Pubblicazione

Prefazione


Armando Biancardi scrive che tra alpinismo e guerra «si avvertono analogie che sorprendono. La morte vicinissima, lo spirito di corpo (la cosiddetta solidarietà alpina, così viva tra le penne nere), lo stesso abito da alpinista: non è un po’ come una divisa? Il mangiare e il bere, i cori, le notti sotto le stelle: non sono per alpinisti e militari dello stesso stile?».
Aggiungendoci la vecchia terminologia alpinistica (attaccare la parete, conquistare la cima, vincere la battaglia) e la tradizione maschia e maschilista della montagna, abbiamo un quadro di quanto la guerra e la retorica dell’eroismo abbiano condizionato il secolo breve. Mentre il mare suscitava onde di piacere e venti di trasgressione, l’Alpe si caricava fardelli di fatiche e sofferenze inutili, accreditando l’idea della montagna assassina e purificatrice.
Su questi ingredienti, per circa cinquant’anni, i registi, gli scrittori e i giornalisti hanno costruito la rappresentazione della montagna per il grande pubblico. Il romanzo di alpinismo più fortunato della storia, Premier de cordée di Roger Frison-Roche, racconta di una giovane guida colpita nel fisico e negli affetti (il padre è morto fulminato sull’Aiguille du Dru). Il giovane si riscatterà con la passione e la volontà. Il più riuscito lungometraggio di montagna, Cinque giorni un’estate di Fred Zinnemann, narra del drammatico triangolo tra una bella cittadina, lo zio alpinista e l’immancabile guida alpina: il sacrificio della guida redimerà la relazione incestuosa. Per decenni le popolarissime copertine della Domenica del Corriere fanno a gara nel dipingere crepacci antropofagi, valanghe killer e abissi omicidi.
Poi viene il Sessantotto, o meglio gli anni Settanta, e i venti di trasgressione sfilacciano anche il conformista cenacolo degli alpinisti. Sulle pareti di granito folgorate da lampi psichedelici i ragazzi del Nuovo Mattino rifiutano gli obblighi sacrificali della lotta con l’Alpe, il mito-espiazione delle cime ricoperte di croci e gli abiti grigi della festa. Provano a metterci dei vestiti colorati e delle facce sorridenti. Li declassano a “sassisti”, e a loro va bene così. Accenni di erotismo fanno timida comparsa in un microcosmo ancora schiacciato fra triviali uscite da caserma e ascetismi da sacrestia. Il messaggio nuovo comincia a passare quando Reinhold Messner, il migliore comunicatore della storia dell’alpinismo, confessa che in cima agli ottomila lui non fa sventolare nessuna bandiera: solo il foulard strappato dal vento. I nuovi alpinisti intravedono chimere dietro quel foulard, profili di donne e cime bellissime, quel mondo di promesse a lungo soffocate dagli inni e dalle bandiere.
Naturalmente è solo un’utopia, ma capace di cambiare la storia. Dopo quel tempo spettinato e malandrino nessuno può più vendere la scalata come una fede, perché scalare è solo un bel gioco, lo sanno tutti. La montagna è forse una cosa seria per chi ci nasce, ci vive e ci muore, non per chi ci passa per scelta le domeniche e i giorni liberi, e neanche per l’autore di questo libro che prima di essere guida alpina è un sognatore incallito come tutti gli alpinisti, e viene dalla scuola dei grandi dissacratori di Sondrio e della Val di Mello.
Vannuccini scrive senza prendersi sul serio, e lo fa seriamente, con convinzione. Dietro il suo understatement valtellinese c’è un ragionamento inattaccabile: la vita vera non è quella a quattromila metri, la vera vita è giù, quindi è assurdo caricare di angosce il tempo dei sogni, delle fughe, delle scalate e dei ritorni. Sarebbe esercizio stolto anche per una guida alpina, che è uno che lavora con i sogni, le fughe, le scalate e i ritorni.
Anche se poi l’ansia vince sempre, almeno per me e per l’autore del libro, quell’ansia e quel desiderio di ingaggiarsi, fare vetta e farla finita, quelle emozioni che rubano il sonno alle vigilie e regalano sale al dopo, quando si torna nel mondo orizzontale. Tra il prima e il dopo ci sono i giorni grandi, un po’ più grandi degli altri, o un po’ meno piccoli, quei giorni che reclamano un diario da ogni alpinista che si rispetti perché se non si bagna la piccozza nell’inchiostro la scalata è fatta a metà. Come un lavoro non finito.
Non c’è bisogno di essere alpinisti eccezionali, bisogna avere qualcosa da raccontare. Nei nostri anni sovraffollati e disincantati, importa molto di più il linguaggio dell’impresa. Contano l’umanità e la verità dei personaggi. Vannuccini scrive: «Se fossi un ispettore di polizia mi piacerebbe chiamarmi Coliandro; se fossi uno scout del Montana vorrei essere bravo come Ken Parker e probabilmente, come musicista, avrei aspirato ad entrare nei Commitments. Con il tempo mi sono reso conto che le cose divertenti, buffe o grottesche che mi sono capitate in trent’anni di alpinismo – venti da guida alpina – andavano ricordate e, perché no, raccontate. Ridere dell’andare in montagna e ridere andando in montagna rende la cosa senz’altro più divertente e psicologicamente meno usurante».
Quando mi sono inventato la figura di una guida per la mia trilogia di “gialli” alpinistici ho pensato a Nanni Settembrini, un uomo come tutti noi, pieno di casini e progetti irrealizzabili. Non certo un eroe, ma un personaggio credibile. Uno che, come la guida Vannuccini, avrebbe riso della “lotta con l’Alpe” senza malanimo per Guido Rey e per tutti quelli che credettero nella redenzione dell’alpinismo. Semplicemente un figlio di altri tempi, meno brillanti, forse, ma probabilmente più sinceri. Uno in cerca di una diversa umanità.