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Un puntino scende sul ghiacciaio. L’uomo cade, si rialza, ricade, continua a scendere. Sale la musica, cresce la tensione. Ma non erano in due? Dunque è successo qualcosa, chi sarà il sopravvissuto? Betsy Brantley corre incontro al puntino incespicando sulla neve. Riprese spezzate, sguardi ansanti della telecamera, poi la macchina si ferma e improvvisamente appare lui, Sean Connery, salvo e disperato: la montagna si è portata via la sua giovane guida antagonista in amore, ma anche le illusioni di una relazione impossibile con la piccola Betsy. Funerale, pioggia, dissolvenza, fine dell’incanto.
Sono le ultime scene di “Cinque giorni un’estate”, il film girato in Engadina nel 1982 dal grande Fred Zinnemann, che resta la più riuscita e veritiera trasposizione cinematografica dell’alpinismo sul grande schermo. Non è una storia vera, ma poco importa: potrebbe esserlo. Gli ambienti sono giusti, i personaggi sono credibili, la ricostruzione storica non fa una piega. Guardando il film di Zinnemann si fa un passo indietro di ottant’anni e ci si proietta nel tempo di quell’alpinismo pionieristico e romantico in cui l’ascensione di una cima era faccenda di sudore, coraggio e fortuna. Una volta lasciato il rifugio, ultimo simbolo della civiltà, le cordate degli scalatori agivano in totale solitudine sulla montagna.
Torniamo alla storia di Zinnemann. Poco prima dell’epilogo, quando è ormai chiaro che è successa una disgrazia, i soccorritori escono dalla capanna d’alta quota con una rustica barella sulle spalle, dirigendosi a lunghe falcate sul ghiacciaio. Tutto qui?, si chiede lo spettatore contemporaneo. E a quel punto, in quel preciso momento, capisce che è finita. Niente verricelli e angeli del cielo per imbastire una manovra di recupero, nessun trucco tecnologico per sconfiggere il destino. Solo una patetica lettiga simile a quelle dei portantini della Grande Guerra, quando la pietà spingeva le donne e gli uomini della Croce Rossa sui campi di battaglia e quasi sempre, alla fine, i feriti guarivano o morivano da soli, davanti a un Dio muto e impotente.
In montagna era lo stesso: al tempo dei pionieri, nel Ventennio tra le due guerre e anche nei primi decenni del secondo dopoguerra. Prima dell’avvento dei cellulari e degli elicotteri, gli alpinisti erano nudi e disarmati; partendo per l’ascensione sapevano di essere soli sulla montagna, senza angeli custodi, e accettavano fatalisticamente le incognite dell’avventura.
D’altra parte gli incidenti in montagna risalgono all’antica frequentazione delle Alpi. I cani sanbernardo utilizzati dai monaci dell’ospizio del Gran San Bernardo sono forse i primi soccorritori della storia. Alla fine del Settecento il ruolo dei cani e quello dei marrons, antenati delle guide alpine, si delinea chiaramente nel saggio di Chrétien de Loges sul Mont Saint-Bernard: «Dovere fondamentale del massier è spostare in modo adatto i marrons, che in inverno, tutti i giorni, precedono i passanti fino a una lega di distanza dal monastero, e di occuparsi della muta dei cani, che scavano nella neve e aiutano i pellegrini a ritrovare la strada quando è stata smarrita. Si devono mandare domestici e religiosi, quanti ne servono, per estrarre dalle valanghe chi è stato travolto, e si devono accompagnare al monastero coloro che sono stati sorpresi dal freddo sulla montagna, e i morti che si trovano lungo la strada». Nell’Ottocento l’esplorazione delle Alpi è al culmine, ma non esiste ancora alcuna entità organizzata in materia di soccorso. In caso di disgrazia, il ruolo dei soccorritori spesso consiste semplicemente nel richiedere l’aiuto della popolazione locale, che si accontenta di riportare a valle i corpi degli alpinisti caduti ai piedi delle pareti… Nel generale quadro di sconforto si fa notare l’iniziativa del britannico Clinton Thomas Dent (prima ascensione del Dru nel 1878), che opera come un pioniere proponendo alla comunità alpinistica un segnale universale di richiesta di aiuto. La prima associazione di soccorso compare nel 1897 con i Soccorritori volontari del Salève, la montagna di Ginevra, poi anche gli altri Paesi alpini creano i loro organismi, tutti a partecipazione volontaria. In Italia il Soccorso alpino nasce su iniziativa del medico trentino Scipio Stenico, che ne guida i primi passi nel 1954, lo stesso anno della scalata del K2. Il Soccorso fa un apparente salto di qualità dopo la Seconda guerra mondiale, con l’avvento dell’aviazione: gli svizzeri Hitz e Hug realizzano il primo salvataggio aereo nel 1946, seguiti da altri piloti negli anni Cinquanta. Lo svizzero Geiger e il francese Giraud si specializzano nelle operazioni ad alta quota, con spettacolari atterraggi con i pattini sui ghiacciai. Presto l’aereo è sostituito dall’elicottero, più leggero e maneggevole, e nel frattempo migliorano le attrezzature in parete (argani, barelle, imbragature), soprattutto grazie all’iniziativa dei tedeschi Gramminger e Schubert, dello scozzese MacInnes e degli italiani Bertone, Garda e Zappelli, guide alpine del Monte Bianco. I professionisti si affiancano ai volontari e prendono il comando delle operazioni.
Eppure, nonostante i grandi progressi dell’industria aeronautica e delle tecniche alpinistiche, unitamente a una conoscenza delle Alpi ormai capillare e raffinata, fino agli anni Sessanta del Novecento chiunque si trovi ferito o disperso in alta montagna resta perlopiù naufrago in balia di se stesso, della fortuna e dell’abnegazione un po’ cieca e visionaria dei soccorritori. Basti citare, tra tutti, il famoso episodio del Pilone Centrale del Monte Bianco, che segna una sorta di spartiacque tra l’epoca pionieristica e quella “moderna”, anche se l’alpinismo è già molto avanti nella sua evoluzione.
Nell’estate del 1961 ha luogo una delle più spaventose tragedie della storia della montagna. Sette alpinisti di fama internazionale, italiani e francesi, tentano di scalare il severo Pilone del Frêney restando imprigionati dalla tempesta a poca distanza dalla cima, ma non abbastanza in alto da poterla raggiungere. La montagna si richiude su di loro come una trappola e sono costretti a scendere circa duemila metri di rocce e ghiacci in condizioni estreme, praticamente invernali. Solo tre di loro si salvano (Bonatti, Mazeaud e Gallieni), mentre quattro giovani perdono la vita (Oggioni, Vieille, Guillaume e Kohlmann). Un’ecatombe. Le numerose guide corse in aiuto dalla capanna Gamba (oggi rifugio Monzino) possono solo assistere i sopravvissuti e recuperare le salme. E alla fine gli stessi elicotteri sollevatisi durante una schiarita del maltempo servono unicamente a portare a valle le vittime.
Ma come?, si chiede oggi il commentatore. Eppure era il tempo dei telegiornali, con i cronisti che informavano incessantemente gli spettatori circa le speranze dei dispersi, e la gente partecipava da casa, in diretta, agli sviluppi dei soccorsi. La Seconda guerra mondiale era finita da sedici anni, ormai, e la guerra era stata vinta e persa con gli aeroplani e le bombe chimiche e nucleari; la Resistenza era approdata sui libri di storia, come l’ultima guerriglia dell’Europa novecentesca; gli elicotteri si preparavano già a volare come tanti uccelli di sventura sulle giungle infuocate del Vietnam e gli astronauti americani erano pronti – di li a otto anni – a mettere il piede sulla luna. Eppure l’alta montagna rimaneva sovrana: terreno dell’avventura e dell’incognita. Un’isola di mistero nel cuore della modernità.
Fino agli anni Sessanta del Novecento le operazioni di soccorso hanno il carattere delle avventure dei tempi andati, imprese dai contorni epici e dagli esiti indeterminati, tentativi di salvataggio più affidati alla buona stella che all’organizzazione, alla generosità che alla tecnica, all’intuito che alla pianificazione. Le testimonianze raccolte da Cesare Ottin Pecchio in Piemonte e Valle d’Aosta ci parlano di un mondo relativamente vicino nel tempo ma lontanissimo nella sostanza, di quando l’alpinismo era fatto a mano e tutti andavano piano: gli scalatori, le notizie, i soccorritori, la speranza. Solo la morte correva, e proprio nella contrapposizione tra la lentezza dei mezzi e la rapidità degli eventi sta la forza drammaturgica dei racconti contenuti in questo libro, che se non fossero storie vere le diremmo uscite dalla penna di un librettista tragico.
Straordinariamente l’autore ha estratto dal mazzo alcune storie a lieto fine. Ha voluto stupirci con l’impossibile, che di solito esiste solo nelle favole. Contro ogni logica, ogni pessimismo, ogni cedimento della provvidenza, gli uomini intervistati al caldo delle loro case a distanza di molti anni dagli avvenimenti che li videro protagonisti, dopo che il tempo ha saputo levigare le emozioni e ordinare i ricordi, gli parlano, e lui parla a noi, di gente speciale che non ha voluto arrendersi. Uomini di montagna – dalla guida al guardiaparco, dal pastore all’alpinista dilettante – che hanno confidato in se stessi e negli altri. Gente che ha creduto e per quello è stata premiata.
A monte di tutto c’è la domanda fondamentale, posta in premessa dall’autore:
«In quei particolari momenti in cui una sola ora di indugio o di incertezza può risultare fatale, non esiste l’uomo prudente e temerario: esiste soltanto la creatura umana che deve essere salvata. Ma hanno veramente l’obbligo, le guide alpine e le squadre di soccorso in genere, di accorrere in aiuto di un alpinista in pericolo? E qual è il limite di rischio dinnanzi al quale sono autorizzate a fermarsi? A rigore, nessuno può essere costretto ad esporsi per trarre dai guai chi in questi guai è andato a cacciarsi di propria iniziativa. Ma, d’altra parte, non esiste guida o alpinista degno di tale nome che non consideri un preciso dovere quello di non lasciare nulla di intentato per recare aiuto a chi ne ha estremo bisogno. Una volta dato l’allarme, i soccorritori partono sempre, o quasi sempre».
La prima storia li vede impegnati sulla cresta sud dell’Aiguille Noire de Puetérey, che oggi è una grande classica del Monte Bianco, sempre lunga e di difficile interpretazione, ma nel 1936 era una vera avventura. Oggi un alpinista infortunato sugli ultimi salti della cresta può essere rapidamente recuperato con l’elicottero e il verricello, dopo una semplice telefonata (gli alpinisti sanno che sulla Noire “c’è campo”, come si dice, e proprio per questo alcuni si avventurano in scarpe da ginnastica sulla guglia del Peutérey, tanto, pensano, «se capita qualcosa c’è sempre il telefonino»). Ma nel 1936 i soccorsi partivano a piedi dal fondovalle, e sono mille metri per il rifugio e poi quasi millecinquecento per la cima. E prima di partire i soccorritori dovevano essere allertati, vale a dire che qualcuno doveva assistere in qualche modo all’incidente, correre a valle e stanare le guide disponibili. Un terno al lotto, insomma, ammesso che il tempo tenesse e la notte non fosse fatale per l’infortunato.
La seconda storia è più tragica, anche se l’alpinista in difficoltà viene infine salvato. Si tratta di un grande arrampicatore piemontese, Giuseppe Gagliardone, ma più grande e famoso di lui è il caduto che i soccorritori possono solo vegliare sul ghiacciaio e pietosamente ricomporre: Giusto Gervasutti, detto “il Fortissimo”.
Friulano di nascita, Gervasutti iniziò ad arrampicare sul calcare delle Alpi orientali per poi trasferirsi a Torino a ventidue anni, nel 1931. Quella stessa estate si avvicinò al Monte Bianco senza particolari timori reverenziali, nonostante le pessime condizioni della montagna, e con Emilio Lupotto salì il Petit Dru, l’Aiguille Verte e il Grépon prima di tornare alle amate Dolomiti spinto dal «desiderio di arrampicare su salde rocce a picco – confessa nell’autobiografia Scalate nelle Alpi –, sotto un sole che asciugasse il ricordo delle fredde tempeste dei quattromila».
Giusto Gervaustti incarnò due alpinismi, a immagine del granito e del calcare. Mentre scopriva le grandi pareti occidentali di terreno misto, dove si soffre e si dà corpo al desiderio di lotta, provava nostalgia per le assolate rocce dolomitiche. Certamente trovò fama e realizzazione sulla roccia delle Alpi occidentali, dove sapeva superare difficoltà e dislivelli come nessun altro del suo tempo, in ambienti severi e paurosi. Tutti gli alpinisti conoscono e temono le vie di Gervasutti nei massicci del Delfinato e del Monte Bianco: pareti nord-ovest del Pic d’Olan e dell’Ailefroide, pilastro del Pic Gugliermina, pilone di destra del Frêney, parete est delle Grandes Jorasses. Insieme alla Nord delle stesse Jorasses, di cui Gervasutti dovette accontentarsi della seconda ascensione nel 1935, la lista contiene i maggiori problemi risolti tra le due guerre.
Nel 1946, alla soglia dei quarant’anni gli mancava una via, la più diretta e logica al Mont Blanc du Tacul, quella stilettata di protogino rosso che gli escursionisti e gli sciatori scorgono attraversando la Vallée Blanche. Gervasutti salì metà pilastro senza troppa convinzione, quasi volesse rimandare il sogno, poi decise di scendere in corda doppia. Come spesso accade ai più forti, gli fu fatale la distrazione.
La terza storia si svolge sulla Punta Pergameni, nel gruppo dei Becchi della Tribolazione, sul versante piemontese del Gran Paradiso. Lo spigolo della Pergameni oggi è abbastanza ignorato dagli alpinisti per la lunghezza dell’avvicinamento: il vallone di Noaschetta assomiglia quasi a un recesso himalayano, con i sentieri dei pastori che vanno scomparendo tra le pietre e il piccolo bivacco Ivrea sperduto a quattro o cinque ore dalla carrozzabile, ricordo di tempi andati. E proprio in altri tempi, precisamente nel 1952, un giovane resta bloccato sullo spigolo di gneiss, con un principio di commozione cerebrale. Non siamo né sul Cervino né sul Monte Bianco, manca un’équipe di soccorritori specializzati, e soprattutto non c’è tempo da perdere. Così partono i guardiaparco del Gran Paradiso, che conoscono la montagna come le loro tasche, chiamano gli stambecchi per nome ma non s’intendono di corde, chiodi e arrampicate. Ne risulta un soccorso ancora più epico e generoso degli altri, più che mai baciato dalla fortuna, quasi una licenza della montagna verso i due alpinisti improvvidi.
Nella seconda parte del libro Ottin Pecchio ritorna nel massiccio del Monte Bianco, sulla verticale Aiguille de la Brenva e poi sulla gelida parete sovrastante, quella che porta sul tetto delle Alpi. Walter Bonatti e Silvano Gheser la affrontano nei giorni di Natale del 1956, incappando in una spaventosa bufera. L’epopea dei due italiani unita alla tragica fine dei francesi Vincendon e Henry, incontrati e persi nel corso dell’avventura, fa della scalata invernale e dei relativi soccorsi un caso mediatico sui due versanti delle Alpi, con allucinanti quanto inutili tentativi di salvataggio aereo da parte delle organizzazioni francesi. Infine la tempra e l’esperienza di Bonatti evitano il peggio, almeno dalla parte di Courmayeur.
Più prosaicamente, in un altro capitolo, le guide del Cervino portano in salvo un gruppo di alpinisti dilettanti imprigionati di notte sulla cresta del Leone, come spesso accade sui lunghi e complicati itinerari delle Alpi occidentali improvvisamente flagellati dal maltempo. In questi frangenti, per ritrovare la via di discesa e riaprire agli infortunati la porta del rifugio, si rivela indispensabile l’intervento di chi è di casa sulla montagna.
Le stesse guide del Breuil e di Valtournenche operano fatalisticamente in un altro racconto, questa volta di fantasia, ambientato in pieno inverno sulle incombenti pareti delle Grandes Murailles. Qui l’autore prova a scavare nella psicologia dei soccorritori, che infine appaiono al lettore come uomini incerti e fallibili, né santi né eroi, solo persone che lavorano su un crinale prossimo all’emergenza. Uomini normali per situazioni speciali.
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