Pubblicazione

Prefazione


C’era un tempo, quando Edmondo de Amicis scriveva della «Torino regolare e simmetrica, che spalanca verso le Alpi la gran bocca di Piazza dello Statuto, come per aspirare a grandi ondate l’aria sana e vivificante delle montagne», e i protagonisti ormai ingrigiti delle battaglie risorgimentali si convertivano all’alpinismo, sostituendo il moschetto con la piccozza, e i primi movimenti sociali di ispirazione laica e socialista guardavano alle Alpi come a una scuola di lealtà e altruismo, c’era appunto un tempo in cui città e montagna erano volti complementari della “piemontesità”. All’epoca si andava in treno a poi a piedi, utilizzando tuttalpiù le polverose carrette che risalivano le mulattiere, e ci volevano dei giorni per raggiungere le alte valli, ma nessuno si spaventava delle distanze. Andare in montagna coincideva con l’essere torinesi, o biellesi, o saluzzesi, come se i fondali di neve che abbellivano le vie delle città, così astratti e incantati nell’aria lucida dell’inverno, dovessero essere calpestati dagli scarponi dei cittadini per farsi carne e sudore, e paesaggio dell’anima. Al tempo in cui le montagne erano lontane si andava sempre, con il bello e il cattivo tempo, senza neanche domandarsi perché. Città e montagna erano le due facce della stessa regione, i due fiati dello stesso respiro.
Paradossalmente lo scambio si è attenuato o interrotto, proprio quando le montagne sono diventate vicine e i sofisticati mezzi di comunicazione del Novecento (automobili, ferrovie veloci, tunnel, superstrade) hanno portato le Alpi in città. Paradossalmente la città si è trovata prigioniera di se stessa e della sua monocultura industriale, come scriveva Primo Levi a Mario Rigoni Stern:
«Se vivessi con te sull’altipiano non avrei problemi, mi metterei gli sci da fondo e via. Ma qui è diverso; malgrado la crisi, ci sono auto dappertutto, ferme o in moto, e solo per uscire dalla città ci vuole un’ora di lotta e di pazienza».
Proprio quell’automobile che avrebbe dovuto unire monti, valli e città era diventata motivo di ostacolo, prima ancora culturale che fisico, tra Torino, Biella, Saluzzo e le Alpi onnipresenti al fondo di ogni viale e di ogni prospettiva. Era cambiato il mondo.
Una vicenda esemplare è quella delle valli di Lanzo, dove a inizio Novecento la borghesia cittadina faceva a gara per procurarsi la casa di villeggiatura e oggi invece si respira un’atmosfera da tempi andati, ed è come se il vecchio mondo aspettasse suggerimenti dal mondo nuovo. Invano. Proprio dalla Val d’Ala di Lanzo e da un luogo reale e metaforico allo stesso tempo, il Cresto, si dipana la testimonianza autobiografica di Ida Brunati Bassignano, che appartiene a una di quelle generazioni del Novecento, e a una di quelle famiglie borghesi, che hanno avuto la ventura di traghettare la visione ottocentesca della villeggiatura verso la modernità, per poi vedersela svaporare tra le mani.
Non che il presente possa fare a meno di masche, leggende, filastrocche e lune, al contrario, ma quell’immaginario che dava un senso alle vacanze di Ida e della sua famiglia era direttamente correlato, anche se da una certa distanza, con la civilta rurale e pastorale della montagna, in un continuo scambio tra i valori di su e la cultura di giù. Era quello scambio, quel confronto, anche quella disponibilità a rendere eccezionale l’esperienza della montagna e della villeggiatura, in un’altalena tra due mondi che, magari senza capirsi fino in fondo, si annusavano e si rispettavano.
I racconti dell’autrice si allargano poi alla sua seconda residenza, Saluzzo, e alle valli del Monviso, dove forse più che altrove la tradizione resiste in forme oscure alla globalizzazione, e nonna Ida può ancora contare sull’attenzione dei nipoti. «Ma fino a quando potrò presumere di fare la mia parte per educarli con racconti fantasiosi e apparentemente inconcludenti?… Eppure tutti e quattro i miei nipotini giocano bene insieme quando, dopo aver ascoltato un racconto, lo trasformano in impresa ardita e pericolosa. Vengono così superate le ansie relative al loro e al mio futuro».
Ognuno di noi ha bisogno di racconti e di miti per dare un senso alla vita. Il problema di quei bambini, e di tutti i figli nati nella modernità, sarà ricordare i racconti dei vecchi e, se possibile, inventarne di nuovi.