Pubblicazione

Il fuoco e il gelo


Oggi intendo parlarvi di quella che, volgarmente, si chiama “Guerra Bianca”. Sembra che sulla definizione gli storici non siano d’accordo, perché c’è chi sostiene che la Guerra Bianca sia soltanto la battaglia legata alla alte quote e ai ghiacciai, per esempio quella dell’Adamello, e quella del Cevedale, ma non ha importanza. Con questi termini intendiamo una guerra che si sviluppa lungo un fronte veramente assurdo, che ha la forma di una esse rovesciata, parte dal Passo dello Stelvio, attraversa il massiccio dell’Ortles-Cevedale, passa per l’Adamello, scende lungo le Giudicarie, attraversa la bassa del Garda e poi risale sugli altopiani del Pasubio, di Asiago, poi tutte le Dolomiti, le Alpi Carniche, le Giulie e scende praticamente fino a Trieste. Finalmente, sul Carso, il fronte riposa a quote più basse, ma certamente non più pacifiche.

Non sono uno storico militare, vorrei soprattutto proporvi delle immagini che mi hanno colpito. Non sono arrivato a questi argomenti attraverso la passione per la guerra, ma attraverso quella per la montagna. Ho scoperto cose incredibili, avvicinando i luoghi e i diari di chi è stato in guerra; di chi era protagonista. Con il tempo mi sono interrogato sul senso di allora, se c’è mai stato un senso, e su quello odierno, che vuole ricordare e anche riflettere su questa carneficina.

Oggi vorrei partire da alcune evidenti contraddizioni, per suggerire una lettura del conflitto alpino attraverso dei paradossi. Mi sembrano utili per comprendere la follia di tutte le guerre e in particolare di questa – la guerra delle Alpi – che si sviluppa in luoghi dove nessuno avrebbe mai pianificato una battaglia. Si tratta di cime, creste e pareti su cui oggi, dopo cento anni nei quali si è accumulata una grande esperienza, con sviluppo di materiali sofisticatissimi e previsioni meteo impeccabili, saliamo solo per ragioni alpinistiche. Sono ancora luoghi dove si va per rimanere qualche minuto e poi ridiscendere. Sono luoghi inospitali, disumani, perché l’uomo non è “progettato” per abitare a quattromila metri, in cima all’Ortles, d’inverno, soprattutto con le attrezzature del primo Novecento. Oggi saliamo su quelle cime, scattiamo una fotografia e scappiamo via. Inoltre affrontiamo l’ascensione con clima favorevole, quando le previsioni ci forniscono la garanzia del bel tempo. Questi posti, invece, sono stati abitati (per la prima volta nella storia dell’umanità) da eserciti di decine di migliaia di persone, formati perlopiù da ragazzi poco esperti di montagna, che provenivano da tutte le regioni d’Italia, anche dal Centro e dal Sud, da posti in cui le montagne come le Dolomiti nemmeno ci s’immaginava esistessero. È stato il primo tragico momento in cui si sono incontrati i ragazzi d’Italia, che parlavano dialetti talmente diversi che non si capivano neppure tra loro; spesso i ragazzi del Nord, che vivevano vicino al fronte austriaco, si comprendevano meglio con il nemico che con i loro commilitoni, provenienti da tutte le regioni di quell’oscura entità che allora era il nostro Paese.

Il primo paradosso è il concetto di frontiera. Tutte le guerre nascono per un problema di confini e quando l’Italia dichiara guerra all’Austria, nel maggio del 1915, la frontiera alpina passa sulle cime. Gli strateghi che hanno tracciato i confini dopo la nascita degli Stati nazionali e dopo il Trattato di Utrecht, quindi dal 1713 in poi, hanno fatto coincidere la linea di confine con quella dello spartiacque. Oggi a noi sembra naturale che dietro a una cresta ci sia un altro Stato, anche se cerchiamo di rendere permeabili questi confini, ma nei secoli precedenti questo non era assolutamente comune. Un tempo chi viveva in montagna aveva costumi, tradizioni, speranze e visioni, abbastanza simili. Un esempio è quello delle Dolomiti di Sella, attorno alle quali vive la minoranza ladina: Val di Fassa, Val Gardena, Val Badia e valle di Livinallongo. Queste popolazioni non sono divise dal gruppo del Sella, semmai ne sono unite, si capiscono tra loro, anche se in Val di Fassa normalmente parlano italiano e in Val Gardena parlano tedesco; però quando parlano in ladino si comprendono. La minoranza ladina è uno dei tanti esempi secolari che dimostrano la comunanza delle genti riunite sotto le cime. Non sono vere repubbliche, anche se si parla della Repubblica degli Escartons sotto al Monviso, sono dei modi di vivere regolati da usi civici e culturali comuni, uniti dalle montagne e non divisi. Geograficamente le montagne dividono le genti, questo è indubbio, però da un punto di vista antropologico e culturale, per molti secoli, esse hanno unito le popolazioni.

Un altro esempio ancora più evidente è la Savoia, ceduta ai francesi da Cavour nel 1860-61; prima il Monte Bianco sta al centro del Regno di Sardegna, non lo divide; così come il valico del Moncenisio. Il Regno, allora, era costruito attorno le montagne e la capitale passava da Torino a Chambéry.

L’idea dello spartiacque nasce dunque con la definizione dei confini dopo la fondazione degli Stati nazionali; è quindi un’idea relativamente recente e, soprattutto, molto astratta. È un’idea confacente alle esigenze militari, che non considera tante altre cose; per esempio non considera, come succederà nel 1915, che se gli italiani e gli austriaci si trovano a combattere e la linea del confine passa sulle creste delle montagne, può accadere qualcosa d’irreparabile.

Va detto che gli italiani pensano di risolvere presto la faccenda, essendo superiori per quantità di soldati. All’inizio, ignorando l’orografia del territorio, si pensa che queste creste siano difese molto debolmente da qualche tiratore scelto. Si crede erroneamente di superare le montagne in fretta, confidando che la guerra si combatterà poi in posti meno inospitali. Non succede affatto così, perché bastano pochi presidi forti, efficienti, nei posti chiave, spesso formati da fortezze naturali come il Castelletto della Tofana, dove sembra che il Creatore abbia realizzato volutamente delle roccaforti di calcare o granito, per fermare l’avanzata. Agli austriaci basta occupare questi avamposti prima dell’arrivo degli italiani e per tre lunghissimi anni nessuno si muove più da lì.

Nasce quindi una guerra a rovescio, in cui è quasi meglio perdere una postazione a tremila metri piuttosto che prenderla. Pensate cosa voglia dire difendere un presidio ad alta quota, con le attrezzature di allora, d’inverno, con trenta gradi sotto zero, con metri di neve, con gli immensi problemi derivati dalla situazione, specie per quanto riguarda l’approvvigionamento. È quasi meglio perdere la fortezza naturale, anche perché si perde soltanto qualche centinaio di metri, al massimo qualche chilometro, e il fronte rimane inalterato. Si tratta di una guerra che non si può né vincere né perdere; nessuno dei due contendenti può sconfiggere l’altro. Il conflitto diventa una guerra d’attesa e di resistenza, soprattutto; tutto il contrario di com’è dipinta dalla propaganda di allora, che propone dei ragazzi che salgono verso il cielo, sulla montagna purificatrice, sulle nevi candide. È tutto il contrario: è una guerra di fango e di freddo; in tutti i diari emerge il freddo, intollerabile, perché un inverno in montagna a tremila metri comincia a settembre e finisce a giugno e certe volte non si conclude mai. Non erano le stagioni miti alle quali noi oggi siamo abituati, sono stati due inverni terribili. Dopo l’estate del 1915, l’inverno è iniziato presto e si è subito rivelato il problema maggiore: il resistere a quelle quote in quelle situazioni.
Il primo paradosso di questa guerra giustifica il grande interesse nel leggere queste storie di resistenza esemplare, dove nessuno prevede, all’inizio, di poter sopravvivere in simili condizioni, per tre anni; ma quando si trovano davanti alla necessità, gli uomini e i ragazzi tirano fuori delle risorse eccezionali. Ogni mattina ognuno di loro vorrebbe fuggire, però non si può, è impossibile. Da un lato per il senso del dovere inculcato da generazioni di genitori e maestri, dall’altro per la paura della fucilazione immediata prevista per i disertori. Succede così che si rimanga a presidiare dei posti come la Cima Grande di Lavaredo, non l’altopiano sotto le cime, ma la cima vera e propria, sulla quale si trasporta perfino un riflettore per illuminare il campo di battaglia.

Sembrano episodi leggendari o cinematografici. Immaginate cosa significhi trasportare un riflettore o un cannone sulla Cima Grande di Lavaredo, un itinerario di terzo grado superiore, con dei passaggi difficili, tanto vuoto e con i mezzi di allora! Sembra l’impresa di Fitzcarraldo, che va oltre ogni possibile immaginazione. E di queste inutili imprese ne sono state compiute tante.

Prima della guerra il paesaggio era caratterizzato da una coltura e cultura contadine, che si fermavano ai campi e, al massimo, si spingevano sui pascoli fino a 2500 metri d’altitudine; nessun montanaro sentiva il bisogno di spingersi oltre la soglia delle rocce, degli strapiombi o dei ghiacci. Rocce e ghiacci, allora, erano frequentati soltanto da pochi ricchi, che potevano permettersi di scalare le montagne; l’alpinismo era nato da qualche tempo, ma soltanto un’élite aveva la possibilità economica e la passione per praticarlo, facendosi accompagnare dai montanari.

Il paesaggio alpino, quasi del tutto inesplorato, frequentato soltanto da poche avanguardie, diventa paesaggio completamente spianato, lavorato e anche distrutto dalla guerra; non soltanto dalle armi, ma dall’opera dell’uomo, che deve rapidamente costruire strade, piccole città di baracche, camminamenti, gallerie, teleferiche, impianti elettrici e quant’altro. Avviene una rapidissima trasformazione del paesaggio alpino, che prima era un paesaggio vuoto perché il “pieno” si fermava ai pascoli, e improvvisamente è riempito di uomini, armi e mezzi di ogni sorta. Si scalano le montagne e si scava al loro interno; si sale verso il cielo e si scende agli inferi, per nascondersi nella pancia delle montagna. Mai, nella storia dell’umanità, si è fatta una cosa del genere, e speriamo che non si ripeta più.
Osservando le trasformazioni brutali di questa guerra ho trovato alcune analogie con lo sci di massa, sviluppatosi soprattutto nel secondo dopoguerra. Ad ogni modo nemmeno lo sci, con le sue tecnologie avanzatissime e con la volontà di colonizzare nuovi territori, è riuscito a superare i danni ambientali prodotti dalla Grande Guerra.

Dunque ci si deve impegnare più a sopravvivere che a combattere. La frontiera diventa una trappola, perché è difficilissimo tirare avanti a queste quote. Si cerca di sopravvivere sui ghiacciai con soluzioni d’emergenza come la città di ghiaccio della Marmolada, una vera e propria città scavata dentro al ghiaccio, con i nomi delle vie e le linee telefoniche. Si vive, per due anni, dentro questa città, dove paradossalmente si sta meglio che fuori, perché la temperatura non va mai sotto gli zero gradi, mentre all’esterno si arriva anche a meno trenta, con venti a duecento chilometri all’ora. Inoltre, dentro la città di ghiaccio, non c’è il pericolo delle valanghe, che causano tante vittime all’esterno, in luoghi in cui oggi non ci sogneremmo d’andare con la neve abbondante, ma che allora bisognava presidiare e rifornire con ogni tempo, attraversando pendii pericolosissimi. In definitiva, è stato abitato l’inabitabile. Il paradosso è questo: un fronte che invece d’essere scavalcato e vinto, come proclama la retorica del tempo, diventa un luogo dove l’unica parola sincera e reale è “attesa”, speranza di un qualcosa che non arriva mai. Si guarda con trepidazione l’aereo che passa, sperando porti qualche novità; ma la novità non arriva mai. Si attende una lettera dalla famiglia o dalla pianura, che porti la buona notizia. La buona notizia però non giunge mai. Alla fine si spera soltanto di arrivare a domani e magari vedere un’altra estate, quando la montagna ritornerà verde e vivibile.

L’altro paradosso che ho rilevato in questa guerra è di natura estetica: questi ragazzi sono morti combattendo tra loro, nei posti più belli delle Alpi centro-orientali. Non si parla di luoghi dimenticati, di valli nascoste, ma delle “cartoline” delle nostre Alpi, di quei posti ammirati già allora dai pochi turisti, e oggi dai molti. Si va dallo Stelvio al Cevedale, all’Ortles al San Matteo al Cristallo, su quei ghiacciai che erano molto più belli allora di oggi, tutti spelacchiati e in palese ritiro. Pensiamo soltanto all’Adamello, al Pian di Neve, un piccolo pezzo d’Antartide dentro le Alpi. Le Giudicarie sono le montagne meno conosciute di questa guerra, però hanno dei valloni magnifici, come quello sul versante meridionale dell’Adamello, come quella grotta eccezionale, nella roccia del Corno di Cavento, recuperata recentemente (2008-2010). Risalendo troviamo gli altopiani, anch’essi luoghi incredibili. Consiglio a tutti di camminare sull’altipiano d’Asiago e salire l’Ortigara; si entra in un paesaggio inaspettato, un pezzo di luna a duemila metri, da cui si spazia a 360 gradi. L’Ortigara è un luogo di una bellezza straziante, così come il Pasubio.
E procedendo con il fronte incontriamo le Dolomiti più famose, non posti qualsiasi: le Tofane, il Monte Cristallo, le Tre Cime di Lavaredo, il Paterno, le Dolomiti di Sesto. Il monte Piana, ad esempio, è un meraviglioso belvedere in faccia alle Tre Cime, da una parte, e verso le valli del Sud Tirolo dall’altra, segnato completamente dai camminamenti. Qui si unisce la guerra verticale con quella orizzontale. Sono posti che hanno visto gli scontri più terribili, dove il rigore della montagna si somma alla crudele guerra di trincea. Lo stesso capita sull’altipiano di Asiago e sul Pasubio. Si percepisce un contrasto tremendo, tra la bellezza più assoluta e la crudeltà più insulsa, dove ci si uccide senza ottenere nessun risultato; è un aspetto che produce una grande impressione su di noi, oggi, che visitiamo quei posti.

Pensando a questi seicento chilometri di fronte viene in mente quel volto, nel film “Cinque giorni un’estate” di Fred Zinnemann, che emerge dal ghiacciaio cinquant’anni dopo. Il volto dell’uomo è ancora intatto, eternamente giovane. Noi, visitando questi luoghi di guerra, siamo immersi totalmente nell’ambiente di allora perché tutto è rimasto pressoché intatto come cent’anni fa. Le trincee, le baracche, i reticolati sono ancora lì, quasi preservati, nonostante siano trascorsi cento anni. Spesso c’è stato un lavoro di recupero, altre volte il gelo e il disgelo, il sole e le piogge hanno inciso in profondità, ad ogni modo il contrasto tra bellezza e crudeltà si può vivere in prima persona ancora oggi. E’ un’altra caratteristica straordinaria di questa guerra e, soprattutto, di questo fronte. Anche il Carso, indubbiamente, è visitabile, ma in montagna ci si stupisce di più, perché sembra di salire verso il paradiso e invece ci si ritrova in un inferno, o, perlomeno, ci si entra attraverso le letture delle memorie. Era il contrasto lancinante tra la voglia di scappare e quella di aiutarsi reciprocamente. Esistono casi documentati in cui, senza retorica, per sopravvivere all’inverno, nel rigore dei due o tremila metri, tra eserciti avversari, ci si scambiava il vino col tabacco, e sembrava più logico darsi una mano piuttosto che infierire, quando oramai si capiva che la guerra era persa nella sua concezione di base, e qualunque piccola vittoria non avrebbe contato nulla. Questo è il secondo paradosso: un contrasto persistente tra la bellezza assoluta e la crudeltà più assurda.

Il terzo paradosso, ritornando al presente, l’ho rilevato in queste forme d’attività turistica che, con una brutta definizione, potremmo definire “turismo di guerra”. In realtà è turismo a tutti gli effetti, numericamente significativo, che unisce la visita ai luoghi e alle montagne, a un’immersione nella storia. In questo percorso il turista è accompagnato con grande attenzione da una serie d’interventi museali, in genere leggeri, poco invadenti, sia sul terreno (cartelli e piccole indicazioni), sia nei piccoli musei che s’incontrano lungo quasi tutto lo sviluppo del fronte. L’evoluzione del “pellegrinaggio” bellico è durata un secolo: parte dai primi recuperanti, che cercano reperti per rivenderli come rottami ferrosi, e arriva a oggi, quando oramai nessuno svolge quest’attività per lucro, ma per memoria, in certi casi quasi per devozione. Da allora fino a oggi, la linea del fronte è stata mantenuta viva attraverso interventi museali, incontri di vario genere, testimonianze che si sono tramandate da una generazione all’altra. La memoria sopravvive soprattutto attraverso tanti segni di ricordo e devozione, comprese le croci che si trovano sparse, ognuna diversa dalle altre. Questo è un altro elemento che colpisce: il paradosso è che noi, però, ci arriviamo con una visione consumistica della montagna. Utilizziamo le stesse lingue di allora, prevalentemente nelle Dolomiti, dove si parlano l’italiano e il tedesco, e questo è un altro elemento che colpisce e fa riflettere.

Siamo in pace, parliamo le stesse lingue, andiamo negli stessi posti, ma abbiamo una cultura e una visione del mondo completamente diversi dai soldati del 15-18. Questo paradosso, se volete, è anche creativo, costruttivo; certe volte si è un po’ esagerato, negli interventi museali, penso al Piccolo Lagazuoi, anche se sono comunque riconoscente a chi ha lavorato a quel recupero. Sono luoghi all’aperto ma allestiti come dei veri e propri musei, dunque c’è il rischio che qualcuno ci vada così come si va sull’otto volante. Generalmente però ciò non succede, la gente sa dove
si trova e cerca di capire cos’è successo, cos’è stato quel periodo, ovviamente ciascuno con la propria conoscenza, esperienza e sensibilità interiore. Ad ogni modo si cammina in un cimitero, su un fronte martoriato; è difficile andare sulle Dolomiti, sull’Adamello o sull’altipiano d’Asiago senza accorgersi che lì c’è stata la guerra.
Oltretutto, il ritiro rapidissimo dei ghiacciai negli ultimi decenni è un catalizzatore di questa memoria, perché affiora di tutto: armi, strumenti musicali, diari, corpi umani, spesso impossibili da identificare dopo cento anni. Lo scioglimento dei ghiacciai restituisce davvero una memoria di carne viva, martoriata da questa guerra.

Vorrei aggiungere un elemento riguardo al turismo dei giorni nostri. Le Alpi oggi, dopo cento anni, dovrebbero essere il contrario di ciò che sono state allora, vale a dire una linea severa invalicabile di divisione, quasi una muraglia cinese, come ha affermato Paolo Rumiz; adesso “dovrebbero”, e metto le virgolette perché non ci siamo ancora arrivati, essere la cerniera e la spina dorsale di questa nuova Europa, di cui tanto parliamo, ma di cui forse non abbiamo ancora le idee tanto chiare. In certi casi però ciò esiste già; il fronte, in alcuni punti, dimostra che la cerniera esiste e i tempi sono cambiati. Potremmo considerarlo un viatico di quelle battaglie e di quelle sofferenze. Le Alpi, però, intese in senso più ampio, rimangono spesso una frontiera: pensate al bisticcio idiota che italiani e francesi inscenano sul confine del Monte Bianco, dove si litiga per quattro o quaranta metri di ghiaccio, perché dietro c’è l’interesse di una nuova funivia e la necessità di annettere un piccolo territorio che vale tanti soldi.

Ma non voglio scivolare in azzardi retorici sulla frontiera diventata cerniera, unione, Europa comune; purtroppo le Alpi rimangono un elemento di divisione. Questo fa riflettere, perché non sono bastati cento anni per rendere ridicola l’idea della frontiera alpina, forse dovremmo lavorare con più impegno per accelerare questo processo e ritornare, almeno, a quella consapevolezza che ho citato all’inizio, quando le Alpi erano un ambiente che legava le genti, oltre che dividerle geograficamente.

Ribadisco che la Guerra Bianca è stata una guerra nella guerra, più assurda dell’assurdo, perché è stata portata in posti dove nemmeno il generale più malato di mente avrebbe mai mandato i suoi uomini a combattere. La Guerra Bianca è un disvalore aggiunto nella follia della Grande Guerra, dove, per la prima volta, l’unità di misura per i morti e le armi ha sei zeri e non più tre, come in tutte le guerre precedenti. Ma c’è un momento in cui l’assurdità di questa guerra nella guerra emerge in modo chiaro e lancinante, vale a dire quando, dopo Caporetto, per ragioni strategiche, l’Italia richiama i soldati, alpini e non, che sono appostati sulle Dolomiti e li fa scendere a valle nel tempo di una notte, verso il Cadore, il Grappa e il Piave. È l’ultimo paradosso che mi ha colpito e vi voglio raccontare. Una pagina straziante.

Aprendo i diari nel punto in cui raccontano il momento dell’abbandono si scopre che tutti, anche chi ne era ancora un po’ convinto, per via del senso del dovere, per educazione familiare e religiosa, comprende che quell’azione non è assolutamente giustificabile, che non ha nessun senso. Nella notte, che è quella dei Santi, in una stagione autunnale molto diversa da quella odierna, quando il freddo ha già trasformato le Dolomiti in un paesaggio invernale, sul fronte dolomitico arriva un ordine che impone, dalla sera alla mattina, di evacuare il territorio. All’inizio nessuno capisce bene l’ordine, assolutamente insensato, che dopo due anni dice ai ragazzi di andar via. Lasciare di colpo quei posti che hanno visto morire i loro amici, quei posti su cui hanno dovuto trasportare pesantissimi cannoni, riflettori e costruire città di pietra, con sforzi immani. D’un tratto gli si ordina di lasciare tutto. All’inizio si pensa ad uno spostamento limitato a qualche metro, o a qualche chilometro, sperando che finalmente sia accaduto qualcosa, che la guerra si muova. Sì, è davvero successo qualcosa, ma si tratta della catastrofe; e dalla sera alla mattina inizia un esodo biblico. Tutto è lasciato in mano agli austriaci, si abbandona quel poco in cui ancora i ragazzi credono e sperano, quella parvenza di senso e possibilità che ancora è rimasta nella testa di quei soldati. Nel mio libro “Il fuoco e il gelo” descrivo l’abbandono del teatro di guerra in tre brani, ma ce ne sono tanti altri che rendono l’idea dell’assurdità assoluta e della disperazione totale. È una disperazione neanche paragonabile a quella della perdita di un amico, alla vita a trenta gradi sotto zero o a quando una valanga travolge trenta o quaranta commilitoni. È una disperazione cosmica! Tutti sentono di aver fatto tutto per niente, di aver ucciso ed essersi fatti uccidere per nulla. In quel momento, leggendo i diari, anche in quelli più motivati dilaga la disperazione.

Nell’assurdità raccapricciante della Grande Guerra mondiale, come nelle scatole cinesi, c’è anche questo non senso assoluto di chi ha combattuto sulle creste per due anni e poi le deve abbandonare in modo repentino e crudele. Non è un ritiro prodotto dalla consapevolezza di aver sbagliato, di non aver pensato all’impossibilità di una guerra in quei luoghi e quindi a un ritiro e a una resa, no, si abbandonano le creste per andare a combattere in altri posti; è questo che produce nei soldati la consapevolezza dell’assoluta mancanza di rispetto per il loro sacrificio, da parte dei vertici militari. Di fatto la guerra delle Dolomiti finisce prima delle altre guerre, nell’autunno del 1917; italiani e austriaci abbandonano i teatri di guerra, che poi rimarranno quasi inalterati fino ai giorni nostri. Oggi, con un po’ d’immaginazione, di rispetto e di profondità interiore, si può capire cosa sia avvenuto.

Per questa e altre ragioni credo che sia una guerra ancora molto attuale, soprattutto perché è ancora lì, visibile, toccabile con mano, e perché i diari sono di una tale profondità e precisione che è difficile non capire, e poi perché è l’ultima guerra in cui si doveva guardare in faccia il nemico prima di ucciderlo. In certe situazioni si doveva essere alpinisti prima che soldati; sopra i duemila metri erano gli scalatori a comandare, perché sapevano che cosa fare. C’è una sorta d’ammirazione per queste gesta assurde, anche se valorose, di persone che come Joseph Gaspard e Ugo di Vallepiana scalarono il camino della Tofana, oppure altri scalatori e sciatori che davano dimostrazione della loro competenza, non sicuramente bellica, ma finalizzata a sopravvivere e salire, imparata in tempo di pace. Io immagino che quando Joseph Gaspard percorre il camino della Tofana in diciassette giorni, sotto il tiro dei cecchini austriaci che lo feriscono lievemente solamente a un braccio, forse non lo volevano proprio uccidere. C’era una cavalleria di guerra legata all’ammirazione tecnica.

Lo sci era nato da poco, era uno sport giovanissimo, sapevano sciare soltanto i ricchi, i nobili, gli aristocratici, quelli che se lo potevano permettere come Ugo Ottolenghi di Vallepiana; gli altri avevano ricevuto una preparazione molto rapida e superficiale, per ragioni di guerra. Questi ragazzi, non certo grandi sciatori, partivano la mattina all’alba vestiti di bianco, sui ghiacciai concavi dell’Adamello, dove si scende da una cresta per andare a conquistare quella opposta, se mai è possibile. Nella prima fase ci sono questi fantasmi bianchi che, con una traccia di luna o qualche stella, scendono lungo un pendio immacolato, cercando soprattutto di non farsi male, perché la loro conoscenza dello sci è scarsa e l’attrezzatura è primitiva. Il nemico, dalla cresta opposta, all’inizio li vede scendere con difficoltà perché la notte copre tutto, poi i fantasmi cominciano ad apparire al sole, le mitragliatrici cominciano a sparare e il ghiacciaio si tinge di rosso. Si va al massacro proprio nel momento supremo di un gesto estetico, quasi futuristico. In questa guerra c’è anche questo, uno dei tanti paradossi che oggi colpiscono l’immaginazione e sollevano la nostra pietà.
Il fuoco e il gelo di Enrico Camanni
Oggi intendo parlarvi di quella che, volgarmente, si chiama “Guerra Bianca”. Sembra che sulla definizione gli storici non siano d’accordo, perché c’è chi sostiene che la Guerra Bianca sia soltanto la battaglia legata alla alte quote e ai ghiacciai, per esempio quella dell’Adamello, e quella del Cevedale, ma non ha importanza. Con questi termini intendiamo una guerra che si sviluppa lungo un fronte veramente assurdo, che ha la forma di una esse rovesciata, parte dal Passo dello Stelvio, attraversa il massiccio dell’Ortles-Cevedale, passa per l’Adamello, scende lungo le Giudicarie, attraversa la bassa del Garda e poi risale sugli altopiani del Pasubio, di Asiago, poi tutte le Dolomiti, le Alpi Carniche, le Giulie e scende praticamente fino a Trieste. Finalmente, sul Carso, il fronte riposa a quote più basse, ma certamente non più pacifiche.

Non sono uno storico militare, vorrei soprattutto proporvi delle immagini che mi hanno colpito. Non sono arrivato a questi argomenti attraverso la passione per la guerra, ma attraverso quella per la montagna. Ho scoperto cose incredibili, avvicinando i luoghi e i diari di chi è stato in guerra; di chi era protagonista. Con il tempo mi sono interrogato sul senso di allora, se c’è mai stato un senso, e su quello odierno, che vuole ricordare e anche riflettere su questa carneficina.

Oggi vorrei partire da alcune evidenti contraddizioni, per suggerire una lettura del conflitto alpino attraverso dei paradossi. Mi sembrano utili per comprendere la follia di tutte le guerre e in particolare di questa – la guerra delle Alpi – che si sviluppa in luoghi dove nessuno avrebbe mai pianificato una battaglia. Si tratta di cime, creste e pareti su cui oggi, dopo cento anni nei quali si è accumulata una grande esperienza, con sviluppo di materiali sofisticatissimi e previsioni meteo impeccabili, saliamo solo per ragioni alpinistiche. Sono ancora luoghi dove si va per rimanere qualche minuto e poi ridiscendere. Sono luoghi inospitali, disumani, perché l’uomo non è “progettato” per abitare a quattromila metri, in cima all’Ortles, d’inverno, soprattutto con le attrezzature del primo Novecento. Oggi saliamo su quelle cime, scattiamo una fotografia e scappiamo via. Inoltre affrontiamo l’ascensione con clima favorevole, quando le previsioni ci forniscono la garanzia del bel tempo. Questi posti, invece, sono stati abitati (per la prima volta nella storia dell’umanità) da eserciti di decine di migliaia di persone, formati perlopiù da ragazzi poco esperti di montagna, che provenivano da tutte le regioni d’Italia, anche dal Centro e dal Sud, da posti in cui le montagne come le Dolomiti nemmeno ci s’immaginava esistessero. È stato il primo tragico momento in cui si sono incontrati i ragazzi d’Italia, che parlavano dialetti talmente diversi che non si capivano neppure tra loro; spesso i ragazzi del Nord, che vivevano vicino al fronte austriaco, si comprendevano meglio con il nemico che con i loro commilitoni, provenienti da tutte le regioni di quell’oscura entità che allora era il nostro Paese.

Il primo paradosso è il concetto di frontiera. Tutte le guerre nascono per un problema di confini e quando l’Italia dichiara guerra all’Austria, nel maggio del 1915, la frontiera alpina passa sulle cime. Gli strateghi che hanno tracciato i confini dopo la nascita degli Stati nazionali e dopo il Trattato di Utrecht, quindi dal 1713 in poi, hanno fatto coincidere la linea di confine con quella dello spartiacque. Oggi a noi sembra naturale che dietro a una cresta ci sia un altro Stato, anche se cerchiamo di rendere permeabili questi confini, ma nei secoli precedenti questo non era assolutamente comune. Un tempo chi viveva in montagna aveva costumi, tradizioni, speranze e visioni, abbastanza simili. Un esempio è quello delle Dolomiti di Sella, attorno alle quali vive la minoranza ladina: Val di Fassa, Val Gardena, Val Badia e valle di Livinallongo. Queste popolazioni non sono divise dal gruppo del Sella, semmai ne sono unite, si capiscono tra loro, anche se in Val di Fassa normalmente parlano italiano e in Val Gardena parlano tedesco; però quando parlano in ladino si comprendono. La minoranza ladina è uno dei tanti esempi secolari che dimostrano la comunanza delle genti riunite sotto le cime. Non sono vere repubbliche, anche se si parla della Repubblica degli Escartons sotto al Monviso, sono dei modi di vivere regolati da usi civici e culturali comuni, uniti dalle montagne e non divisi. Geograficamente le montagne dividono le genti, questo è indubbio, però da un punto di vista antropologico e culturale, per molti secoli, esse hanno unito le popolazioni.

Un altro esempio ancora più evidente è la Savoia, ceduta ai francesi da Cavour nel 1860-61; prima il Monte Bianco sta al centro del Regno di Sardegna, non lo divide; così come il valico del Moncenisio. Il Regno, allora, era costruito attorno le montagne e la capitale passava da Torino a Chambéry.

L’idea dello spartiacque nasce dunque con la definizione dei confini dopo la fondazione degli Stati nazionali; è quindi un’idea relativamente recente e, soprattutto, molto astratta. È un’idea confacente alle esigenze militari, che non considera tante altre cose; per esempio non considera, come succederà nel 1915, che se gli italiani e gli austriaci si trovano a combattere e la linea del confine passa sulle creste delle montagne, può accadere qualcosa d’irreparabile.

Va detto che gli italiani pensano di risolvere presto la faccenda, essendo superiori per quantità di soldati. All’inizio, ignorando l’orografia del territorio, si pensa che queste creste siano difese molto debolmente da qualche tiratore scelto. Si crede erroneamente di superare le montagne in fretta, confidando che la guerra si combatterà poi in posti meno inospitali. Non succede affatto così, perché bastano pochi presidi forti, efficienti, nei posti chiave, spesso formati da fortezze naturali come il Castelletto della Tofana, dove sembra che il Creatore abbia realizzato volutamente delle roccaforti di calcare o granito, per fermare l’avanzata. Agli austriaci basta occupare questi avamposti prima dell’arrivo degli italiani e per tre lunghissimi anni nessuno si muove più da lì.

Nasce quindi una guerra a rovescio, in cui è quasi meglio perdere una postazione a tremila metri piuttosto che prenderla. Pensate cosa voglia dire difendere un presidio ad alta quota, con le attrezzature di allora, d’inverno, con trenta gradi sotto zero, con metri di neve, con gli immensi problemi derivati dalla situazione, specie per quanto riguarda l’approvvigionamento. È quasi meglio perdere la fortezza naturale, anche perché si perde soltanto qualche centinaio di metri, al massimo qualche chilometro, e il fronte rimane inalterato. Si tratta di una guerra che non si può né vincere né perdere; nessuno dei due contendenti può sconfiggere l’altro. Il conflitto diventa una guerra d’attesa e di resistenza, soprattutto; tutto il contrario di com’è dipinta dalla propaganda di allora, che propone dei ragazzi che salgono verso il cielo, sulla montagna purificatrice, sulle nevi candide. È tutto il contrario: è una guerra di fango e di freddo; in tutti i diari emerge il freddo, intollerabile, perché un inverno in montagna a tremila metri comincia a settembre e finisce a giugno e certe volte non si conclude mai. Non erano le stagioni miti alle quali noi oggi siamo abituati, sono stati due inverni terribili. Dopo l’estate del 1915, l’inverno è iniziato presto e si è subito rivelato il problema maggiore: il resistere a quelle quote in quelle situazioni.
Il primo paradosso di questa guerra giustifica il grande interesse nel leggere queste storie di resistenza esemplare, dove nessuno prevede, all’inizio, di poter sopravvivere in simili condizioni, per tre anni; ma quando si trovano davanti alla necessità, gli uomini e i ragazzi tirano fuori delle risorse eccezionali. Ogni mattina ognuno di loro vorrebbe fuggire, però non si può, è impossibile. Da un lato per il senso del dovere inculcato da generazioni di genitori e maestri, dall’altro per la paura della fucilazione immediata prevista per i disertori. Succede così che si rimanga a presidiare dei posti come la Cima Grande di Lavaredo, non l’altopiano sotto le cime, ma la cima vera e propria, sulla quale si trasporta perfino un riflettore per illuminare il campo di battaglia.

Sembrano episodi leggendari o cinematografici. Immaginate cosa significhi trasportare un riflettore o un cannone sulla Cima Grande di Lavaredo, un itinerario di terzo grado superiore, con dei passaggi difficili, tanto vuoto e con i mezzi di allora! Sembra l’impresa di Fitzcarraldo, che va oltre ogni possibile immaginazione. E di queste inutili imprese ne sono state compiute tante.

Prima della guerra il paesaggio era caratterizzato da una coltura e cultura contadine, che si fermavano ai campi e, al massimo, si spingevano sui pascoli fino a 2500 metri d’altitudine; nessun montanaro sentiva il bisogno di spingersi oltre la soglia delle rocce, degli strapiombi o dei ghiacci. Rocce e ghiacci, allora, erano frequentati soltanto da pochi ricchi, che potevano permettersi di scalare le montagne; l’alpinismo era nato da qualche tempo, ma soltanto un’élite aveva la possibilità economica e la passione per praticarlo, facendosi accompagnare dai montanari.

Il paesaggio alpino, quasi del tutto inesplorato, frequentato soltanto da poche avanguardie, diventa paesaggio completamente spianato, lavorato e anche distrutto dalla guerra; non soltanto dalle armi, ma dall’opera dell’uomo, che deve rapidamente costruire strade, piccole città di baracche, camminamenti, gallerie, teleferiche, impianti elettrici e quant’altro. Avviene una rapidissima trasformazione del paesaggio alpino, che prima era un paesaggio vuoto perché il “pieno” si fermava ai pascoli, e improvvisamente è riempito di uomini, armi e mezzi di ogni sorta. Si scalano le montagne e si scava al loro interno; si sale verso il cielo e si scende agli inferi, per nascondersi nella pancia delle montagna. Mai, nella storia dell’umanità, si è fatta una cosa del genere, e speriamo che non si ripeta più.
Osservando le trasformazioni brutali di questa guerra ho trovato alcune analogie con lo sci di massa, sviluppatosi soprattutto nel secondo dopoguerra. Ad ogni modo nemmeno lo sci, con le sue tecnologie avanzatissime e con la volontà di colonizzare nuovi territori, è riuscito a superare i danni ambientali prodotti dalla Grande Guerra.

Dunque ci si deve impegnare più a sopravvivere che a combattere. La frontiera diventa una trappola, perché è difficilissimo tirare avanti a queste quote. Si cerca di sopravvivere sui ghiacciai con soluzioni d’emergenza come la città di ghiaccio della Marmolada, una vera e propria città scavata dentro al ghiaccio, con i nomi delle vie e le linee telefoniche. Si vive, per due anni, dentro questa città, dove paradossalmente si sta meglio che fuori, perché la temperatura non va mai sotto gli zero gradi, mentre all’esterno si arriva anche a meno trenta, con venti a duecento chilometri all’ora. Inoltre, dentro la città di ghiaccio, non c’è il pericolo delle valanghe, che causano tante vittime all’esterno, in luoghi in cui oggi non ci sogneremmo d’andare con la neve abbondante, ma che allora bisognava presidiare e rifornire con ogni tempo, attraversando pendii pericolosissimi. In definitiva, è stato abitato l’inabitabile. Il paradosso è questo: un fronte che invece d’essere scavalcato e vinto, come proclama la retorica del tempo, diventa un luogo dove l’unica parola sincera e reale è “attesa”, speranza di un qualcosa che non arriva mai. Si guarda con trepidazione l’aereo che passa, sperando porti qualche novità; ma la novità non arriva mai. Si attende una lettera dalla famiglia o dalla pianura, che porti la buona notizia. La buona notizia però non giunge mai. Alla fine si spera soltanto di arrivare a domani e magari vedere un’altra estate, quando la montagna ritornerà verde e vivibile.

L’altro paradosso che ho rilevato in questa guerra è di natura estetica: questi ragazzi sono morti combattendo tra loro, nei posti più belli delle Alpi centro-orientali. Non si parla di luoghi dimenticati, di valli nascoste, ma delle “cartoline” delle nostre Alpi, di quei posti ammirati già allora dai pochi turisti, e oggi dai molti. Si va dallo Stelvio al Cevedale, all’Ortles al San Matteo al Cristallo, su quei ghiacciai che erano molto più belli allora di oggi, tutti spelacchiati e in palese ritiro. Pensiamo soltanto all’Adamello, al Pian di Neve, un piccolo pezzo d’Antartide dentro le Alpi. Le Giudicarie sono le montagne meno conosciute di questa guerra, però hanno dei valloni magnifici, come quello sul versante meridionale dell’Adamello, come quella grotta eccezionale, nella roccia del Corno di Cavento, recuperata recentemente (2008-2010). Risalendo troviamo gli altopiani, anch’essi luoghi incredibili. Consiglio a tutti di camminare sull’altipiano d’Asiago e salire l’Ortigara; si entra in un paesaggio inaspettato, un pezzo di luna a duemila metri, da cui si spazia a 360 gradi. L’Ortigara è un luogo di una bellezza straziante, così come il Pasubio.
E procedendo con il fronte incontriamo le Dolomiti più famose, non posti qualsiasi: le Tofane, il Monte Cristallo, le Tre Cime di Lavaredo, il Paterno, le Dolomiti di Sesto. Il monte Piana, ad esempio, è un meraviglioso belvedere in faccia alle Tre Cime, da una parte, e verso le valli del Sud Tirolo dall’altra, segnato completamente dai camminamenti. Qui si unisce la guerra verticale con quella orizzontale. Sono posti che hanno visto gli scontri più terribili, dove il rigore della montagna si somma alla crudele guerra di trincea. Lo stesso capita sull’altipiano di Asiago e sul Pasubio. Si percepisce un contrasto tremendo, tra la bellezza più assoluta e la crudeltà più insulsa, dove ci si uccide senza ottenere nessun risultato; è un aspetto che produce una grande impressione su di noi, oggi, che visitiamo quei posti.

Pensando a questi seicento chilometri di fronte viene in mente quel volto, nel film “Cinque giorni un’estate” di Fred Zinnemann, che emerge dal ghiacciaio cinquant’anni dopo. Il volto dell’uomo è ancora intatto, eternamente giovane. Noi, visitando questi luoghi di guerra, siamo immersi totalmente nell’ambiente di allora perché tutto è rimasto pressoché intatto come cent’anni fa. Le trincee, le baracche, i reticolati sono ancora lì, quasi preservati, nonostante siano trascorsi cento anni. Spesso c’è stato un lavoro di recupero, altre volte il gelo e il disgelo, il sole e le piogge hanno inciso in profondità, ad ogni modo il contrasto tra bellezza e crudeltà si può vivere in prima persona ancora oggi. E’ un’altra caratteristica straordinaria di questa guerra e, soprattutto, di questo fronte. Anche il Carso, indubbiamente, è visitabile, ma in montagna ci si stupisce di più, perché sembra di salire verso il paradiso e invece ci si ritrova in un inferno, o, perlomeno, ci si entra attraverso le letture delle memorie. Era il contrasto lancinante tra la voglia di scappare e quella di aiutarsi reciprocamente. Esistono casi documentati in cui, senza retorica, per sopravvivere all’inverno, nel rigore dei due o tremila metri, tra eserciti avversari, ci si scambiava il vino col tabacco, e sembrava più logico darsi una mano piuttosto che infierire, quando oramai si capiva che la guerra era persa nella sua concezione di base, e qualunque piccola vittoria non avrebbe contato nulla. Questo è il secondo paradosso: un contrasto persistente tra la bellezza assoluta e la crudeltà più assurda.

Il terzo paradosso, ritornando al presente, l’ho rilevato in queste forme d’attività turistica che, con una brutta definizione, potremmo definire “turismo di guerra”. In realtà è turismo a tutti gli effetti, numericamente significativo, che unisce la visita ai luoghi e alle montagne, a un’immersione nella storia. In questo percorso il turista è accompagnato con grande attenzione da una serie d’interventi museali, in genere leggeri, poco invadenti, sia sul terreno (cartelli e piccole indicazioni), sia nei piccoli musei che s’incontrano lungo quasi tutto lo sviluppo del fronte. L’evoluzione del “pellegrinaggio” bellico è durata un secolo: parte dai primi recuperanti, che cercano reperti per rivenderli come rottami ferrosi, e arriva a oggi, quando oramai nessuno svolge quest’attività per lucro, ma per memoria, in certi casi quasi per devozione. Da allora fino a oggi, la linea del fronte è stata mantenuta viva attraverso interventi museali, incontri di vario genere, testimonianze che si sono tramandate da una generazione all’altra. La memoria sopravvive soprattutto attraverso tanti segni di ricordo e devozione, comprese le croci che si trovano sparse, ognuna diversa dalle altre. Questo è un altro elemento che colpisce: il paradosso è che noi, però, ci arriviamo con una visione consumistica della montagna. Utilizziamo le stesse lingue di allora, prevalentemente nelle Dolomiti, dove si parlano l’italiano e il tedesco, e questo è un altro elemento che colpisce e fa riflettere.

Siamo in pace, parliamo le stesse lingue, andiamo negli stessi posti, ma abbiamo una cultura e una visione del mondo completamente diversi dai soldati del 15-18. Questo paradosso, se volete, è anche creativo, costruttivo; certe volte si è un po’ esagerato, negli interventi museali, penso al Piccolo Lagazuoi, anche se sono comunque riconoscente a chi ha lavorato a quel recupero. Sono luoghi all’aperto ma allestiti come dei veri e propri musei, dunque c’è il rischio che qualcuno ci vada così come si va sull’otto volante. Generalmente però ciò non succede, la gente sa dove
si trova e cerca di capire cos’è successo, cos’è stato quel periodo, ovviamente ciascuno con la propria conoscenza, esperienza e sensibilità interiore. Ad ogni modo si cammina in un cimitero, su un fronte martoriato; è difficile andare sulle Dolomiti, sull’Adamello o sull’altipiano d’Asiago senza accorgersi che lì c’è stata la guerra.
Oltretutto, il ritiro rapidissimo dei ghiacciai negli ultimi decenni è un catalizzatore di questa memoria, perché affiora di tutto: armi, strumenti musicali, diari, corpi umani, spesso impossibili da identificare dopo cento anni. Lo scioglimento dei ghiacciai restituisce davvero una memoria di carne viva, martoriata da questa guerra.

Vorrei aggiungere un elemento riguardo al turismo dei giorni nostri. Le Alpi oggi, dopo cento anni, dovrebbero essere il contrario di ciò che sono state allora, vale a dire una linea severa invalicabile di divisione, quasi una muraglia cinese, come ha affermato Paolo Rumiz; adesso “dovrebbero”, e metto le virgolette perché non ci siamo ancora arrivati, essere la cerniera e la spina dorsale di questa nuova Europa, di cui tanto parliamo, ma di cui forse non abbiamo ancora le idee tanto chiare. In certi casi però ciò esiste già; il fronte, in alcuni punti, dimostra che la cerniera esiste e i tempi sono cambiati. Potremmo considerarlo un viatico di quelle battaglie e di quelle sofferenze. Le Alpi, però, intese in senso più ampio, rimangono spesso una frontiera: pensate al bisticcio idiota che italiani e francesi inscenano sul confine del Monte Bianco, dove si litiga per quattro o quaranta metri di ghiaccio, perché dietro c’è l’interesse di una nuova funivia e la necessità di annettere un piccolo territorio che vale tanti soldi.

Ma non voglio scivolare in azzardi retorici sulla frontiera diventata cerniera, unione, Europa comune; purtroppo le Alpi rimangono un elemento di divisione. Questo fa riflettere, perché non sono bastati cento anni per rendere ridicola l’idea della frontiera alpina, forse dovremmo lavorare con più impegno per accelerare questo processo e ritornare, almeno, a quella consapevolezza che ho citato all’inizio, quando le Alpi erano un ambiente che legava le genti, oltre che dividerle geograficamente.

Ribadisco che la Guerra Bianca è stata una guerra nella guerra, più assurda dell’assurdo, perché è stata portata in posti dove nemmeno il generale più malato di mente avrebbe mai mandato i suoi uomini a combattere. La Guerra Bianca è un disvalore aggiunto nella follia della Grande Guerra, dove, per la prima volta, l’unità di misura per i morti e le armi ha sei zeri e non più tre, come in tutte le guerre precedenti. Ma c’è un momento in cui l’assurdità di questa guerra nella guerra emerge in modo chiaro e lancinante, vale a dire quando, dopo Caporetto, per ragioni strategiche, l’Italia richiama i soldati, alpini e non, che sono appostati sulle Dolomiti e li fa scendere a valle nel tempo di una notte, verso il Cadore, il Grappa e il Piave. È l’ultimo paradosso che mi ha colpito e vi voglio raccontare. Una pagina straziante.

Aprendo i diari nel punto in cui raccontano il momento dell’abbandono si scopre che tutti, anche chi ne era ancora un po’ convinto, per via del senso del dovere, per educazione familiare e religiosa, comprende che quell’azione non è assolutamente giustificabile, che non ha nessun senso. Nella notte, che è quella dei Santi, in una stagione autunnale molto diversa da quella odierna, quando il freddo ha già trasformato le Dolomiti in un paesaggio invernale, sul fronte dolomitico arriva un ordine che impone, dalla sera alla mattina, di evacuare il territorio. All’inizio nessuno capisce bene l’ordine, assolutamente insensato, che dopo due anni dice ai ragazzi di andar via. Lasciare di colpo quei posti che hanno visto morire i loro amici, quei posti su cui hanno dovuto trasportare pesantissimi cannoni, riflettori e costruire città di pietra, con sforzi immani. D’un tratto gli si ordina di lasciare tutto. All’inizio si pensa ad uno spostamento limitato a qualche metro, o a qualche chilometro, sperando che finalmente sia accaduto qualcosa, che la guerra si muova. Sì, è davvero successo qualcosa, ma si tratta della catastrofe; e dalla sera alla mattina inizia un esodo biblico. Tutto è lasciato in mano agli austriaci, si abbandona quel poco in cui ancora i ragazzi credono e sperano, quella parvenza di senso e possibilità che ancora è rimasta nella testa di quei soldati. Nel mio libro “Il fuoco e il gelo” descrivo l’abbandono del teatro di guerra in tre brani, ma ce ne sono tanti altri che rendono l’idea dell’assurdità assoluta e della disperazione totale. È una disperazione neanche paragonabile a quella della perdita di un amico, alla vita a trenta gradi sotto zero o a quando una valanga travolge trenta o quaranta commilitoni. È una disperazione cosmica! Tutti sentono di aver fatto tutto per niente, di aver ucciso ed essersi fatti uccidere per nulla. In quel momento, leggendo i diari, anche in quelli più motivati dilaga la disperazione.

Nell’assurdità raccapricciante della Grande Guerra mondiale, come nelle scatole cinesi, c’è anche questo non senso assoluto di chi ha combattuto sulle creste per due anni e poi le deve abbandonare in modo repentino e crudele. Non è un ritiro prodotto dalla consapevolezza di aver sbagliato, di non aver pensato all’impossibilità di una guerra in quei luoghi e quindi a un ritiro e a una resa, no, si abbandonano le creste per andare a combattere in altri posti; è questo che produce nei soldati la consapevolezza dell’assoluta mancanza di rispetto per il loro sacrificio, da parte dei vertici militari. Di fatto la guerra delle Dolomiti finisce prima delle altre guerre, nell’autunno del 1917; italiani e austriaci abbandonano i teatri di guerra, che poi rimarranno quasi inalterati fino ai giorni nostri. Oggi, con un po’ d’immaginazione, di rispetto e di profondità interiore, si può capire cosa sia avvenuto.

Per questa e altre ragioni credo che sia una guerra ancora molto attuale, soprattutto perché è ancora lì, visibile, toccabile con mano, e perché i diari sono di una tale profondità e precisione che è difficile non capire, e poi perché è l’ultima guerra in cui si doveva guardare in faccia il nemico prima di ucciderlo. In certe situazioni si doveva essere alpinisti prima che soldati; sopra i duemila metri erano gli scalatori a comandare, perché sapevano che cosa fare. C’è una sorta d’ammirazione per queste gesta assurde, anche se valorose, di persone che come Joseph Gaspard e Ugo di Vallepiana scalarono il camino della Tofana, oppure altri scalatori e sciatori che davano dimostrazione della loro competenza, non sicuramente bellica, ma finalizzata a sopravvivere e salire, imparata in tempo di pace. Io immagino che quando Joseph Gaspard percorre il camino della Tofana in diciassette giorni, sotto il tiro dei cecchini austriaci che lo feriscono lievemente solamente a un braccio, forse non lo volevano proprio uccidere. C’era una cavalleria di guerra legata all’ammirazione tecnica.

Lo sci era nato da poco, era uno sport giovanissimo, sapevano sciare soltanto i ricchi, i nobili, gli aristocratici, quelli che se lo potevano permettere come Ugo Ottolenghi di Vallepiana; gli altri avevano ricevuto una preparazione molto rapida e superficiale, per ragioni di guerra. Questi ragazzi, non certo grandi sciatori, partivano la mattina all’alba vestiti di bianco, sui ghiacciai concavi dell’Adamello, dove si scende da una cresta per andare a conquistare quella opposta, se mai è possibile. Nella prima fase ci sono questi fantasmi bianchi che, con una traccia di luna o qualche stella, scendono lungo un pendio immacolato, cercando soprattutto di non farsi male, perché la loro conoscenza dello sci è scarsa e l’attrezzatura è primitiva. Il nemico, dalla cresta opposta, all’inizio li vede scendere con difficoltà perché la notte copre tutto, poi i fantasmi cominciano ad apparire al sole, le mitragliatrici cominciano a sparare e il ghiacciaio si tinge di rosso. Si va al massacro proprio nel momento supremo di un gesto estetico, quasi futuristico. In questa guerra c’è anche questo, uno dei tanti paradossi che oggi colpiscono l’immaginazione e sollevano la nostra pietà.