Pubblicazione

Prefazione


Ci sono molte buone ragioni per le quali l’alpinismo dovrebbe interessare la psicologia, anche se i collegamenti tra le due discipline non sono frequenti e spesso mancano di coraggio.
Provo a elencare le ragioni. Innanzi tutto l’alpinismo è un’attività spontanea, «gratuita», tanto che quando è stato strumentalizzato o mercificato, da ideologie politiche o da convenienze economiche, ha sempre dato il peggio di sé. Ancora oggi, dopo oltre duecento anni di storia, gli alpinisti restano persone di matrice romantico-anarchico-sportiva, poco propense a impegnarsi nella vita sociale e ancora meno disposte a farsi applicare regole o etichette. Dunque in qualche modo, senza scivolare in una facile e abusata retorica, gli alpinisti sono individui liberi, che scelgono una vita rischiosa.
Il rischio è la seconda variabile determinante, anche se l’arrampicata sportiva ha dimostrato che si può benissimo scalare senza pericolo. Ma quello non è alpinismo. In una società dove incognite e rischi sono ridotti al minimo, l’alpinismo – pur molto cambiato con le previsioni meteorologiche, la tecnologia, gli elicotteri e i telefoni cellulari – resta un’attività dagli elevati contenuti di imponderabilità, e tali contenuti aumentano tanto più ci si allontana dalle regioni note e dagli itinerari battuti.
Qui interviene la terza componente fondamentale, che è quella della ricerca. Evidentemente si può fare alpinismo tutta la vita affidandosi a internet e alle raccolte di scalate classiche, ma molti alpinisti conservano e coltivano il desiderio della scoperta, sul terreno e dentro di sé. Geograficamente si può dire che l’alpinismo sia un’esplorazione in verticale, una delle ultime esplorazioni geografiche possibili, ma poi esiste un altro tipo di esplorazione – quella introspettiva – di cui gli alpinisti non hanno mai taciuto l’importanza, certe volte con analisi di comodo, altre volte con rimozioni mascherate, altre volte ancora con descrizioni coraggiose e sincere.
Poi c’è il legame della cordata, sporadicamente indagato (anche come metafora aziendale) e spesso idealizzato, che «obbliga» gli alpinisti a unirsi e collaborare, nella buona e nella cattiva sorte. Si tratta di una metafora della vita di relazione, particolarmente significativa nei tempi ormai lontani in cui le guide valligiane collaboravano con gli intellettuali di città per cercare nuove vie sulle montagne, ma notevole ancora oggi in virtù del fatto che di solito esiste un primo e un secondo di cordata, con relativi ruoli, tensioni, vantaggi, svantaggi, sottomissioni, ribellioni, codici di comportamento.
Infine c’è il fatto che nessuna attività umana è forse mai stata così raccontata dai protagonisti, in ogni epoca storica e in ogni ambiente culturale: è come se la scalata avesse bisogno di essere «colata» nell’inchiostro per diventare vera. Dunque lo psicologo dispone di una letteratura quasi sterminata sull’alpinismo, seppure ingombra di simulazioni, cadute agiografiche, falsità, esagerazioni, omissioni, rimozioni, aggiustamenti di comodo. Ma il materiale è immenso e non resta che scavare, scegliere, scartare, insomma lavorarci sopra.
È la linea seguita con organicità e competenza da Giuseppe Saglio e Cinzia Zola, psicoterapeuti di formazione adleriana, che a una lunga parte teorica aggiungono, e in qualche modo sovrappongono, una scelta di interviste ad alpinisti «a tempo pieno», cioè a persone che hanno messo la montagna al primo posto nei valori della vita. In tal senso, anche se nella fattispecie si tratta perlopiù di professionisti, non c’è una gran differenza tra chi pratica l’alpinismo per mestiere e chi lo fa per diletto. Da un punto di vista psicologico si può trovare la stessa «dedizione» e lo stesso coinvolgimento incondizionato sia tra chi vive di alpinismo sia tra i cosiddetti «alpinisti della domenica».
E qui sta l’ultima magia: la pratica alpinistica è una passione (dipendenza?) a tutto tondo, che mal si presta a mediazioni e mezze misure. Lo sanno bene le mogli dei «malati di montagna» (o i mariti, quando l’alpinista è donna), che si devono accontentare di residui di tempo e di sentimento, e che inevitabilmente, a volte per tutta la vita, devono accettare la concorrenza di una musa irresistibile ed esclusiva, una specie di diabolica amante che non invecchia mai.
Credo che l’alpinismo sia la rappresentazione di un amore adolescenziale mai consumato fino in fondo, proiezione infantile di sogni, speranze, capricci, egoismi, illusioni. Per questo gli alpinisti non sono affatto persone facili, e nemmeno uomini e donne maturi. Sono al contrario «eroi» eternamente incompiuti, fanciulli mai diventati grandi, instancabili collezionisti di attimi ed emozioni che mal si compendiano con le feriali incombenze della vita quotidiana.
In tutta la mia lunga e appassionata frequentazione della storia e della società alpinistica ho incontrato soltanto due personaggi che siano riusciti a consumare veramente con la stessa intensità la passione alpinistica e l’impegno civile. Sono il grande dolomitista Renzo Videsott, diventato direttore del Parco nazionale del Gran Paradiso negli anni drammatici del secondo dopoguerra, e il sindacalista Guido Rossa, ucciso dalle Brigate Rosse nel vile atttentato del 24 gennaio 1979.
La loro «conversione» al mondo del piano li rende unici, e per contrasto, come in un gioco di specchi, rende assolutamente eccezionale anche la pratica alpinistica.