Non è una montagna di vinti
31 marzo 2012
Il 20 luglio 1970 don Oreste Camera, parroco di Cerretto Langhe, confida a Nuto Revelli:
«La vita è cambiata troppo in fretta. Io non so come sarà l’avvenire. L’operaio prende la paga ogni mese, il contadino prende la paga una volta l’anno, tutto l’anno a guardare il sole, ad aspettare le nocciole, le uve… E le spese sono sempre più grosse. Nove mesi d’inverno, tre mesi d’estate in cui bisogna ammazzarsi di lavoro da un’Ave Maria all’altra, e poi il pericolo della grandine, e può arrivare una disgrazia nella stalla al pari della tempesta, tante avversità e alla fine dell’anno poco profitto, e allora i contadini non fanno che arrendersi e andare in città. I giovani lavorano ormai quasi tutti in fabbrica…».
È una delle centinaia di interviste che Revelli – con magnetofono, complicità e pazienza – raccolse tra le Langhe e le valli alpine del Cuneese negli anni del boom economico e che furono pubblicate nel 1977 da Einaudi nel volume Il mondo dei vinti. Fu molto più di un libro, fu il manifesto vivente di quella che Pasolini aveva definito “la devastazione antropologica del Novecento”, cioè il traumatico, troppo rapido passaggio dalla società del pane alla società dei consumi. Nel giro di pochi decenni si dissolse un mondo contadino che aveva nel risparmio il suo limite e la sua forza, e i giovani emigrarono verso le fabbriche, le città e i supermercati lasciando i villaggi ai vecchi e ai ricordi. Era la fine di una civiltà sopravvissuta per secoli a guerre, epidemie e carestie, ma soprattutto era il tramonto di un’idea di montagna non inferiore ma complementare alla città, talvolta superiore per istruzione, mobilità e capacità creativa, comunque fiera della sua storia e della sua cultura.
Trentacinque anni fa, con Il mondo dei vinti, Revelli fotografa la resa della montagna al modello consumistico urbano, così forte da calamitare i giovani valligiani verso la pianura, così persuasivo da uniformare terre basse e terre alte a uno stile di vita radicalmente opposto alla frugalità che orientava la dignitosa autosussistenza dei montanari. La montagna diventa sinonimo di mondo vecchio e perduto, romantica meta per cittadini nostalgici oppure asettico palcoscenico per turisti e sportivi a caccia di emozioni.
«Nelle Valli Maira, Varaita, Po – scrive Revelli – le situazioni e i problemi si ripetono con una monotonia drammatica. Le comunità che si sfrangiano, le scuole che chiudono, la posta che si ferma al capoluogo, l’isolamento che cresce giorno dopo giorno. Nelle nostre valli non sono in funzione le camere a gas, così l’immagine del genocidio appare forse eccessiva alla folla dei benpensanti…, ma i fatti parlano, e dicono che non c’è più spazio per gli ignoranti, per i mediocri, per le furbizie elettoralistiche. È l’ultima volta che il problema della montagna si ripresenta come scelta di civiltà».
Aveva ragione, ma non poteva prevedere che di lì a trentacinque anni il mondo sarebbe cambiato un’altra volta. Dove sono oggi i “vinti” e dove i “vincitori”? La precarietà economica che ridicolizzava la montagna nei confronti della città sta purtroppo invadendo ogni settore, ogni presidio, ogni territorio. Ciò che sembrava sepolto – il risparmio, l’adattamento creativo, l’autosufficienza – ridiventa attualissimo alla luce della crisi contemporanea, e non c’è posto più adatto delle Alpi per tentare di liberarsi da alcuni cappi della globalizzazione. Se parafrasando Hawthorne “un vinto può esistere solo in un mondo di vincenti”, allora ci stiamo certamente avvicinando a una visione della montagna di nuovo complementare e non subalterna alla città, laboratorio di esperimenti inediti, fucina di valori innovativi. Un mondo capace di futuro.