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La nuova frontiera

Fotografie G. Rosselli

«Le glacier n’a pas voulu». Parafrasando un fortunato titolo di Saint-Loup, il motto scelto dal nostro gruppo di progettisti evoca un’altura – il monte di Bard – miracolosamente sopravvissuta alle glaciazioni, come un luogo predestinato da sempre a un futuro speciale. In fondo la strada romana, il castello medievale, i forti prima e dopo l’ira di Napoleone, altro non sono che il sigillo della storia su una roccia già di per sé eccezionale, sentinella naturale della valle, immenso cippo di confine, porta, difesa, faro.
L’altura di Bard si trova all’imbocco della Valle d’Aosta e domina una forra naturale che separa la Valle stessa dal Canavese, dal Piemonte e dal resto del mondo. Anche dal punto di vista linguistico Bard è un luogo di cerniera, un posto in cui si parlano la lingua piemontese e il patois valdostano, un confine di pietra per la pianura sbarrata dai monti, ma allo stesso tempo aperta verso i passaggi e i paesaggi delle Alpi.
La vocazione naturale e storica di Bard precedeva, e in un certo senso rendeva necessaria, la scelta di farne un polo museale e culturale che sapesse raccontare le Alpi contemporanee, luogo di incontro e dialogo tra civiltà, culture, punti di vista. Non le Alpi del turismo di massa, spesso distratto e disinformato, e meno che mai le Alpi di una presunta tradizione immutabile, impermeabile e cristallizzata, anacronisticamente appesa a un’idea e una realtà di montagna che non ci sono più. Bard è per natura e vocazione un posto di passaggio, una “frontiera” permeabile, una porta tra la città e la montagna nel quadro orografico alpino interpretabile come macroregione europea. Il visitatore del Forte di Bard segue il suo percorso senza dimenticare neanche per un momento di essere in un posto speciale, dove la natura e la storia hanno lavorato la roccia con l’acqua, il vento, la polvere da sparo, le braccia degli uomini, finché rupe e Forte sono diventati una cosa sola, evolvendo con il mondo intorno a loro.
Rocce e mura, pietre e calce. Volumi appoggiati a volumi, contrafforti e feritoie, tetti, ponti, cortili: chi osserva il Forte di Bard vede una massa architettonica immersa in un silenzio ancora intriso di attesa; per molti decenni del Novecento è stata come la fortezza Bastiani di Dino Buzzati, il posto dove uomini in armi aspettavano invano l’arrivo di un esercito immaginario. Il Forte era lì, vuoto e silenzioso, davanti a un “deserto” insensibile ai suoi destini. Poi ha perso gli uomini, gli animali, i depositi bellici, il suo stesso scopo di vita; Bard è diventato un pachiderma imbalsamato nel cuore del mondo che avanza: l’autostrada, i pullman, i camion, le automobili dei turisti che salgono verso le montagne e di altri turisti che scendono in città. Fortunatamente Bard non ha perso la memoria, ma gli andava ridisegnato un ruolo. Come ogni altro edificio assurto alla condizione di “rovina”, il Forte presentava mura e volumi ormai liberati dagli originali significati simbolici, ornamentali e tecnici che li legavano tra loro. Come un burattino cui erano stati tagliati i fili, il Forte ora offriva spazi pronti a nuovi usi e rinnovate funzioni.
Serviva un cuore nuovo, e in fretta. Il complesso museale di Bard non è dunque stato semplicemente concepito come un “contenitore” di oggetti, ricordi, invenzioni, emozioni e saperi, ma come un luogo intrinsecamente simbolico, preliminarmente degno di attenzione, capace di evocare e raccontare molti dei piani visivi su cui si articolano le esposizioni. Al contempo ogni locale, ogni piano, ogni “opera” è stata pensata come un inedito spazio architettonico, da reinterpretare secondo nuove vocazioni progettuali.
L’Opera Ferdinando, oggetto di un restauro particolarmente attento e sensibile all’architettura originale, è l’edificio destinato a ospitare il Museo delle Frontiere e delle Fortificazioni. In forma museale, accoglierà l’interpretazione storica e la rappresentazione contemporanea dei colossi militari che, come Bard, concepirono e sostanziarono per alcuni secoli l’idea della frontiera nell’arco alpino occidentale. Non sarà un museo di storia militare ma uno spazio espressamente dedicato all’evoluzione delle fortificazioni alpine, allestito secondo un registro ricorrente che, sala dopo sala, proporrà il confronto tra le armi di offesa e le architetture di difesa, con particolare riferimento alla Valle d’Aosta e al castello-forte di Bard.
Il museo accompagnerà il visitatore attraverso due millenni di storia, illuminando le strette interrelazioni tra l’evoluzione delle costruzioni militari e degli armamenti, dalle armi nevrobalistiche o a torsione alla polvere da sparo, fino alle armi moderne. Filo conduttore del percorso sarà lo stesso bastione di Bard prima e dopo la distruzione napoleonica, con particolare attenzione al posizionamento e al funzionamento dei cannoni puntati sulla Valle d’Aosta nei vari periodi della sua vita. In tal senso quello del Forte sarà anche il “museo di se stesso”, il luogo in cui i vecchi locali, i vecchi pavimenti, gli antichi materiali “dialogheranno” con i nuovi apparati allestitivi.
L’evoluzione delle armi è stata individuata come elemento conduttore del museo. Oltre alle due casematte d’artiglieria del 1838 e del 1880, ogni sala prevede la ricostruzione dell’arma di difesa e di offesa corrispondente alle fortificazioni del periodo, riprodotte con plastici, proiezioni e tecniche virtuali nella condizione corrispondente allo stato d’assedio. In tal modo il funzionamento e l’efficienza balistica delle armi diventano gli elementi strategici del divenire storico, accompagnando i visitatori in un cammino di conoscenza delle fortificazioni dell’arco alpino occidentale dall’epoca romana e medievale a tutto l’Ottocento, fino al rapido abbandono causato dalle nuove tecniche belliche del Novecento.
Nella seconda parte collocata al piano inferiore, il museo si focalizzerà sulla rapida e drammatica evoluzione dell’idea di confine e frontiera nel secolo breve, dall’introduzione del cemento armato alla fine della Seconda guerra mondiale, con approfondimenti sulla tragica Guerra Bianca 1915-1918 (fronte orientale) e sulla Guerra delle Alpi del 1940 (fronte occidentale).
E oggi?, ci si chiederà infine, oggi le Alpi sono di ostacolo o di cerniera per l’Europa? Dopo due secoli di colonizzazione turistica (la città che sale in montagna) e almeno un secolo di pesanti flussi migratori (la montagna che scende in città), ci troviamo certamente a un bivio: c’è chi pensa alle Alpi solo in termini strategici o commerciali, come a un banale ostacolo sulle rotte dei traffici europei, e c’è chi vi individua niente meno che il nuovo fulcro del continente, cuore del processo unitario e possibile laboratorio di natura e cultura.
In questa visione le Alpi si pongono come “una regione unica al centro dell’Europa”, superando completamente il vecchio limite dei confini nazionali. Ma anche un altro significato di “confine” è ormai superato dai fatti, ed è quel limite invisibile che separa la montagna dalla pianura, o la cosiddetta “cultura alpina” dalla cultura urbana. Chi si illude di salvare e rilanciare la montagna con una pur nobile difesa della sua memoria, della sua autonomia, delle sue tradizioni, dimentica che il nostro mondo – almeno il mondo europeo – vive ormai di un’unica cultura, quella urbana, e che ogni alternativa può nascere solo all’interno di essa e non a chimerica difesa di un passato autarchico che non esiste più, o non è mai esistito affatto. In altre parole l’identità alpina non può porsi come un “locale” impermeabile al “globale”, ma può rivendicare forza e dignità solo se accetta di misurarsi con il “mondo di fuori”, recependone le sollecitazioni utili e facendone emergere i limiti e le contraddizioni.
In questa prospettiva vanno riconsiderati i rapporti tra montagna e città, dunque tra montanari e turisti, a cavallo del confine immaginario. Non nei termini di un incontro tra passato e presente, o fra tradizione e innovazione, ma in quelli assai diversi di un mondo fragile ed eccezionale che incontra un mondo apparentemente più solido e sicuro di sé, ma che di fatto – proprio in funzione delle sue fragilità – può indicare alla pianura il senso del limite, il valore del tempo, un diverso modo di intendere lo “sviluppo”, meno schiavo del consumo e più interessato alla qualità della vita.
Ecco la nuova frontiera alpina.