Pubblicazione

Alpinisti e montanari: dieci ritratti buzzatiani

Atti del congresso internazionale, Feltre 18 maggio 1995

Quando scriveva di alpinismo, l’alpinista Dino Buzzati di solito sceglieva uno stile distante dai toni lenti ed evocativi dei suoi due libri di montagna, il Barnabo e il Segreto del Bosco Vecchio. Buzzati infatti non era uno scrittore di alpinismo, ma un cronista, e sapeva raccontare le imprese e i protagonisti con il linguaggio svelto e palpitante del giornalista sportivo o del ritrattista di costume. Pensava e si esprimeva in due modi speculari – il monte da una parte, regno della metafora, l’azione dall’altra, territorio della cronaca -, ma poi la metafora rientrava nella cronaca attraverso i personaggi e le loro storie. Dietro le avventure, i successi e le tragedie troviamo sempre gli uomini – le guide e gli alpinisti – e dietro gli alpinisti ritroviamo Buzzati con le sue ansie e le sue visioni.
Nell’antologia “Le montagne di vetro”, che raccoglie quanto di meglio il giornalista bellunese ci ha lasciato sulla montagna, ho messo insieme nove ritratti e li ho completati con un decimo articolo, “I fuorilegge” del 1963, che proprio ritratto non è. L’autore racconta un incontro giovanile con due accademici del Club Alpino, due “senza guida” come si diceva un tempo, che per un discepolo timoroso e incantato come lui rappresentarono la sfida, la trasgressione, il mistero, il mito.
Scrive Buzzati:
[…] Quei due ragazzi dall’aspetto inoffensivo andavano dunque a tentare una scalata che allora mi sembrava addirittura un tabù.
Ecco lassù, a sinistra, sopra di noi, la nera fenditura che tagliava nel mezzo la parete verticale dalla base fino alla vetta, con sinuosità sinistre, i bordi qua e là strapiombanti, repulsiva per le tenebrose concavità che parevano perdersi nel cuore della rupe.
Il gesto di quei due ragazzi mi sembrò qualcosa di assurdo. Senza guida avventurarsi in un’arrampicata classica e dura, di cui, nei rifugi, alla sera, si discuteva con reverente rispetto. Una presuntuosa sfida come la rottura di una regola, il sovvertimento di una legge[…].
Di qui il titolo dell’articolo, “I fuorilegge”, da cui discendono alcune confessioni che si rivelano fondamentali per capire il rapporto di Buzzati con i personaggi dell’alpinismo:
«Il vero autentico alpinismo è il fidarsi delle sole proprie forze» scrive più sotto, per poi aggiungere:
«Ho arrampicato con gli accademici ma non sono stato uno di loro; ero un ospite; ero un peso morto».
«Gli accademici furono per me qualcosa di straordinario e irraggiungibile».
«Vivo e amaro è il rimpianto di non essere stato all’altezza dei miei sogni, di non avere avuto abbastanza coraggio».
Quel non essere all’altezza dei sogni è una chiave necessaria per interpretare l’atteggiamento di Buzzati di fronte ai protagonisti della montagna. Era un ottimo cronista, uno dei migliori, ma spesso non riusciva a separare il ruolo del reporter dai sentimenti dell’alpinista. Nel ciclismo sì, poteva giudicare con lo sguardo limpido dello spettatore, ma l’alpinismo gli apparteneva come una seconda pelle e il raffronto risultava implicito, inevitabile: da una parte loro, gli eletti della verticale, dall’altra lui, uomo di pianura e inadeguato imitatore.
Dietro tutto questo c’è certamente un limite, che è la mancanza di distacco, ma c’è anche un valore sostanziale: la competenza. Buzzati è stato uno dei pochissimi giornalisti italiani a intendersi di alpinismo e a scriverne correttamente. E poi c’è dell’altro. Il coinvolgimento personale, che a ogni riga rischiava di degenerare in eccessi narrativi assecondando le ridondanze di un’epoca che vedeva ancora eroi dappertutto, talvolta gli tornava in soccorso come uno straordinario filtro decodificatore e lo portava a scoprire il cuore dei protagonisti. Alla fine questa condivisione totale ha generato alcune tra le pagine più sofferte e più vere del giornalismo di montagna.

I figli della montagna
Buzzati sembra trattare alpinisti e guide alla stessa maniera, ma non è così. Degli alpinisti, anche se fuoriclasse, lui si sente qualcosa come un fratello minore, mentre le guide appartengono a un’altra razza di uomini, idealizzata, romantica, una costola della leggenda:
[…] questa purezza, che non è una favola – scrive presentando il libro di Fulvio Campiotti “Le guide raccontano”, nel 1954 -, rende le guide alpine diverse dagli altri montanari; e ne fa delle figure straordinariamente amabili anche se in apparenza ispide e scabre; e dà loro quasi sempre una delicatezza d’animo che neppure i gran signori…
La leggenda diventa poesia quando, alla fine dello stesso articolo, Buzzati si lascia trasportare dai ricordi personali:
[…] Tra i piaceri più acuti della vita ricordiamo proprio certe vigilie di ascensioni, dopo pranzo, quando si stava ad ascoltare i discorsi delle guide, così vivi, ingenui, emozionanti: mauvais pas, disgrazie bizzarre e misteriose, casi comici, salvataggi disperati, strapiombi, frane, presentimenti tragici, imprese da far tenere il fiato. E quel meraviglioso odore di pipa e di toscano, quelle grappe rupestri, quel caldo, quel delizioso senso di esaltazione, di stanchezza e di inconfessato orgasmo (perché di fuori, oltre gli ospitali muri del rifugio – il pensiero non ci lasciava un attimo -, di fuori incombevano, coi loro tetri camini a imbuto, con le guglie a forma di incappucciati monaci, coi canali di ghiaccio, verde e nero, le montagne, chiuse nel gelo, nel buio e nel silenzio).
In questa conclusione c’è tutta la differenza tra il montanaro e il cittadino, tra naturalezza e nevrosi, tra ingenuità e cultura. C’è come un salto antropologico, di cui Buzzati è nello stesso tempo protagonista, testimone e poeta.
Il ritratto di guida più riuscito è quello dedicato a Tita Piaz, il “Diavolo delle Dolomiti”. Sull'”Europeo” del 29 agosto 1948 Buzzati risolve in modo brillantissimo quello che avrebbe potuto risultare un accorato, onesto, informato ma semplice necrologio.
L’articolo, intitolato L’ultima giornata di Tita Piaz, ha il ritmo di un testo teatrale. I monologhi, i dialoghi, i cambiamenti di tempo, il continuo intercalare di domande e risposte, il crescendo cupo dei segni premonitori, i paradossi, i salti, le esclamazioni, tutto l’impianto scenico sostiene la rappresentazione di un personaggio passionale e provocatorio, trascinando inevitabilmente il lettore verso il tragico epilogo:
[…] Alla malga trova la bicicletta. Giù adesso per la strada. Non c’è nessuno. Pomeriggio pieno, l’aria gli fischia nelle orecchie con piacevole sussurro. Non un’anima viva. Possibile che con una simile giornata non ci sia gente in giro?
Ancora un sibilo come quelli di prima. No, deve essersi sbagliato. A una curva, tra i rami, intravede la Torre. Si è fatta piccola per la distanza ma risplende. «Eh, son vecchio!» dice ad alta voce soddisfatto.
«Pavarin! Pavarin!». Una voce sottile, quasi ansiosa, l’ha chiamato. Ancora: «Pavarin!». Viene dal bosco. Egli volge il capo, scruta in mezzo ai tronchi.
Ma la ruota davanti urta di schianto contro un pietrone franato dalla ripa. Un volo. Attento a come cadi, Pavarin.
Pace. Qualcosa gli è calato davanti a gli occhi[…].
Alla fine Buzzati vede riflessi negli occhi morenti di Piaz i segni delle montagne, le Dolomiti, in un dialogo muto dove la natura fa da specchio agli ultimi interrogativi dell’uomo: «[…] le creste smantellate, gli spigoli ricurvi con profili inquietanti di teste e nasi e bocche quasi umani. Le riconosce ad una ad una le sue creature. E perché così d’un tratto sono venute?». E ancora una volta ci si domanda: è Piaz o Buzzati quel giovane-vecchio che muore ai piedi delle Torri del Vajolet?
Meno felice risulta la commemorazione di Angelo Dibona, scritta per la “Domenica del Corriere” il 13 maggio 1956. Con Dibona scompariva l’altra grande guida dell’epoca d’oro dell’alpinismo dolomitico, ma probabilmente Buzzati lo conosceva o lo comprendeva meno di Piaz, e non ne era ispirato. Nel ricordo si sofferma sulla stucchevole competizione per la parete nord della Cima Una e infine scivola sui dettagli patetici:
[…] Nel 1945, finita la guerra, è ancora in servizio. Sicuro e forte come sempre. Ma i clienti scarseggiano. Un giorno si decide alla dolorosa rinuncia. Con le lacrime agli occhi dà l’addio alle sue montagne. Non salirà più per le crode che ha dominato per mezzo secolo. E’ la miseria. L’uomo che fu la gloria di Cortina si piega ai lavori più umili. Valente sciatore è ridotto, d’inverno, a colmare le buche che altri sciatori, cadendo, hanno fatto sulle piste di discesa. Rende piccoli servizi, aiuta in casa (ma cosa non sanno fare le guide?)[…].

Gli artisti della città
C’è una dicotomia assolutamente tipica dei ritratti alpinistici buzzatiani: è la contrapposizione tra lo slancio verticale dei grandi interpreti della montagna e la loro difficoltà di vivere al piano, nel consorzio umano. Buzzati non si è inchinato all’ipocrita idealizzazione degli agiografi ufficiali, che vorrebbe sempre puri e belli i cavalieri delle vette, ma ha voluto smascherare la contraddizione con parole oneste e vere fino alla durezza e alla compassione.
In alcuni ritratti di alpinisti cittadini, Buzzati raggiunge la massima identificazione personale. Si può rileggere, per esempio, Un meschino agguato distrusse l’arte prodigiosa di Emilio Comici (“Corriere della Sera”, 5 luglio 1957), che è un ricordo postumo dell’alpinista triestino scritto proprio all’uscita di un libro agiografico di Severino Casara. Casara era uno scrittore prolifico e retorico, a cui Dino voleva bene al punto da prenderne le difese, nel 1948, dopo una squallida querelle alpinistica («uno scandalo tra persone serie e ben educate come conviene agli ambienti di montagna» aveva ironizzato nell’occasione); ma nel 1970 gli rimprovererà uno sguardo un po’ troppo indulgente su Paul Preuss: «Un primissimo della classe dunque, incensurabile, ammirevole, ma nel complesso affliggente per l’eccesso di virtù?».
Nel 1957 ignora diplomaticamente le iperboli di Casara e affronta di prima mano il carattere fragile e complesso di Emilio Comici, l’artista dell’arrampicata. «Era un animo sensibilissimo, suonava bene il pianoforte» annota Buzzati, e intanto introduce alcuni elementi chiave per comprendere l’uomo:
[…] ci pare di udire ancora la sua curiosa voce in falsetto, di percepire l’alone di misteriosa e romantica mestizia che lo accompagnava sempre. Non era spensierato. Evidentemente, in certi giorni pure Comici avrà riso, avrà scherzato, avrà cantato. Anche ad Amleto capitava. Ma il suo vero ritratto è precisamente il contrario. Perché – saremo stati magari sfortunati – ma Comici, ridere spensieratamente, non l’abbiamo udito mai. Anche in questo era così lontano dal consueto cliché del montanaro[…].
Infatti Emilio Comici non era un montanaro e intraprese il mestiere della guida per poter vivere tra le montagne. Pagò amaramente anche questa scelta, stretto fra i rancori e le gelosie delle guide ampezzane, e comunque restò sempre un cittadino con i suoi ideali, le sue malinconie e le sue nevrosi. Per questo piaceva a Buzzati, che si identificava soprattutto negli uomini più disperatamente incompiuti: gli eroi condannati a un «acerbo rimpianto», come scrive ancora a proposito di Comici.
Per Andrea Oggioni, il titolo del “Corriere” del 18 luglio 1961 parla dichiaratamente di patetico dramma. Buzzati non si sofferma sulle dinamiche della famosa tragedia del Pilone Centrale del Monte Bianco, in cui morirono quattro tra i più quotati alpinisti europei del momento e Walter Bonatti si salvò miracolosamente insieme a Mazeaud e a Gallieni, ma entra nel vivo del personaggio Oggioni:
[…] La forza fisica era l’unico capitale toccatogli in sorte. Ma è sintomatico come Oggioni lo investisse fino in fondo in una delle attività più pericolose e meno remunerative che esistano al mondo: l’alpinismo. Non è questo, in un ragazzo del popolo, il segno di una rara nobiltà di gusto e d’animo? Nell’alpinismo egli cercò la grande evasione della vita. Tutti i giovani, che non nascono favoriti dalla fortuna, cercano una fuga; chi nelle avventure amorose, chi nello sport, chi nelle baldorie, chi nei soldi, i peggiori nella malavita, i migliori nell’arte e nello studio. Oggioni la trovò sulle selvagge e terribili rupi, tanto più grandi di lui[…].
Buzzati conclude: «Oggioni ha avuto la morte degli eroi. Ma una morte in stile con lui, in certo senso umile e oscura, una morte da milite ignoto».

Il mistero di Zapparoli
Il rischio, il mistero, la paura e la morte sono gli elementi fondanti il lessico alpinistico buzzatiano. Certo va considerato il vizio diffuso dei giornali italiani, che prevedono soltanto tragedie di montagna in prima pagina, ma indubbiamente le situazioni estreme si confacevano a Buzzati, lo stimolavano, gli schiudevano orizzonti illimitati oltre gli stretti confini della notizia. Così all’onesto ma mediocre ricordo di Attilio Tissi (Il primo italiano che vinse il complesso del sesto grado), pubblicato sul “Corriere d’Informazione” del 24 e 25 agosto 1959, si contrappone lo straordinario ritratto di Ettore Zapparoli sul “Corriere della Sera” di otto anni prima. Evidentemente la figura di Tissi era troppo dimensionata, troppo povera di pathos, e nell’articolo spuntano termini fastidiosi e ridondanti come «modernissimo super-sesto», «cannonissimi», «assi», «arditissime», «intrepidezza» che tolgono umanità al personaggio. Nel ricordo di Zapparoli ogni parola è invece al posto giusto, come le note di una musica struggente.
Il necrologio si apre con una concessione alla retorica:
Benché io non sia mai stato là, lo vedo uscire dal rifugio Marinelli alla luce della luna e allontanarsi attraverso le rocce e poi sulla fosforescente neve, tric tric si ode il suono ritmico della sua piccozza sulle pietre, tric tric sempre più lontano e poi silenzio, soltanto la sua sottile sagoma scura tra i ghiacciai, dritta, viva, fin troppo romantica, con l’eleganza rigorosa di chi parte per l’eternità[…].
L’approccio gli serve per introdurre la figura dell’alpinista mantovano, «fin troppo romantica», e per affiancarvi una descrizione altrettanto romantica della montagna che lo ha tenuto con sé:
E benché io non ci sia stato, vedo pure la grande parete est del Monte Rosa, suo regno, non bella nel solito senso del vocabolo, bensì congegnata in un disordine selvaggio, scena sconvolta di sfatte rupi, tragiche macerie di ghiacci scaraventate giù, canali fradici che si intersecano tra massi pencolanti, disgregazione delle cose, dove egli tuttavia scorgeva le architetture della sua poesia[…].
E così spunta l’uomo Zapparoli, il solitario artista di cinquant’anni che vive ancora come un ragazzo: «Ma giovanotto fino a quando?» si domanda Buzzati per lui. Come musicista e come scrittore ha incontrato una fila di delusioni e quando il suo balletto Enrosadira è stato finalmente annunciato alla Scala, tra i grandi, è arrivata la guerra a cancellare ogni speranza.
Eppure[…] dissimulava la tristezza con un pudore straordinario. Lo consideravano l'”artista”, il fuori regola, il bohémien, un Peter Pan adulto, un personaggio ottocentesco nato col ritardo di un secolo. Di qui una impossibilità di innestarsi nella cosiddetta vita[…].
Ed eccolo infine al punto morto, alla resa dei conti, in una retrospettiva esistenziale tipicamente buzzatiana:
[…] Cinquant’anni sono tanti. E viene il giorno in cui all’improvviso si misura la strada che rimane: ieri sembrava senza fine; ahimé come si è fatta corta, e stretta, e malagevole, e intorno non più foreste e ninfe ma cespugli secchi e all’orizzonte il polverone della steppa[…].
A Zapparoli restava dunque solo la montagna, che «molto più degli uomini era stata buona con lui». Ma era una fuga, nient’altro che l’ennesima illusione. In fin dei conti quell’uomo era un fallito, come ha osservato Gian Piero Motti in un’accorata confessione autocritica sui limiti della passione, e Buzzati ha denunciato il suo fallimento. Alla fine lo ha accompagnato con animo dolente nell’ultima ascensione e gli ha dedicato le frasi più disperate e più vere che siano mai state scritte per un alpinista:
[…] Sebbene a dirlo sembri infame, io mi domando se la grande parete non sia stata buona veramente. «Zapparoli, Zapparoli!» noi gridiamo, facendo portavoce delle mani, ai ghiacciai che non rispondono: «Zapparoli, perché non torni?». Ma in fondo, non siamo degli ipocriti? Che avremmo da offrirgli, se tornasse? Così invece egli è rimasto intatto, preservato nella sua sagoma di arcangelo, tratto via in una specie di trionfo, mentre il vento, le pietre, le nevi, le acque, i ghiacci suonano le sinfonie ch’egli avrebbe voluto scrivere. E io lo vedo ancora là, che manovra con la picca, tremendamente sprovveduto e solo, piccolissimo, un bambino nella immensità misteriosa del santuario.