo e l’ambizione che dominano nell’ambiente alpinistico – scrive Rossa in una lettera del 1970 all’amico Ottavio Bastrenta – sono tra le squallide cose che mi lasciano scendere senza rimpianto la famosa “lizza” della mia stagione alpina. Da ormai parecchi anni, mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici che mi sono vicini l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti, sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio, per poi raggiungere (meritato premio) un paradiso di vette pulite perfette e scintillanti di netta concezione tolemaica, dove per un attimo o per sempre possiamo dimenticare di essere gli abitanti di un mondo colmo di soprusi e ingiustizie…».
«Ho conosciuto molti ragazzi e molti uomini – gli fa eco Motti sulla Rivista Mensile del CAI, in un famoso articolo del 1972: I falliti – che avevano trovato nell’alpinismo il compenso al loro fallimento nella vita di ogni giorno. Uomini che avevano dato e che danno caparbiamente tutto se stessi alla montagna, con l’illusione di trovare un’affermazione che li ripaghi di tutte le frustrazioni, le delusioni e le amarezze della vita».
La critica verso il qualunquismo degli alpinisti e il loro distacco dai problemi della gente, è maturata in Rossa dalle varie tragedie della vita, a cominciare dalla prematura morte del figlio Fabio, e in particolare, forse, dal fallimento della sognata spedizione himalayana del 1963, quando ha vissuto le emozioni e le angosce della grande avventura extraeuropea con gli amici del CAI UGET di Torino. In Nepal è andato tutto storto. Tentando i settemila metri del Langtang Lirung con attrezzature ed esperienza inadeguate, il gruppo piemontese ha subito la terribile perdita di Giorgio Rossi e Cesare Volante, precipitati sul ghiacciaio. Guido era molto legato a Rossi e la sua morte lo ha segnato in profondità, generando probabilmente la profonda revisione circa il modo di intendere e vivere l’alpinismo.
Con questo non bisogna pensare che Rossa abbia mai abbandonato la montagna, perché non l’ha fatto nemmeno quando ha lasciato Torino e le Alpi per andare a vivere in Liguria. L’approccio è certamente mutato, e anche l’investimento affettivo, ma ha continuato a scalare fino all’ultimo, ripetendo gran parte dei grandi itinerari delle Alpi occidentali, dal Cervino (anche d’inverno) al Monte Bianco, dove ha scalato due volte in arrampicata solitaria la lunga e difficile cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey. Trasferendosi da Torino a Genova sono cambiate le pareti domestiche, che un tempo venivano intese come rocce d’allenamento, ma nella sua visione in anticipo sui tempi bastavano a se stesse, anche se non portavano su nessuna cima prestigiosa. Rossa è tra i primi a esplorare i bianchi risalti calcarei del Finalese, dove la pietra è ben più solida che sulla Parete dei Militi, anticipando la scoperta di quel territorio roccioso che diventerà uno dei santuari dell’arrampicata sportiva.
Negli anni Settanta mutano le priorità. Mentre in fabbrica matura l’ideologia della lotta operaia, le altre passioni si ridimensionano. Rossa diventa un interprete dei cambiamenti del Sessantotto culturale e politico, nel suo stile risoluto ma appartato, e ogni credo, compreso l’alpinismo, fa i conti con la nuova scala di valori. Nel dicembre del 1962 nasce Sabina, la secondogenita; lui adora i bambini e le dedica quasi tutti i fine settimana. Nel tempo libero estende gli interessi alla fotografia, alla pittura e alla scultura. Nelle domeniche invernali gira per i borghi liguri fotografando chiese, ponti, tramonti e periferie. È l’autodidatta che ama dar vita alla materia grezza, il non credente che regala un Nazareno di ferro contorto all’amico comunista Bastrenta. Legge molto e di tutto. Quando scopre Herbert Marcuse se ne innamora e lo propina ai compagni di cordata nei lunghi viaggi verso le Alpi.
Lui che in montagna era stato anarchico e provocatore, insofferente a ogni regola di prudenza, sposa le tesi della corrente riformista di Enrico Berlinguer. Per sciogliere l’apparente contraddizione, alcuni anni fa chiesi lumi a Piero Villaggio, alpinista e matematico di razza. Villaggio sciolse i miei dubbi con queste parole:
«Guido era un pragmatico. Diceva: “Ci sono dei momenti storici in cui serve compattezza”. Era un marxista nel senso che vedeva i problemi nel loro divenire storico, ma senza rigide ideologie.
La spavalderia di Guido era nobiltà. Sempre ironico con se stesso e con gli altri, era troppo intelligente per fare il furbo. Non si prendeva troppo sul serio, era schivo, mascherava gli affetti e i sentimenti. In qualche modo tratteneva la sua umanità. Ma nei momenti del bisogno venivano fuori le sue attenzioni, come nei bivacchi: “Hai messo il maglione? Hai tirato su il colletto?” Era un primo di cordata naturale, però ti diceva “comincia tu” e poi restava dietro per tutta la salita. Per farti contento».
Ottavio Bastrenta precisa:
«Guido operaio, Guido alpinista, conquista la sua credibilità con l’azione, ove emergono le sue caratteristiche e doti migliori e ove più appare solido, lucido, coerente. I suoi compagni di lavoro e di lotta sindacale e politica, come i suoi compagni di cordata, hanno sin dall’inizio piena fiducia in lui, una fiducia che lui non deluderà mai. Ma Guido sentiva e credeva che questa autentificazione al ruolo non poteva essere data una volta per tutte, ma doveva essere sempre verificata e rinnovata dalla prassi». Questo valeva anche per la scalata, che non poteva ridursi a una medaglia per le imprese compiute.
Alla fine del 1978 partecipa all’annuale riunione del Club Alpino Accademico al Monte Cappuccini di Torino. Ci sono i vecchi amici e gli amati profili delle montagne piemontesi, Guido è gioviale, ma a un certo punto spara a bruciapelo: «’T sas ch’a veulo feme fòra? (Sai che vogliono farmi fuori?)». Franco Ribetti cade dalle nuvole e gli chiede una spiegazione, allora lui aggiunge: «Sì, mi hanno minacciato di brutto. Va a finire che ho rinunciato a far carriera per il sindacato, e adesso quegli altri mi fanno fuori».
Quando muore – processato, condannato e assassinato dalle Brigate Rosse – il mondo della montagna non si accorge di nulla, o quasi. I compagni di cordata lo piangono tra Torino e Genova, ma le istituzioni alpinistiche se ne sbarazzano alla svelta. Rossa è scomodo perfino da morto, e anche chi non avrebbe motivo di nascondere la partecipazione stenta a mettere insieme l’alpinista e il sindacalista, l’impavido arrampicatore e la vittima del terrorismo rosso. È difficile collegare il ragazzo che sbeffeggiava le scuole di alpinismo all’uomo che si è sacrificato per difendere la democrazia. Lo speleologo ed esploratore Marziano Di Maio, uomo retto e commentatore accurato, scrive un necrologio per la Rivista della Montagna. Quando, come segretario di redazione, gli chiedo di firmare il pezzo scuote risolutamente la testa, perché la Rivista è un servizio, dice, non il teatrino delle vanità. E poi sarebbe in palese contraddizione con la modestia di Guido, mi fa capire.
«Con la sua forte personalità aveva rappresentato molto per l’alpinismo torinese del dopoguerra – scrive Di Maio sulla Rivista –, in quel vivace fermento di idee, di aspettative deluse, di ricerca di evasioni dalla vita della città e della fabbrica. Era diventato Accademico e presidente del prestigioso Gruppo Alta Montagna del CAI-UGET, ma non erano questi i traguardi che lo interessavano; sin da ragazzo lo assillavano i problemi della giustizia sociale e dei diritti dell’uomo… È per desiderio di giustizia che ha messo a repentaglio la vita, stroncatagli da mano assassina all’età di 44 anni».
All’epoca gli alpinisti non si accorsero di nulla perché Guido gli era scappato via da tanto tempo. Non era più uno di loro, non ragionava più da scalatore.