Il 27 settembre 2019 partecipo a una specie di rito funebre alle sorgenti del Lys. Fino all’altro ieri dei ghiacciai sembrava non importare a nessuno, ma in due giorni sono capitate delle cose, e sono successe così a tempo da focalizzare l’attenzione della collettività. Mentre Greta Thunberg, all’Onu, strigliava i potenti del mondo – «È tutto sbagliato. Io non dovrei essere qui. Dovrei essere a scuola dall’altra parte dell’oceano, eppure venite tutti da me per avere una speranza. Come osate! Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia…» – il ghiacciaio di Planpencieux incombeva sulla Val Ferret minacciando alcune case. Niente di nuovo, succede da decenni, ma i giornali e le televisioni hanno fatto «Greta più ghiacciaio uguale audience» e hanno mandato i cameramen e i cronisti a raccontare il crollo del mostro. «È questione di giorni, il tempo stringe, il collasso incombe, restate sintonizzati!» Da poche ore l’Italia è un paese di climatologi allarmati e politici lungimiranti: prendendo la parola al Consiglio dell’Onu, anche il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte cita il ghiacciaio del Monte Bianco per sottolineare l’emergenza climatica.
In cima alla valle del Lys godiamo di luce riflessa, per così dire. Ci troviamo sul lato negletto del dilemma, perché storicamente il Monte Rosa non ha mai beneficiato della fama patinata del Monte Bianco, e oggi meno che mai, ma dalla Val Ferret a Staffal c’è solo un’ora e mezza di automobile e il Bianco e il Rosa non sono mai stati così accomunati dal destino. Alle sorgenti del Lys c’è un bel sole, l’aria è quasi ferma e fa un caldo decisamente innaturale per la fine di settembre. In due ore siamo saliti in cento sulla morena, fermandoci su un terrazzo a sbalzo. Sotto c’è il vuoto lasciato dal ghiacciaio, sopra volano due gipeti in amore, davanti si alza la montagna. Guardo il Rosa e penso al nome roisa, che vuol dire ghiacciaio anche se la gente pensa che sia per il colore della neve nell’ora del tramonto. Ogni tanto uno sbuffo o un piccolo crollo ricordano la solennità del luogo.
Il Lys è il paziente più osservato delle Alpi fin da quando l’eroico Umberto Monterin, negli anni Venti del Novecento, cominciò a misurarne gli sbalzi d’umore e i regressi della fronte. Monterin era il precursore che già lavorava sulla relazione tra le variazioni glaciali e climatiche. Se il vecchio Umberto fosse qui ci spiegherebbe sbigottito quello che è successo in pochi decenni – che per un uomo sono tanto tempo, mentre per un ghiacciaio dovrebbe corrispondere a un periodo breve –, ma a noi basta ascoltare Davide Camisasca, un uomo gentile, guida alpina e fotografo di Gressoney, per capire che la situazione è precipitata con gli anni Novanta del secolo scorso. Quando io e Davide cominciavamo a scalare le montagne qui in basso arrivava la lingua gelata; adesso ci sono due laghi verdi che bevono e sputano acqua sporca. Per trovare il ghiaccio bisogna salire sotto lo sperone di roccia del Naso del Lyskamm, dove convergono le due seraccate senza toccarsi neanche più. Il paesaggio è irriconoscibile, ci sono vuoti dappertutto. Incolmabili.
Negli ultimi quarant’anni Camisasca, che è nato a Milano ma dal 1971 vive e lavora a Gressoney-Saint-Jean, fissa con gli obiettivi delle sue tante macchine fotografiche i tagli di ghiaccio e roccia degli alti monti valdostani, con una predilezione per il Rosa, la montagna di casa. Davide ha esposto a Milano, Ginevra, Londra, Parigi, Torino, Trento e Aosta, ha pubblicato numerosi libri e viaggiato verso terre lontane, in particolare sotto il monte Kailash, la montagna sacra tibetana, e nel Mustang, il regno di Lo. Ogni volta ritorna al Monte Rosa, perché in fondo è il luogo che gli assomiglia di più. Come lui il Rosa non si mette in mostra e va scoperto un po’ alla volta, con pazienza e profondità, sobbarcandosi grandi dislivelli e anche qualche fallimento per via della quota, del maltempo e di altre insidie, ma quando lo conosci te ne innamori, e allora nascono parole sussurrate, immagini da svelare, linee da disegnare. Come nelle fotografie di Camisasca, che hanno bisogno di essere “lette”, decifrate e interiorizzate per una piena comprensione del risultato. Nel corso del tempo, sotto gli occhi, i pensieri e la mano dell’autore, si sono progressivamente spurgate degli elementi ridondanti e superflui, tendendo alla purezza del tratto e delle sfumature come quadri metafisici ma assolutamente riconoscibili, rappresentazioni totali del sentimento e dello spaesamento dell’alta quota, icone di un universo che non dominiamo e non ci appartiene, dove gli alpinisti transitano qualche ora e si fermano pochi minuti prima di tornare nel mondo degli uomini.
Anche il naturalista Horace-Bénédict de Saussure fu preso dalla tentazione di raffigurare il monte quando nel 1789, l’anno della Rivoluzione, viaggiò intorno al massiccio: «Da molto tempo il Monte Rosa era oggetto della mia curiosità. Questa alta montagna domina il confine meridionale della catena delle Alpi così come il Monte Bianco ne domina il confine settentrionale. Il Monte Rosa si vede da tutte le pianure del Piemonte e della Lombardia, da Torino, da Pavia, da Milano e perfino da molto più lontano. Ho già detto come la sua altezza e la sua massa appaiano imponenti dalla chiesa di Superga sopra Torino, ma ancor più mi colpirono dall’alto della torre di Vercelli. Sebbene fossi un pessimo disegnatore, cedetti alla tentazione di tracciarne uno schizzo da portare con me».
A insistere nel confronto con il Monte Bianco – sarà la posizione geografica, saranno i colori, sarà la vicenda geologica – sembra che il granito del Bianco catturi l’immagine della scalata per rifletterla all’esterno e invece la roccia del Rosa la tenga in sé, incorporandola con le emozioni e i sentimenti. Là c’è una storia pubblica e qui una storia privata, là un alpinismo spettacolare e qui una scalata fatta a mano. Vale per gli alpinisti famosi che sul Monte Rosa passano in punta di piedi, senza fare rumore, e vale soprattutto per gli alpinisti del Rosa, guide e dilettanti, generalmente montanari di nascita o per vocazione come Camisasca, che a quei ghiacci e a quelle pareti dedicano una vita di amori e sudori non ricompensati dalla fama, ma da un ritorno d’affetto. Sul Rosa s’estendono così tanti ghiacci e ghiacciai che potremmo considerarlo il nostro piccolo polo, e anche in questo senso è un avamposto “fuori moda” perché la materia di fondo sta scomparendo stagione dopo stagione, modificando la fisionomia delle creste e delle pareti, accorciando il corso dei torrenti gelati, piallando le cascate di seracchi e sostituendo alla neve il detrito. Per cogliere la mano del riscaldamento climatico basterebbe datare le fotografie di Camisasca: le sue opere d’autore sono ormai anche documenti di un paesaggio mutato.
Il Rosa e il Bianco prevalgono nella scelta fotografica, ma alcuni tra gli scatti più notevoli riguardano cime vicine come il Cervino in veste boreale sotto il cielo notturno del Gorner e la Granta Parei affondata nel deserto bianco dell’alta valle di Rhêmes, ai confini del parco del Gran Paradiso, altro luogo caro all’autore. Il ghiaccio e la neve, dunque il bianco contenente i segni e i tratti dell’alta montagna, sono gli ingredienti insostituibili delle inquadrature, accesi dal gioco delle luci e amplificati dalla scelta radicale del bianco e nero. Natura morta, direbbero gli adoratori delle colline e dei paesaggi coltivati; natura parlante, obietterebbe un cuore romantico. «Sottrazione e astrazione, silenzio e vuoto, atmosfere rarefatte, luce ovattata e bianco totale, figure che paiono emergere dal nulla, sono alcuni degli elementi che caratterizzano le fotografie dell’autore di Gressoney», osserva Daria Jorioz. «Elementi enfatizzati da una sapiente post-produzione che è lavoro di cesello e ricerca della stampa perfetta. Nelle opere recenti di Camisasca la montagna si trasforma da luogo fisico a dimensione interiore, tela la cui trama rarefatta invita lo spettatore a seguire percorsi emotivi e mentali». Nelle nitide, pulitissime, a volte estreme interpretazioni grafiche e fotografiche, la gelida materia glaciale prende forma e calore attraverso pennellate di luce solare e lunare, proprio come farebbe il tecnico di un set cinematografico illuminando la scena con le lampade e i fari per dare vita alla rappresentazione. La neve e il ghiaccio sono il candido schermo su cui i tagli di luce e ombra e i profili delle rocce disegnano la meraviglia delle inquadrature, anche se ogni tanto la materia si riprende la scena e diventa essa stessa protagonista emergendo con fantastiche forme di cornici sospese, nodi di seracchi, fratture e arabeschi di gelo.
Il ghiaccio è uno straordinario soggetto, ma catturarne l’essenza è fatica incerta e fuggevole sia per chi vuole scalarlo che per chi intende fotografarlo. La magia e il mistero del ghiaccio e dei ghiacciai si alimentano nell’inscindibile binomio tra incanto e caducità, meraviglia e transitorietà. L’acqua congelata genera solidi dalle infinite forme che crescono, si modificano, si uniscono, si separano e infine fondono e scompaiono sotto gli effetti del calore. Mentre la roccia sembra fatta per resistere, il ghiaccio è destinato a scomparire e questa sua durata effimera, la capacità di svanire come se non fosse mai esistito, è un processo così straordinario da accendere da almeno duecento anni la fantasia degli scrittori e degli artisti romantici, nell’accezione mutevole del termine. «Dio mio, se avessi un cuore scriverei il mio odio sul ghiaccio e aspetterei l’uscita del sole» scrive il messicano Johnny Welch in Lo que me ha enseñado la vida. Fin dalla scoperta settecentesca delle Alpi, le cascate e i ghiacciai hanno focalizzato gli sguardi e le emozioni. Da oltre duecento anni gli artisti provano a rappresentarli, quasi sempre insoddisfatti del risultato perché l’acqua e il ghiaccio fuggono e sfuggono come scappa il tempo.
Se dovessi spiegare l’essenza profonda del ghiaccio prenderei a prestito una delle albe di Camisasca in alta montagna, precisamente il palpito prima dell’alba, quel momento inafferrabile nel quale non è più notte e non è ancora chiaro, l’attimo impercettibile in cui sul ghiacciaio si posa una mano gelata, le stelle sbiadiscono, la montagna tace e uno sbuffo di vento restituisce l’incanto della luce. È il preciso istante in cui il mondo, con un soffio, rinasce al nuovo giorno. Per i fotografi è l’attimo verde-blu, grosso modo corrispondente al colore del ghiaccio, e per gli artisti è creatività allo stato primordiale, così difficile da narrare da perderci il sonno. Camisasca, che è insieme fotografo e artista, fa cantare le forme eliminando i colori e ricorrendo al contrasto del nero su bianco. Non perché non ami l’azzurro intinto nel viola dell’alba – come potrebbe non amarli, una persona sensibile come lui –, ma perché i colori, quasi tutti e quasi sempre, tendono ad ammorbidire il quadro dell’alta montagna come farebbe il pastello del pittore, addolcendoli e tradendoli. La tinta indescrivibile dei quattromila metri, così metallica all’alba da emettere suggestioni metafisiche e così densa in pieno giorno da inondare lo scenario fino al punto da annegarne le curve e i profili, rischia di sommergere il lavoro della luce e l’essenza della forma. Eliminando il colore il fotografo mira a restituire un paesaggio essenziale e primordiale, senza affatto eliminare lo stupore e l’emozione dello spettatore di fronte alle proporzioni immense della scena e dei suoi soggetti, anzi valorizzandoli. Allo scopo Camisasca utilizza alpinisti sempre minuscoli nel quadro generale, ben allineati, geometrici, formichine che salgono o scendono la montagna formando linee e tratti aggiuntivi. Non si riconoscono e non si devono riconoscere i volti delle persone, perché l’intenzione estetica è di introdurre la vita senza esplicitarla, mentre quella emotiva consiste nel contrapporre la piccolezza e la fragilità dell’uomo all’immensità del paesaggio. In questo senso siamo molto più vicini alle storiche inquadrature di Vittorio Sella che a quelle di Guido Rey, che all’inizio del Novecento scriveva:
«La piccola scatola fotografica racchiude nel suo segreto alcune rapide visioni che sono tesori; e quando nella camera oscura assistiamo trepidanti al rivelarsi delle minuscole immagini, rivediamo comparire le rupi sfuggenti nell’abisso, le guglie terribili che salimmo ansanti, e i luoghi aerei dove riposammo. Ci riappaiono i nostri compagni sorpresi nel vuoto così istantaneamente che ci è dato di scorgere le contrazioni del loro volto, il loro sforzo nel trarre la corda, gli atteggiamenti curiosi nei passi difficili… Strana magia questa di fermare per sempre ciò che è stato un attimo fuggente alla vita».
Rey ragionava e fotografava da alpinista, mentre Camisasca (e prima di lui Sella, Adams, Tairraz e altri grandi maestri attratti dalle montagne) pensa, cammina e scala da fotografo, immaginando le inquadrature prima di realizzarle, e andandosele a prendere su una cresta parallela, un rilievo discosto o una quinta secondaria. La sua alta montagna è uno scenario prospettico, e le prospettive vanno pensate e molto spesso inseguite rincorrendo i balli delle luci, delle ombre, delle nuvole e del vento, individuando il miglior punto di osservazione e soprattutto catturando il momento. A volte bastano pochi secondi di troppo per perdere l’attimo e sacrificare lo sforzo. Non si tratta di costruire l’immagine, che potrebbe apparire atto artificiale e prevaricatore, piuttosto di andarsela a cercare, immaginando – appunto – ciò che l’alpinista non riesce a vedere perché non ha occhi e sguardi abbastanza allenati, e imitando il pittore quando riversa un pezzo di mondo sulla tela, o qualunque artista che traduca l’dea in opera amplificando la forza e la bellezza contenute nell’esistente, quasi estraendole a forza dal paesaggio. In fondo è un processo simile a quello dello scultore che libera la figura dalle incrostazioni superflue della materia restituendo l’opera che vi era imprigionata, o dello scrittore quando trova le parole perfette eliminando quelle inutili e sovrabbondanti. Camisasca lo fa con i paesaggi naturali, togliendo ciò che non serve a riprodurre il suo vedere.
In tale modo sono nate queste sue potentissime rappresentazioni dell’alta montagna, o meglio queste intuizioni trasformate in inquadrature: da sguardi che paradossalmente confliggono con quelli della guida alpina, sempre concentrata sul dettaglio, l’assicurazione, la corda, l’ostacolo, il passo, mentre il fotografo del paesaggio e il ritrattista dell’immenso avrebbero bisogno di spazio, uno spazio infinito, e di pari tempo per guardare e immaginare. In definitiva il Camisasca guida e il Camisasca fotografo sono due persone in una, ma distinte. Due figure complementari, perché senza la tecnica alpinistica non si possono frequentare certi luoghi, forse nemmeno capirli, e meno che mai narrarli, ma allo stesso tempo salire non basta, al punto che si può scalare mille volte la montagna senza vederla davvero. Ci confida lo stesso autore: «Nel corso delle prime salite in montagna, la motivazione che mi faceva sopportare la fatica era sovente la preoccupazione di diventare un bravo fotografo delle alte quote. Volevo riportare a valle lo stupore che mi prendeva nell’osservare la natura dei ghiacci e delle rocce. Col passare degli anni ho cercato di sottrarmi agli stereotipi e alla banalità con cui spesso si rappresenta la montagna. A volte filtrandola attraverso i sogni e gli incubi che precedono le salite più impegnative. Altre volte individuando l’intimo significato delle immagini conservate in archivio. Ho dedicato gran parte della mia vita a questa ricerca e ancora oggi cerco risultati migliori. La montagna che ho nel cuore è un universo nel quale non solo gli alpinisti possono perdersi».
L’ultimo passaggio è importante, perché ci dice che Camisasca non fotografa per gli alpinisti ma per tutti. Non pone limiti al suo lavoro, perché il limite è nemico di ogni opera innovativa. Nemmeno il rigore stilistico delle fotografie alpine diventa una regola, tanto che specularmente ai vuoti delle Alpi le fotografie del Mustang e delle valli lontane contengono le persone e descrivono le popolazioni. Se sulle montagne di casa le creste e i ghiacciai sono protagonisti delle inquadrature, tra gli altipiani tibetani e nepalesi le cime diventano scenari e sfondi della rappresentazione umana. Le donne e gli uomini emergono dagli infiniti e severi spazi di una montagna che non è più la narrazione di se stessa, ma di un universo scabro abitato da montanari scolpiti, un umano che convive e confligge con l’alta quota, nel confronto sempre evidenziato dalle distanze di pesi e dimensioni. Qui i soggetti delle fotografie sono portatori di sguardi e sentimenti; i montanari himalayani di Camisasca appaiono come personaggi di una narrazione epica e poetica, attraverso un processo di rarefazione ed elaborazione dello sguardo che colpirebbe un Wim Wenders o un Werner Herzog. Uomini, donne e bambini sono i protagonisti e allo stesso tempo le prede di una natura estrema che attribuisce ai volti e ai gesti un significato amplificato dal contesto. Si sente il vento che soffia sui visi delle persone, che strappa vestiti e pensieri, che sventola bandiere e preghiere; si percepisce il gelo che condiziona il modo di vivere, intorpidendo le mani e accendendo gli istinti di sopravvivenza.
C’è un filo conduttore che lega le file di cordate che salgono le cime valdostane e vallesane e i fedeli che pregano gravitando intorno alle pendici del Kailash, o Kailãsa, nell’Himalaya tibetano. Sono sempre pellegrinaggi di piccoli uomini dentro sconfinati orizzonti, cui gli adoratori del Kailash attribuiscono significati spirituali e divini. Il bianco monte del Tibet occidentale è considerato sacro dall’Induismo perché ospita la dimora di Shiva e dal Buddhismo in quanto centro dell’Universo. I tibetani e gli indiani sono tenuti a compiervi un pellegrinaggio almeno una volta nella vita, con un cammino rituale di oltre cinquanta chilometri che aggira il monte toccando i monasteri e altri luoghi di meditazione e preghiera: «Il Kailãsa è un tempio dell’Assoluto», osserva il teologo filosofo Raimon Panikkar. «A differenza di qualsiasi moschea, cattedrale o tempio non è fatto dall’uomo. Il Kailãsa semplicemente è lì. È stato scelto come simbolo sacro dalla maggior parte delle religioni del Sud Asia, ma era già lì […]». Il cammino del Kailash è un percorso orizzontale, nulla a che vedere con le scalate e le conquiste dell’Occidente, ma nelle fotografie di Camisasca emerge la stessa relazione tra uomo e montagna, che se non sacra è comunque smisurata e imperscrutabile ovunque. Che la si scali o meno.
Quasi tutte le inquadrature del fotografo di Gressoney, che riguardino il lato occidentale o quello orientale del pianeta, restituiscono il mistero di un mondo che non ci appartiene, anche se sono secoli che cerchiamo di addomesticarlo umiliando la terra, il ghiaccio e noi stessi. Quasi ogni immagine presente nell’esposizione riporta al principio spirituale della natura e della vita, rappresentato dall’immensità che ci sovrasta e che governa l’universo. In questo senso sono scatti atemporali, perfino quando fotografano civiltà arcaiche e destinate alla scomparsa. Concentrandosi sulla cruda esplorazione del quadro naturale, volutamente spoglia, brutalmente sfrondata eppure vivamente poetica, le inquadrature generano riproduzioni di paesaggi dentro i quali anche le donne e gli uomini partecipanti alla scena collettiva sono come “liberati” dall’appartenenza storica per diventare simboli di loro stessi, testimoni di un incanto che – attraverso l’inserimento di piccole presenze in enormi scenografie – tende a superare la contingenza temporale per farsi icona di una relazione durevole. Non deve temere, Davide Camisasca, che le sue fotografie invecchino in fretta come le cartoline dei ghiacciai. Per fortuna non succederà.
Pubblicazione