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Sport e montagna


Cheneil, o il Cervino romantico
C’è un posto, in alta Valtournenche, che è incredibilmente sopravvissuto a ogni speculazione turistica, edilizia, culturale. È un balcone naturale affacciato sul Cervino. Poche case, l’alberghetto della famiglia Bich (la vicina pensione Carrel è purtroppo chiusa da anni), un gran pascolo dominato dal Grand Tournalin e il ricordo di infinite estati, con il sole che nasce dalla Val d’Ayas e va a tramontare dalle parti di Cignana, dietro la cresta della Valpelline. Cheneil ha fatto innamorare molti amanti della montagna: la scrittrice Lalla Romano ne ha tratto ispirazione per il bellissimo racconto “La villeggiante”, l’alpinista Edward Whymper fece costruire un rifugio di pietre per ammirare il panorama dalla cima del Tournalin. Cheneil è un posto che se ci vai una volta ci devi ritornare, come un anticipo di paradiso.
Oggi si sale facilmente da Valtournenche e Chanlève, lungo la strada asfaltata, fino al parcheggio dove devi lasciare l’automobile. Poi bastano pochi tornanti di mulattiera (una volta era proprio il mulo a rifornire la borgata) e un quarto d’ora di cammino perché ti si apra un mondo, una visione. Vacci pure in luglio, quando Cheneil è un giardino fino alla soglia dei tremila metri, e poi tornaci in autunno, con i larici che diventano oro, e poi ancora d’inverno, quando la neve trattiene il silenzio e i ricordi. Avrai sempre il Cervino davanti agli occhi, testimone affettuoso e muto.

Non è Canada, ma assomiglia
Uno dei punti forti della montagna valdostana è la diversità. In certi posti può sembrarti di essere in Himalaya, ma più in là scopri un pezzo di Dolomiti, e poi magari trovi un mare d’erba irlandese. È la roccia a fare la differenza, anche quando l’occhio non se ne accorge. Per esempio nell’alta valle di Champdepraz, nel Parco naturale del Monte Avic, c’è una zona di laghi disseminati tra rocce ferrose e conifere, con un gran colpo d’occhio verso il Cervino e il Monte Rosa. Un pezzo di Canada a duemila metri e oltre, in quella meravigliosa porzione di Alpi che unisce Champdepraz, appunto, alla Valle di Champorcher e alla Val Clavalité. Sono stati i ghiacciai a plasmare questo regno di rocce scure e montonate, che contrastano in durezza la dolcezza dei laghi e delle radure, restituendo un paesaggio nordico e severo, ma attraente e magnetico.
Il centro di tutto è il rifugio Barbustel, 2132 m, nei pressi del Lago Bianco, raggiungibile in un paio d’ore di sentiero dalla Valle di Champorcher (devi posteggiare l’auto sopra il capoluogo, poco dopo la frazione Mont Blanc, sulla strada per Dondena), valicando il dosso tra le due valli. Dopo una salita tra i prati, ci si affaccia su Champdepraz e si traversa dolcemente nella zona dei laghi. Se ti resta fiato, dal rifugio Barbustel puoi spingerti fino al Gran Lago, più impressionante e profondo del Lago Bianco.

Un santuario, una parete, un mondo
Immagina un ghiacciaio dello spessore di seicento metri, che, dalle falde del Monte Bianco, scenda come un fiume a scavare il solco della Valle d’Aosta, lisciando e raschiando le pareti laterali fino a denudarle come le vediamo oggi. È quanto è successo al promontorio roccioso di Bard, stoicamente sopravvissuto alla pressione del ghiaccio (molto prima che gli uomini ci costruissero un castello), e anche alla parete chiara della Corma di Machaby, che si alza come una prua sul versante sinistro orografico della valle (a destra per chi sale), tra le case e i vigneti di Bard e Arnad.
Il santuario di Machaby, dedicato alla Madonna delle Nevi e seminascosto sul lato in ombra della Corma, risale a un primo nucleo di origini cinquecentesche; è un’oasi di grazia e armonia in mezzo al bosco di castagni. Ci si sale da Arnad, prima in auto lungo la stradina asfaltata, poi a piedi (15-20 minuti) su una bella mulattiera, dove i ciotoli patinati e arrotondati denunciano i pellegrinaggi rituali, le processioni, le escursioni nei secoli. Poco più in alto, sul colle, un ottimo ristoro offre prodotti della cucina locale, soprattutto lardo e castagne.
La mulattiera del santuario diventa itinerario di discesa per gli arrampicatori che scalano la parete di Machaby, per una delle tante vie attrezzate sulla roccia compattissima e avara di appigli, con la valle che si spalanca sotto i piedi. Dapprima l’autostrada e i tir distraggono chi si appresta all’ascensione, poi diventano un ronzio, infine solo un nastro in mezzo alla valle. Sulla cima non resta che la montagna.

La capanna sul ghiacciaio
Il più bel rifugio del Monte Rosa è oggi un po’ surclassato dagli edifici d’alta quota; se intendi affrontare le cime del gruppo ti conviene passare oltre, ma se cerchi il fascino dell’escursione puoi senz’altro farne la tua meta alpinistica, anzi ciclo-escursionistica, perché vere difficoltà non si incontrano e l’unico ostacolo può essere la lunghezza (3-4 ore).
Lo storico rifugio dedicato al pioniere dello sci alpinismo Ottorino Mezzalama, si trova a tremila metri di quota in alta Val d’Ayas, ai piedi del Polluce e delle Rocce Nere, proprio al limite tra l’erba e i ghiacciai. Il panorama è incantevole sia verso valle che verso monte; girando la testa si spazia dai pascoli di Verra ai seracchi del Castore. Il Mezzalama è ancora una capanna d’altri tempi, con il legno e il suo profumo.
Il percorso si divide in due parti, la prima su strada sterrata e la seconda su sentiero. Se possiedi una mountain bike, puoi risalire la carrozzabile (chiusa al traffico automobilistico) che dal paese di Saint-Jacques, ultimo abitato della Val d’Ayas, raggiunge i fantastici Piani di Verra inferiore e superiore. Finita la strada e abbandonata la bici, il sentiero risale il versante della morena e poi la percorre fino alla cima, dove si trova il rifugio. Un asse di equilibrio con i piedi a terra e la testa nel cielo del Monte Rosa.

La città sepolta
Questo itinerario ti porta in un posto che non c’è: il luogo dell’utopia. La leggenda di J.-J. Christillin racconta che «una sera d’autunno, al cader della notte, un povero vecchio con un bastone in mano arrivò alla città di Félik e chiese da mangiare. Lo misero spietatamente alla porta, dopo averlo preso in giro e maltrattato. Il mendicante se ne andò ripetendo queste parole: “Stasera nevicherà, domani nevicherà, dopodomani nevicherà e la città maledetta non si salverà più!”.
Gli abitanti, nella loro colpevole noncuranza, passarono la notte nei piaceri. Intanto continuava a nevicare senza smettere e l’indomani nessuno poté uscire di casa. Nei giorni seguenti, la neve continuò ostinatamente a cadere seppellendo per sempre la città maledetta sotto il suo lenzuolo, formando così il ghiacciaio del Félik…».
Così i montanari walser della Valle del Lys spiegarono, a modo loro, l’avanzata glaciale del 1600, e così rimpiansero la precedente “città perduta”, dove si viveva in pace e armonia con se stessi e la montagna. Una sorta di paradiso originale, che coincise con l’eta d’oro della civiltà walser e oggi si può solo immaginare sopra le morene di Stafal, in un posto così bello da non essere vero, o così vero da sembrare un sogno.