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Le scalate – Le Alpi


Giocare con le Alpi è più facile, o almeno è diverso, perché a differenza delle montagne lontane ed esotiche le Alpi hanno luoghi fisici e storie consolidate, ma anche luoghi comuni, stereotipi, topos leggendari e letterari sedimentati nel tempo. Buona parte di questi caratteri esisteva già alla fine dell’Ottocento, quando si era ormai esaurita l’esplorazione alpinistica e si stava consolidando la colonizzazione turistica. Le Alpi erano ancora sufficientemente mitiche per far sognare i giocatori, ma già abbastanza conosciute per disegnare mappe e percorsi ludici utilizzando gli ingredienti più popolari degli orizzonti e dei viaggi in quota.
Prima del gioco c’è stata l’esplorazione, circa un secolo di progressiva scoperta e valorizzazione delle Alpi che dapprima ha spinto gli intellettuali del Settecento a “vedere” la montagna, poi a liberarla dalla sua aura maledetta, poi a scalarla per misurarla – in particolare Paccard e de Saussure sul Monte Bianco nel 1786 e nel 1787 –, infine a renderla una meta imperdibile sulle rotte dell’arte, della conoscenza e della scienza.
Fino al 15 marzo 1852, quando il Monte Bianco diventa un gioco per tutti. All’Egyptian Hall di Piccadilly la Montagna (the Mountain) va in scena per merito o per demerito, secondo l’inappellabile condanna di John Ruskin, di un certo Albert Smith, una specie di signor Rossi britannico che si è fatto un nome firmando articoli, commedie, romanzi e pantomime. Ha avuto la fortuna di scalare il tetto d’Europa con le guide di Chamonix e si è scoperto geniale venditore di emozioni. Di ritorno dall’ascensione Smith allestisce un diorama destinato a toccare le 2000 repliche, a fargli guadagnare più di 30.000 sterline e a portare nelle sale inglesi le orride meraviglie dell’alta montagna, gli esotici splendori dei ghiacciai e delle cime, gli esclusivi brividi delle Alpi. In 2000 appuntamenti gremiti di folle curiose ed entusiaste Smith conquista la piccola e media borghesia vittoriana, che non può permettersi di seguirlo se non in poltrona perché teme i rischi e detesta le novità ma che, proprio per questo, è avida di conoscenze e di emozioni in conto terzi.
Così il Monte Bianco diventa una star, la gente si appassiona alla scalata virtuale e Albert Smith studia ogni sistema per fare fruttare la nuova moda. Dal teatrino di cartone con lente ottica che anticipa la visione delle altezze in tre dimensioni, alle varie edizioni del Game of the Ascent of Mont Blanc, un inedito gioco dell’oca che si dipana proprio dall’Egyptian Hall di Piccadilly, dunque dai salotti londinesi, per poi attraversare la Manica e avvicinarsi a Chamonix e alle Alpi, fino a tentare – di lancio in lancio di girlo, una piccola “trottola” con i numeri come il dado – la favolosa ascensione della montagna più alta e famosa, con tanto di crepacci, seracchi, gesti funambolici, cadute, inciampi e meritate vittorie.
Va notato che poco prima in cui Smith scopriva e vendeva il Monte Bianco, nel villaggio francese di Pont-à-Mousson veniva creato e commercializzato un diorama ottico con illustrazioni a colori che permetteva di infilare gli occhi dentro un classico paesaggio romantico alpino. Il gioco consisteva innanzitutto nel montare la “scatola” a cinque pannelli sovrapposti e poi nell’immedesimarsi in alcuni bambini che da una finestra naturale si affacciavano sul più sontuoso paesaggio delle Alpi. Il luogo era archetipico, senza specifici riferimenti geografici. Altri paesaggi romantici si trovano sui coperchi di giochi con escursionisti vestiti alla tirolese e ammiccanti signorine in costume tradizionale. L’ascensione del Bianco ritorna nel gioco di primo Novecento dei fratelli Saussine, dove accanto ai camosci e agli alpinisti cominciano a comparire i segni della modernità che scala le montagne: ponti di metallo, treni a cremagliera, carrozze, alberghi, rifugi.
Non è finita, perché il Monte Bianco si ripresenta con due sommari percorsi dal versante di Saint-Gervais-Col de Voza e dal più classico itinerario di Chamonix del 1920 ca, e ancora con un’approssimativa scalata contrassegnata da pedine magnetiche che dal solito pastorello intento a custodire le bestie porta i giocatori sulla vetta sormontata dalla bandiera francese. Siamo già nel 1955 e l’immagine della montagna romantica sopravvive imperterrita, per soccombere definitivamente nel 1978 con un gioco complicato e dettagliatissimo legato al nome della giovane guida Jean Afanassieff. Questa volta si tratta proprio di un divertissement per alpinisti accaniti, gente da sesto grado, in cui la montagna è sezionata attraverso schizzi, tracciati, spaccati tecnici, e i partecipanti giocano letteralmente le loro carte sui grandi itinerari del Monte Bianco incontrando incognite legate al meteo, alle attrezzature in parete, alle corde doppie, ai chiodi e agli altri materiali da scalata. Oltre all’impostazione ingegneristica del tutto, colpisce la rappresentazione “moderna” della montagna: fredda, secca, senza più alcuna retorica.
Dal Bianco al Cervino. La stessa eco propagandistica di Albert Smith, ma in negativo, giunge da Zermatt a metà luglio del 1865. Non per la sensazionale vittoria di Edward Whymper sul più nobile scoglio d’Europa, che ha messo fine alla “corsa” internazionale al Cervino, ma per la tragica caduta che ha coinvolto tre alpinisti britannici e la guida francese Michel Croz durante la discesa della cresta svizzera. È il catastrofico “successo” che renderà per sempre famosa la cresta dell’Hörnli, l’itinerario grossolanamente percorso dal Jeu du Cervin del 1925 – edito in varie lingue – e improbabilmente affiancato a un altro folle itinerario sulla parete nord, lato destro, non dove sono precipitati i pionieri del 1865 ma piuttosto dove salirà Walter Bonatti cent’anni dopo, in solitaria.
Il Cervino, o meglio il Matterhorn svizzero, è successivamente imprigionato in un vistoso percorso di 146 caselle intitolato Mountaineering, creato in Gran Bretagna all’inizio della Seconda guerra mondiale e commercializzato con la promessa: «Un gioco ideale per giovani e anziani». Lo scopo, naturalmente, è raggiungere la vetta con i dadi.
Quelli della Jungfrau, regina dell’Oberland Bernese, sono legati alla leggenda della bella montagna che porta il nome di una giovane donna e soprattutto alla recente popolarità che la vetta ha raggiunto con la costruzione della ferrovia più alta d’Europa. Nel 1893 il manager di ferro Adolf Guyer-Zeller individua un tracciato per salire in treno la Jungfrau, per «permettere anche alle persone fisicamente impedite di godere delle bellezze alpine». Nasce un’agguerrita società a capitale privato e l’impresa ha inizio. Nel settembre 1898 viene inaugurata la stazione dell’Eigergletscher presso il colle della Kleine Scheidegg, che diverrà tristemente famosa nel Ventennio durante la tragica corsa alla parete nord dell’Eiger, l’orco dell’Oberland. Oltre il colle erboso viene la parte più difficile, perché il treno entra in un budello di oltre sette chilometri scavato nella roccia dell’Eiger e del Mönch, inerpicandosi verso il Jungfraujoch con pendenze fino al venticinque per cento. I convogli della cremagliera salgono a pochi metri dal vuoto, e in due punti la ferrovia si affaccia sulla vertigine della parete, fino a sbucare sulla sella glaciale a quasi 3500 metri di quota. I vari giochi lanciati sul mercato svizzero a cavallo della Grande Guerra incrociano i percorsi alpinistici tradizionali e il tecnologico itinerario del treno, affiancando la tradizione e il sudore all’innovazione modernista. Il più vecchio venne realizzato come gadget nel 1912, o poco dopo, per i primi turisti che raggiungevano la sommità in ferrovia.
Infine la scena si sposta sullo Zugspitze, la cima più alta della Germania, in un gioco a sfondo promozionale in cui campeggia un baffuto signore con piccozza, vestito da perfetto alpinista bavarese, e gli escursionisti di misura lillipuziana si contendono la cima in venti tappe, lungo tre percorsi diversi. Non c’è tecnica né emozione: solo lo sfondo leggero di un gioco romantico.