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La montagna dell’anima

Se sulle Alpi esistesse una montagna sacra come quelle dell’Himalaya, quella cima sarebbe il Monviso. Ha tutto ciò che serve per essere ammirato e venerato da chi vive ai suoi piedi, a cominciare dalla forma geometrica.
Il disegno erosivo ha voluto che per sottrazione di pietra, in questo preciso momento geologico, il Monviso rappresenti la cima di Cartesio, silhouette da sognare, archetipo di ogni montagna. Se osservato da Torino o dalla Serra di Ivrea, si presenta come un triangolo isoscele dalle forme regolari e simmetriche, striato dalla neve fino all’inizio dell’estate, grigio in autunno, imponente sempre, con le creste est e ovest che convergono a freccia verso il vertice della piramide. C’è chi sostiene che ci sia il Monviso sul famoso logo della Paramount, anche se bisognerebbe chiedergli di dimostrarlo.
Naturalmente la forma non basta a farne una cima eccezionale: bisogna aggiungerci l’isolamento e la visibilità. Il Monviso è come un sovrano unico e indiscusso nell’interminabile arco di Alpi che va dalle Liguri alle Graie. Nemmeno la vela bianca del Rocciamelone riesce a incrinarne la supremazia, perché contornata da cime che si fanno via via più alte e uniformi. Invece i cinquecento metri di dislivello che separano il Monviso dal vicino Visolotto, montagna esteticamente notevole e alpinisticamente più difficile del suo “superiore”, diventano una distanza incolmabile sul piano della prospettiva perché il Visolotto è allineato con la restante cresta di confine, mentre lui, il Re di pietra, svetta da ogni prospettiva avvicinando il tetto dei 4000 metri. E certamente, ai suoi tempi, è stato un Quattromila.
Alla celebre definizione Vesulus pinifer, “montagna visibile ammantata di pini”, coniata da Virgilio nel decimo libro dell’Eneide, seguono le citazioni di numerosi autori latini, tutti sorpresi da quel sasso gigantesco che guarda e domina la pianura come nessun altro monte. «Nella parte occidentale dell’Italia – osserva molti secoli dopo Francesco Petrarca – dalla catena dell’Appennino si leva il Monviso, un monte altissimo, isolato, che, innalzandosi con la sua vetta oltre le nuvole, si slancia nell’aria limpida.»
Anche il Cervino è isolato, si può obiettare, e quanto a forma e dimensioni che cosa si potrebbe mai pretendere in più del Cervino, però lui non si vede dalla pianura. Solo il Monviso è perfettamente visibile da ogni campagna, paese e città, è sempre lì sospeso dall’alba al tramonto, i contadini sanno di averlo sulla testa mentre lavorano la terra e gli operai lo vedono indorarsi quando vanno al primo turno in fabbrica, come una lampada che illumini la loro fatica.
E poi c’è il Po che nasce alle falde del Monviso, precisamente al Pian del Re. Dante, dedicando un rapido cenno alla montagna nell’Inferno della sua Commedia, si sofferma sulla paternità: «Come quel fiume ch’ha proprio cammino prima da monte Veso inver levante dalla sinistra costa d’Appennin». Dal grande sasso sgorgano le acque del grande fiume che irriga le pianure e disseta le città. Dalla roccia nasce la vita, consegnando al monte durezza di padre e benevolenza di madre. Il Viso non è la montagna matrigna e crudele che sbarra l’orizzonte, è più la montagna madre che protegge e dà speranza, interpretazione nostrana dei miti orientali che attribuiscono alle nevi dell’Himalaya l’origine della fertilità.
Si può dunque parlare di montagna sacra? Con dovuta prudenza, perché la sacralità delle cime alpine è un problema delicato: sacri sono gli eremi, i santuari, speciali “monti” come Orta o Varallo, i luoghi insanguinati delle Dolomiti, forse perfino i colli resi tali dal sudore degli uomini; ma le cime non furono sacre per i montanari, che nell’antichità le ignoravano, e lo diventarono solo successivamente per i seguaci della fede cattolica, quando le si identificò con dei luoghi di culto: per esempio il Rocciamelone, ancora lui, salito nel 1358 dal crociato Roero d’Asti per onorare un voto alla Madonna. Dunque è delicato parlarne, ma se ci fosse una montagna sacra sull’arco alpino quella cima si chiamerebbe Monviso, o semplicemente Viso.
I cittadini europei, più che onorare le Alpi innevate e fantastiche, a partire dall’Ottocento si preoccupano di scalarle. Scorrendo la storia dell’alpinismo si scopre che il primo a sfiorare la cima del Monviso fu un saluzzese, certo Domenico Ansaldi, che nel 1834 giunse a centocinquanta metri dalla vetta. Se Ansaldi fosse riuscito nell’impresa, il Re di pietra avrebbe avuto un destino diverso. Invece entrano in scena gli alpinisti d’oltre Manica: prima i britannici Forbes, Ball, Whymper, Mathews e Jacomb con le guide francesi sul versante sud, poi il reverendo americano Coolidge con le guide svizzere sulla parete nord. In mezzo, naturalmente ci sono Quintino Sella e i suoi amici di scienza e politica, che nel 1863, dopo che la montagna è stata ampiamente espropriata, capiscono l’urgenza del riscatto italiano e hanno successo, perché sul Monviso prende forza il progetto del Club Alpino di casa nostra.
Ritorniamo alla prima ascensione. Nel 1861 la piramide delle Alpi Cozie viene scalata senza troppe difficoltà da Frederick William Jacomb e William Mathews con le guide Jean-Baptiste e Michel Croz di Chamonix. Il triangolo del Monviso non poteva passare inosservato a quegli instancabili cacciatori di cime che erano gli inglesi dell’Ottocento, i quali, mentre godevano della vittoria, di sicuro si domandavano perché i montanari locali non ci avessero pensato prima. Quei valligiani che ogni mattina si alzavano con il Viso sulla testa e ogni sera se lo portavano a letto con i ricordi lieti e tristi della giornata. Nel 1863 la tipografia saluzzese dei Fratelli Lobetti-Bodoni rende omaggio al pioniere londinese Mathews traducendo con linguaggio aulico, ma dettagliato, il suo racconto della Salita a Monte Viso:
«…sebbene eccessivamente erta, la salita non riesciva gran fatto difficile imperocchè gli sporti e gli angoli delle roccie, sui quali ci aggrappavamo mani e piedi, ci prestavano abbastanza sicuro appoggio ed erano interamente privi di ghiaccio… Contro un solo pericolo dovevamo stare in guardia ad ogni passo: massi distaccati d’ogni forma e dimensione pendevano lungo le gole o giacenti su mobili piedestalli o appoggiati mal fermi al pendio della roccia. Tenendoci stretti in fila scomponevamo il meno possibile questi frammenti e nondimeno masse di più quintali di peso venivano tratto tratto spostate sulla fronte e scendevano fischiando a spaventosa prossimità della testa di quelli che salivano in coda…»
Logicamente i primi salgono dal lato sud, dove il Monviso si mostra più dolce e arrendevole; partono dalla Frazione Castello di Pontechianale, in Valle Varaita, e percorrono il vallone di Vallanta, la porta d’accesso al pietroso versante meridionale. Ma la vera sfida era e resta il ben più impressionante versante settentrionale, il “Viso della Valle Po” per dirla nel gergo locale. La gelida e altissima parete nord attrae e spaventa gli alpinisti di fine Ottocento, che ancora non dispongono di ramponi, eppure nel luglio del 1881 viene scalata dal reverendo americano William Augustus Breevort Coolidge con le guide svizzere Almer, padre e figlio. Un’impresa eccezionale, pionieristica e d’avanguardia allo stesso tempo:
«In un canalino – scrive Coolidge –, prima di un ultimo angolo da aggirare per verificare quale sarebbe stato il nostro destino, Almer insisté perché ci fermassimo a riposare in preparazione di qualche terribile mauvais pas. Accettai con una certa indignazione, dal momento che ora eravamo così vicini al ghiacciaio che sembrava illogico fermarsi prima che l’incognita fosse risolta; ma la lunga esperienza mi aveva insegnato che era meglio agire secondo quanto raccomandava Almer, senza ulteriori indagini. Ripartimmo poi nuovamente, addentrandoci nella grande parete scorgendo un piccolo canale tra due speroni. Salimmo ancora. Girato un altro angolo, ecco un grido del nostro capo-comitiva annunciare la vittoria. Alle 9,15 ci fermavamo trionfanti sul ghiacciaio.» Il ghiacciaio che tanto impensierisce Coolidge è una specie di lenzuolo incastonato a diadema nel cuore della parete. È come un’isola nella vertigine, un’oasi, un piccolo porto per l’alpinista. O almeno lo era fino al 6 luglio 1989, cent’anni e mille ascensioni dopo l’impresa degli Almer e di Coolidge.
Marc Albaladejo e Linda Mons, due giovani alpinisti del Club Alpino di Monaco, hanno lasciato il Principato in mattinata e raggiunto il Pian del Re in auto a metà pomeriggio; le previsioni del tempo sono favorevoli e il vento del nord ispira buoni presagi. I francesi sono saliti alla minuscola semi botte del bivacco Villata, che dal 1958 offre un ricovero agli alpinisti impegnati sulla parete nord. Dopo avere cenato e preparato gli zaini, hanno consultato l’altimetro notando che la pressione stava diminuendo a dispetto delle previsioni. Un leggero vento da sud-ovest cela il cielo e fa anche un po’ troppo caldo. Sono andati a dormire un po’ meno fiduciosi, confidando nella notte e nella fortuna.
Dopo qualche minuto, si scatena l’Apocalisse:
«Improvvisamente sussultiamo nel dormiveglia, destati da un possente e sordo rimbombo che rapidamente si intensifica fino a diventare un boato terrificante che si avvicina a velocità vertiginosa. Il couloir nord sta franando con un baccano allucinante. Atterriti, nelle cuccette, con gli occhi sbarrati nell’oscurità, ci aggrappiamo alle nostre povere coperte. Al passaggio di quello che a noi sembra essere il fronte della valanga, il bivacco si mette a vibrare violentemente e subito si sentono i primi colpi delle pietre che colpiscono con forza il nostro ricovero provocando degli squarci dove entra dell’acqua; pare che tutto debba disintegrarsi…»
Alle 6 del mattino, dopo una notte d’angoscia con i caschi in testa a orecchiare le scariche, i due possono finalmente abbandonare il bivacco: «Appena usciti all’esterno, stupefatti, valutiamo attraverso la cortina di nebbia l’ampiezza della valanga. I bordi del canale non esistono più; resta solo una lunga striscia di ghiaccio bianco incisa al centro da un solco profondo, dove corre un vero torrente d’acqua. La valanga si apre su un triangolo di un chilometro di base per un chilometro e mezzo di altezza. Il Lago Chiaretto, seicento metri più in basso, è interamente coperto». Con il crollo erano scomparsi circa duecentomila metri cubi di ghiaccio e buona parte del ghiacciaio pensile, urlando agli amanti del Monviso che il clima cominciava a cambiare, anzi era già cambiato, e che l’oggetto del loro amore diventava più che mai un Re di pietra, solo sasso. Addio agli ultimi ghiacciai.
La prima ascensione degli inglesi da sud, la ripetizione “politica” e pedagogica di Quintino Sella e la successiva impresa dei due Almer e del reverendo Coolidge sulla parete nord sono le pagine alpinistiche più note del Monviso, ma certo non ne completano la storia, nemmeno quella dei pionieri. Nel mezzo si dipana un’iniziativa assai variegata, poco decifrabile ma decisamente significativa, dal giorno in cui Leopoldo Barale e Antonio Castagneri raggiungono la cima in inverno, nel 1878, a quando i francesi salgono la parete nord ovest nel 1879, finché Guido Rey e ancora la grande guida di Balme Castagneri scalano la bella cresta est nel 1887, che sarà ripresa dai Kind e Ubaldo Valbusa con una salita integrale. Molti anni dopo, nel 1931, i lombardi Bonacossa, Binaghi e Bramani si aggiudicano infine l’ultima parete, la grandiosa Ovest sul versante che guarda alla Francia.
Con il Ventennio e il secondo dopoguerra arriva la terza e fondamentale fase di esplorazione, e qui comandano gli alpinisti locali. Emergono i saluzzesi e i cuneesi: innanzitutto i Perotti, guide della Valle Po, poi Giuseppe Gagliardone sugli itinerari di roccia, i cuneesi Campia ed Ellena sullo sperone nord, don Severino Bessone, Ernesto Bano, i fratelli Berardo, Hervé Tranchero, Guido Ghigo, il monregalese Gianni Comino, il forte local Tristano Gallo, il ligure Fulvio Scotto e il valsusino Gian Carlo Grassi. Leggendo con attenzione i momenti della terza “conquista” si ritrova l’attaccamento affettivo e simbolico alla montagna di casa, che non ha certo la roccia da film del Monte Bianco, non ha ispirato pagine memorabili di letteratura alpinistica, non ha mai dato fama a nessuno scalatore e non tocca nemmeno i 4000 metri, eppure fa battere i cuori dei piemontesi. La ricerca degli ultimi problemi di ghiaccio e roccia del Monviso è una faccenda di amore e familiarità, bisogna amarla e conoscerla profondamente una montagna come il Viso per passarci le notti a bivaccare e rischiarci le mani in inverno, sapendo che difficilmente si finirà sulle pagine delle riviste patinate. Bisogna averla scoperta e sognata, non sui libri ma sull’orizzonte, scegliendo una delle due valli per avvicinarsi.
Due vallate di accesso a sud e a nord del Monviso, che sono una l’opposto dell’altra. Lunga e dolce la Valle Varaita, priva di strette profonde, esentata dagli sbalzi improvvisi, un unico verde solco punteggiato di villaggi e allietato, sopra la “Castellata”, dalla profumata distesa dell’Alevé, il più esteso bosco di pini cembri delle Alpi occidentali. Breve e arcigna la Valle Po, stretta e scarsamente abitata, una successione di tornanti senza respiro che da Paesana salgono ai duemila metri del Pian del Re, tra forre di gneiss e cascate, ripidi pascoli e alpeggi aggrappati alle rocce. Ma per contrappeso della geografia, dopo una fugace apparizione da Venasca e dintorni, la Valle Varaita nasconde il Monviso e le cime più alte, mentre la Valle Po le mostra in tutta la loro verticalità, dai versanti est e nord, con una processione di pareti che si allarga dal Viso Mozzo al Monviso al Visolotto, e poi ancora, per chilometri, attraverso la cresta di Punta Gastaldi, Punta Roma, Punta Udine, Punta Venezia e per Italia andando, fino al Colle delle Traversette, il più antico traforo alpino, e al Monte Granero sullo spartiacque con la Val Pellice. In alta Valle Po esistono anche due balconi nascosti da cui è possibile guardare senza essere visti: a sinistra il terrazzo di Oncino, da dove partivano gli antichi salitori del Monviso, a destra quello di Ostana, che offre il più bel panorama sulla montagna.
Il Colle dell’Agnello, salito agli onori della cronaca grazie ad alcuni passaggi del Giro d’Italia, mette in comunicazione la Valle Varaita con il Queyras, in terra francese, dove il paesaggio cambia di nuovo: più aperto e modellato, boschi alternati a pascoli e terre coltivate, un saggio uso del territorio, morbido turismo per ridare vita senza distruggere, rocce chiare e cieli intensi che anticipano i colori della Provenza. Di là il Monviso è più una promessa che una presenza: campeggia sulle carte e sui dépliant, ma per vederlo davvero bisogna salire ad Abries e Ristolas e infilarsi fiduciosi lungo il solco del Guil. Solo molto in alto nella valle, sulla via del rifugio Ballif, si mostra con una delle prospettive più emozionanti: la compatta parete ovest, rigata dalle frane e dalle valanghe; sulla destra spicca il poderoso Dado di Vallanta.
E allora, per finire, dobbiamo chiamarlo Monviso o è sufficiente Viso come per quelli che abitano ai suoi piedi? La lingua dice che basta così, imitando la forma semantica usata nelle valli e il toponimo espresso nelle forme locali lo Viso, o lou Visoul, che è anche il titolo dei dolci versi di Tòni Baudrier, il poeta occitano:
Per nous soulajar, Pàire, per nous ensoulelhar,
nous as dounà ’n pairin, un miralh dau soulelh…
per nous pourtar mai àut, bou l’armeto voular.
(Per consolarci, per colmarci di sole, Padre,
ci hai dato un padrino, uno specchio del sole…
per portarci più in alto, e con la piccola anima volare).