Pubblicazione

Prefazione

Se alla maggior parte degli alpinisti questo libro risultasse incomprensibile non ci sarebbe niente da spiegare. Una cosa incomprensibile non si può spiegare. Ma siccome la maggior parte degli alpinisti, al solito, commenterà che «sono tutte balle» e che «questi filosofi si cuociono il cervello invece di scalare», allora qualcosa da spiegare c’è – per esempio il rifiuto di spiegare – e lo scrivo con il dubbio di uno che non ha ancora capito che cosa sia l’alpinismo, perché come sostiene Andrea Bocchiola il sogno spiega più della pratica.
Questo è uno dei concetti che rende interessante la pratica verticale della montagna. Infatti nessun altro sport anteporrebbe il sogno alla pratica, o agli allenamenti, o al traguardo, e infatti ormai da più di duecento anni certi alpinisti non vogliono sentir parlare di sport. Giustamente l’autore non si lascia affascinare dalle categorie etiche o retoriche – lo sport, l’arte, l’estetica del gesto, il misticismo dell’altezza –, perché se ne parla appunto da duecento anni con risultati perlopiù stucchevoli o inutili. Con l’aiuto della pscicoanalisi lacaniana e di altri strumenti teorici, Bocchiola tenta di andare in fondo al come e al perché, dando per scontato (e come negarlo?) che l’alpinismo sia una pratica rischiosa, irragionevole e per molti versi assurda, e che proprio nell’assurdo, nella pervicace riaffermazione della sua assurdità, si annidi il senso dello svegliarsi prima dell’alba, del camminare notturno sotto una ghigliottina di seracchi, del patire il sonno, la fatica e il gelo per raggiungere uno scopo inutile e, soprattutto, il senso del ripetere ossessivamente l’esperienza per una vita intera senza venirne mai fuori completamente. Senza più riuscire a liberarsene. Una volta ho scritto che l’alpinista è perdutamente innamorato di un oggetto inanimato, la montagna, e che il cuore resta imprigionato nella passione originaria, esclusiva, come un amore dell’adolescenza mai del tutto consumato, un dolce rimpianto che fa male fino alla fine.
Questo è un secondo punto, perché è facile obiettare che l’amore non si spiega, che è cieco per sua natura, ma se non tentiamo di dare un senso all’amore ci sfugge la parte più importante della nostra vita e viviamo una vita senza senso. Lo stesso vale per gli alpinisti, che orientano l’attrazione fisica e psichica verso un oggetto particolarmente estremo e simbolico, assolutamente privo di significato dal punto di vista materiale ma gravido di senso, carico di vita e anche di morte. Infatti ogni volta che in letteratura un grande alpinista ha provato a liquidare una sua impresa con il divertimento e il gioco si è contraddetto dopo cinque righe, costretto ad ammettere che c’era di più. E di più drammatico. E l’unica volta, negli anni settanta del Novecento, che qualcuno ha tentato d’inventare e sperimentare il gioco dell’anti alpinismo, o del Nuovo Mattino come si dice adesso, gli innovatori erano già pronti a sentirsi chiamare “non alpinisti”, o sassisti, o freeclimber, più avanti negli anni ottanta, perché sapevano di avere tolto un pezzo e non erano sicuri di volercelo riattaccare.
Che la componente psichica dell’alpinismo sia fondamentale lo dice l’esperienza. La montagna non cambia eppure certi giorni ci pare tutto facile, altri difficilissimo, altri impossibile. Cambiano i nostri sguardi, la visione interiore, l’atteggiamento psichico. Bocchiola, in una delle descrizioni più efficaci del libro, scrive che «per procedere il corpo deve procedere fuori di sé, secondando uno spasmo che lo proietta nel campo più interno del suo esserci, nella carne, là fuori, nel mondo». È evidente che in questo senso l’esperienza alpinistica si allontana dalla pratica esibita e condivisa. La rappresentazione teatrale e l’esibizione spettacolare esulano dall’alpinismo non per scelta etica ma per senso intrinseco. Nemmeno il vecchio concetto di conquista regge. Neanche il bisogno di ispezionare il mondo per mapparne la superficie ed esplorarne gli strapiombi. «Il coraggioso capitano delle Alpi non ricorda piuttosto lo sparuto Ulisse dantesco che con “picciol discorso”, aizzando gli amici ormai incanutiti ad un nuovo viaggio, non altro mostra che lo sguardo del folle (e naufrago), di colui che non è destinato ad alcun approdo e che non conoscerà mai più porti? L’esperienza in alpinismo è l’impossibilità di esperienza o, in altri termini, l’esperienza come insistenza folle».
Quasi tutti gli alpinisti pensano che la scalata più bella sia quella che non hanno mai fatto, o che faranno il prossimo finesettimana. E così non smettono di viaggiare.