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Grivola, intorno solo cielo

Per Piero Giacosa la Grivola è la montagna dalle tre facce. Come le persone maliarde e un po’ infingarde, cambia volto secondo le situazioni e gli sguardi. «Vista da nord – scrive Giacosa – merita il nome di Belle face. La faccia della Grivola che dà su Valsavarenche si chiama Bocconere, dal nome di una forra, ma il tratto orientale dove l’alternarsi delle fasce bianche e nere è più deciso è designato anche con il nome Rayes Noires. Il picco vero della Grivola è indicato sulle carte sotto il nome di Picco di Nomenon, il che è giusticato dal fatto che la parete nord (la faccia più bella) chiude il vallone di Nomenon.
Insomma non c’è sintonia sul nome. Secondo qualcuno Grivola deriverebbe dal patois griva, tordo, un nome senza senso, oppure da grivoler, chiazzare, in virtù della roccia macchiettata e striata; per Paul-Louis Rousset il toponimo verrebbe da gri, pietraia, o forse anche da gris, grigio, anticipazione profetica del riscaldamento climatico. Opterei per l’ipotesi dell’abbé Henry: la grivoline è una bella ragazza. Così “l’ardua Grivola bella” del Carducci sarebbe la nostra Jungfrau e io potrei spiegare l’innamoramento che provavo a vent’anni, nei mesi prima di salirla. Viaggiando verso il Monte Bianco, all’altezza di Saint-Pierre, ero folgorato dalla fata bianca, slanciata e bella come un Cervino, ma più eterea. Irresistibile.
Quando ho scalato la parete nord est alla fine degli anni Settanta ho trovato solo un piccolo strato di pietre scistose che interrompeva la continuità del pendio ghiacciato. Quattro o cinque metri di roccia su cinquecentocinquanta metri di neve e ghiaccio ben assestati. Oggi le proporzioni si sono invertite e la parete è quasi completamente grigia. La doppia vela della Grivola è diventata un muro di ghiaia inclinato a cinquantacinque gradi e torna a essere sé stessa soltanto in primavera, dopo le nevicate di fine inverno e prima del disgelo. Tra aprile e giugno è ancora una bella ragazza, anzi bellissima, e qualche sciatore di talento ne approfitta per scenderla con gli sci e la tavola, altrimenti è un’ex fata, o una sirena in abiti domestici, che sfiora sempre i quattromila metri di altezza e si proietta ancora nel più bel cielo della Valle d’Aosta, perfettamente centrale e isolata, affacciata su tutto e lontana da ogni cosa.
La Grivola è una di quelle montagne che quando arrivi in cima ti sembra di non essere da nessuna parte, perché intorno c’è solo cielo. Il Gran Paradiso, leggermente più alto, allinea la cresta a una certa distanza, il Monte Bianco è abbastanza lontano da sembrare l’Himalaya, Cervino e Monte Rosa, a nord, disegnano il fondale perfetto e non fanno concorrenza. La Grivola è unica come tutte le montagne, e come le persone, un po’ più unica, direi.
Ho salito la parete nord est tra una notte e una mattina di luglio, sotto il più bel blu che un alpinista possa desiderare, ma della scalata ricordo soltanto la sua imperfezione, la breve fascia di roccia su cui ci destreggiammo come su una pila di piatti per non far crollare l’impalcatura. Poi ricordo la parete nel passaggio dell’alba, improvvisamente accesa da uno schiaffo dorato. Mentre affrontavamo l’ultimo crepaccio c’era solo un barlume dalle parti della cima, superato il crepaccio era già divampato l’incendio. Appesi alle punte di ramponi e piccozze, assonnati e inebriati allo stesso tempo, non facemmo altro che andare incontro al sole, prima bucando il buio e poi arrampicando con la nostra ombra di fianco. In qualche ora abbiamo portato l’ombra in cima e poi siamo scivolati con lei sugli sfasciumi della via normale.
Una volta era tutto più lento e ossessivo, nell’arrampicata glaciale. Per Amilcare Cretier, primo salitore della parete nord est il 2 agosto 1926 in cordata con Lino Binel, la scalata fu un ininterrotto scalinare, «lento, faticoso e monotono lavoro di piccozza… Con regolarità e con calma l’acciaio della piccozza incide nel cristallino elemento i sicuri gradini leggermente inclinati a monte, cosicché la nostra salita continua lentissima sull’inclinata superficie… Anche il nostro pensiero ha perso la sua vivacità e si limita a considerare palmo per palmo il nostro cammino. La nozione del tempo e dello spazio si va perdendo e si confonde con la visione del piccolo tratto bluastro che si presenta man mano dinanzi a noi».
Il piccolo grande Luigi Carrel, detto “Carrelino”, sale la parete nord ovest dieci anni dopo, con lo stesso Binel, Remo Chabod e Alberto Deffeyes. La guida di Valtournenche ha scoperto la Grivola durante un’operazione di soccorso e probabilmente ha colto la somiglianza con il suo Cervino. La Nord ovest è l’altra faccia settentrionale, leggermente meno inclinata della Nord est, ma ugualmente grandiosa. Anche Carrelino, lavorando duramente di piccozza, deve tagliare seicento scalini sul concavo pendio di neve e ghiaccio, scivolo immenso, la gran vela bianca spiegata verso il Monte Bianco.
Ovviamente, sul facile e sfasciato versante meridionale, la Grivola è già stata corteggiata e scalata da molto tempo. Fedele A. Dayné, intraprendente guardiacaccia di Valsavarenche, ha guidato i britannici Ormsby e Bruce in vetta il 23 agosto 1859. Solo Dayné ha raggiunto la punta massima, issandovi una bandiera; gli altri membri della spedizione si sono fermati poco sotto. Incredibilmente la prima ascensione viene attribuita a Mr. Wethered, in quanto “alpinista”, anche se Wethered sale solo nel 1876, ben diciassette anni dopo Dayné, con le guide Proment e Blanc. Passano decenni prima che il valligiano veda riconosciuto il sacrosanto primato.
L’Ottocento è il secolo dei pionieri, sulle rocce rotte del versante al sole e della cresta nord, elegante ma non troppo difficile; nel Ventennio si salgono le vele settentrionali e dopo la guerra arrivano le scalate invernali. Nell’inverno del 1970 manca ancora la parete nord est, allora si forma un gruppo speciale: «Una cordata più eterogenea non si poteva fare – riconosce Alessandro Gogna –. Guido Machetto, di Biella, guida e maestro di sci, poi Carmelo di Pietro, di Gallarate, custode del rifugio Maria Lui¬sa in Val Formazza, Leo Cerruti titolare a Milano di una ditta di apparecchiature elettriche, Gianni Calcagno, impiegato in un negozio di articoli sportivi a Genova, ed io. Se di tutti ho in¬dicato la professione, purtroppo per me è impossibile». La salita è molto dura, soprattutto perché i cinque alpinisti scelgono di prendere la parete dal basso, scalando anche la seraccata. Bivaccano in cima, ma non è finita:
«Alla mattina ne abbiamo abbastanza del bivacco a 3900 metri – ricorda ancora Gogna – e cominciamo subito a scendere al sole che però non scalda neanche un poco. Il vento ha aumentato la violenza; a volte ci sono delle raffiche che buttano giù se non si è pronti a ristabilire l’equilibrio. Crestine da percorrere a cavalcioni, una corda doppia, lunghi giri sotto cresta, salti ghiacciati, ci tro-viamo la strada per il Colle dei Clochettes dove a 3447 metri c’è il bivacco fisso Mario Balzola. Finalmente, alle 16, lo rag¬giungiamo». Qualcuno li dà per persi, si allertano i soccorsi aerei, ma tutto finisce bene. Una grande avventura.
Infine arrivano gli sciatori, che aspettano la neve assestata per buttarsi giù. Il 13 luglio 1980 il grande Stefano De Benedetti riga la parete nord est con i lunghi sci da estremo, lo imitano Dominique Neuenschwander e Toni Valeruz qualche tempo dopo. Nel 2012 Davide Capozzi scende addirittura con la tavola da snowboard, accompagnato, ma in sci, da Luca Rolli e Francesco Civra Dano.
«Alle prime luci dell’alba siamo alla terminale – scrive Capozzi –, da qui ancora 600 metri per raggiungere la cima della Grivola. I pendii sono intorno ai 50 gradi, gli ultimi 100 metri della parete sono i più ripidi e purtroppo la neve diminuisce, anche fino a dieci centimetri su placche rocciose e ghiaccio vitreo! La parte più impegnativa sarà chiaramente questa, siamo in tre a scendere e non sarà affatto semplice passare i primi metri…»
Oggi che tutto è stato sognato, scalato e sciato, l’unico mistero della Grivola restano quei trentun metri che la separano dalla cifra fatidica. Probabilmente anche la bella ragazza, in passato, è stata un quattromila e i trentun metri che mancano sono nascosto tra i milioni di tonnellate di sassi che fasciano la montagna, e la fasceranno sempre più con la fusione dei ghiacciai. Come tutte le montagne la Grivola si alza sulle proprie rovine, e come tutte le cose di questo mondo, ghiacciai e rocce comprese, la cima ardua e bella di carducciana memoria non è altro che un momento di storia, la fotografia di un istante geologico, che noi possiamo ammirare dal basso e perfino metterci i piedi sopra. Al poeta bastano le parole.