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Il turismo dolce


L’invenzione del turismo invernale arriva dalla Svizzera, precisamente dall’Engadina, ai piedi del Bernina. All’inizio dell’Ottocento Sankt-Moritz è un piccolo villaggio di neppure duecento anime, isolato dal resto del mondo; nel 1832 viene inaugurato il primo albergo dotato di sei bagni termali; nel 1864 un gruppetto di turisti inglesi prova a soggiornarvi d’inverno (dietro garanzia di rimborso in caso di maltempo) e scopre che la cattiva stagione può essere buona perché il tempo è più stabile, il cielo è più limpido e con una buona coperta si può prendere il sole sulle terrazze degli hotel senza temere le mosche e i temporali. Chi si annoia a guardare il cielo può farsi trainare dai cavalli sulle carrozze con i pattini, e chi cerca emozioni le trova scivolando con le slitte sui campi di neve farinosa, la versione alpina dello zucchero filato.
La moda del “fuori stagione” prende piede: nel 1870 Sankt-Moritz conta meno di mille turisti in tutto l’anno, nel 1873 i pernottamenti sono saliti a oltre ventimila, e l’inverno fa la sua parte. Non c’è niente di più provocante del contrasto tra il riverbero diurno del sole e il gelo delle notti di luna, l’erotismo della neve soffiata del vento e le curve delle signore sotto le gonne lunghe, quando i ceppi di larice bruciano nelle stufe e si danza a braccia scoperte. Il Grande Nord in abito da sera.
Naturalmente le Alpi d’inverno sono un gioco per pochi, e lo saranno fino agli anni Trenta del Novecento, ma intanto arriva l’attrezzo rivoluzionario: lo sci. Il padre del nuovo sport è l’ingegnere svizzero Adolfo Kind, che nel 1896 porta a Torino due paia di “assi” di frassino detti “ski” norvegesi. Li mostra agli amici nella bizzarra abitazione che si è fatto costruire non lontano dal Po e dal Parco del Valentino. Il testimone Ettore Santi dice che Kind e compagni calzano gli sci sul tappeto di casa, divertiti e impazienti di lanciarsi sulla neve. Poi dal tappeto di Kind le esercitazioni si allargano ai cocuzzoli del Valentino e alle radure della collina torinese, fino ad affrontare i pendii alpini. Avvampa l’ebbrezza della discesa.
Tutto si arresta tra il 1914 e il 1915, quando scende sull’Europa la tempesta della guerra. Si combatte per tre lunghissimi inverni anche sul fronte alpino, ricorrendo talvolta all’uso degli sci. La bufera cessa alla fine del 1918 e i popoli si riprendono faticosamente.
Il fascismo promuove la diffusione dello sci e a metà degli anni Trenta arriva la prima città della neve: Sestriere. La stazione invernale si distingue per le futuristiche torri e altre soluzioni d’avanguardia, riempiendo gli immaginari con le funivie e gli impianti di risalita che allontanano lo spettro della fatica e suggeriscono messaggi seducenti e sacrileghi rispetto alla tradizione romantica della montagna. Automobile e sci diventano binomio inscindibile e simbolo di modernità, spazzando la secolare mitologia dell’alpe isolata e silenziosa. Lo sci di massa inventa un’altra montagna, trasformandola da luogo di vita a impianto, da ambiente a cornice, da agglomerato storico a stadio d’alta quota.
Poi vengono Cervinia e altre centinaia di villaggi-impianto ritagliati sul modello urbano. Neanche la Grande Guerra ha trasformato così drasticamente il paesaggio delle Alpi, che porterà per sempre le stigmate dello sci. E l’industria degli sport invernali si potenzia notevolmente nel secondo dopoguerra, raggiungendo il suo apice negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, fino a stabilizzarsi e affrontare i primi periodi di crisi.
Che cosa è cambiato da quei tempi? La neve, innanzi tutto. Oggi è sempre più rara e preziosa. Quando arriva la farina i giornali fanno pagine che strillano «signori, un’annata mai vista!», e se invece non arriva si spara con il cannone, e allora non si stupisce nessuno. Straordinaria è diventata la neve che scende dal cielo, naturale e leggera, e non quell’altra neve di obice che quando è in terra sembra una granita alla mandorla.
Anche gli sci sono cambiati, non più lunghi e affusolati ma corti e larghissimi, democratici, così che tutti girano facile, allo stesso identico modo, così che dalla seggiovia guardi uno sciatore e ne hai visti mille, diligenti e colorati. Mediamente, s’intende.
Sono cambiati gli impianti di risalita, non si fanno più code alla funivia e le cabine sono così accoglienti che arrivi in cima e ti viene voglia di restare dentro, se fuori tira vento. Sono cambiate le temperature, evidentemente. Con il riscaldamento globale la neve sale a quote sempre più alte e le montagne sbiancano sempre più in fretta.
Ma soprattutto sono cambiati i nostri occhi, troppo assuefatti per emozionarsi e ritornare occhi bambini. A programmare per forza la neve si rischia di programmare anche i sogni, dimenticando che è per quelli che la neve esiste. E allora, con occhi nuovi, si cercano emozioni vecchie: le ciaspole, lo sci alpinismo, la neve fresca. All’industria dello sci va sempre più affiancandosi un turismo senza motori, più dolce e leggero, e certamente più sostenibile dal punto di vista ambientale ed economico. Oggi i turisti della montagna vogliono tornare a casa con un’esperienza. Non gli basta più il mordi e fuggi. Da consumatore passivo, prodotto egli stesso del mercato turistico, il viaggiatore del nostro secolo vuole essere protagonista attivo, consapevole e competente.
Converrebbe ormai parlare di “turismi” al plurale. Sulle Alpi ne esistono almeno due: l’industriale e l’artigianale. Sono due offerte molto lontane e spesso inconciliabili, basate su domande differenti. Pensiamo per esempio a Sestriere e alla Val Troncea, in alta Val Chisone, oppure a Madonna di Campiglio e alla Val di Genova, tra il Brenta e l’Adamello. Si tratta di realtà che convivono a pochi chilometri di distanza, ma che si basano su un uso dell’ambiente e una tecnica promozionale agli antipodi. A Sestriere e Madonna di Campiglio si continua a ricostruire la città in montagna, con i suoi confort e le sue costruzioni fisiche e mentali, in Val Troncea e in Val di Genova si promuove l’integrità ambientale dei luoghi, vendendo silenzio, natura e quel po’ di fatica che serve per entrarci dentro. A livello di accoglienza, abbiamo grandi alberghi da un lato e rifugi alpini dall’altro. A livello di accesso, auto da una parte e sci da fondo dall’altra. La differenza fra i due modelli salta all’occhio; meno evidente è la macchina che ci sta dietro. La prima può solo correre e crescere continuamente, che se si ferma è perduta, l’altra può anche rallentare, ragionare, correggere e ripartire, non perché il suo pubblico sia meno esigente dell’altro, o più “virtuoso”, ma perché è più responsabilizzato e disponibile all’adattamento.
La problematicità dell’industria turistica “pesante” si evidenzia nel turismo dello sci, che sopravvive a stento con i finanziamenti pubblici eppure deve sempre ammodernarsi, investire denaro e ingigantire l’offerta perché è tallonato dalla concorrenza, dai costi dell’energia e dal riscaldamento climatico che alza continuamente la quota della neve “da cannone”. Il turismo leggero o dolce, cioè la proposta descritta in queste pagine, può invece permettersi una gestione più misurata e flessibile. In una parola: artigianale. Il turismo industriale rischia di cannibalizzare la materia prima – l’ambiente alpino –, l’altro può proporsi di valorizzarlo e proteggerlo al di là di ogni ragionevole guadagno, perché è proprio la qualità dell’ambiente che muove il suo pubblico verso la montagna.
I primi ad amarla e difenderla sono proprio loro: i turisti.