Della cabane de Tracuit ho un ricordo pieno di sole, ma quel ricordo non esiste più. Adesso la capanna ai piedi della cresta nord del Weisshorn è un rifugio di modernissima fattura, un grande parallelepipedo argentato progettato dallo studio elvetico Savioz Fabrizzi. Non ha niente del rustico dei vecchi rifugi e ha molto del minimalismo dei nuovi, che cercano di aderire e resistere all’ambiente con le soluzioni tecnologiche più avanzate e con le forme più lineari ed essenziali, come essenziali sono i profili rocciosi che li circondano. Dini, Gibello e Girodo, nel libro catalogo sugli “imperdibili delle Alpi”, osservano che «il nuovo volume si adatta alla topografia assorbendone le irregolarità e tentando una sintesi tra l’orizzontalità dell’adiacente ghiacciaio Turtmann e la verticalità delle pareti sottostanti, adagiandosi sul colle in un’ideale estensione della superficie rocciosa». Dietro le scelte progettuali ci sono anche e soprattutto ragioni di risparmio energetico, infatti la facciata sud del rifugio è un luminoso insieme di superfici vetrate e pannelli fotovoltaici e funziona come un grande collettore solare.
La storia della cabane è quasi centenaria. Il primo rifugio in pietra è del 1929, ampliato e migliorato nel 1938, nel 1962 e nel 1981. Nella seconda guerra mondiale è stato un presidio dell’esercito svizzero, nel 2013 è arrivata l’ultima trasformazione. Ma a parte l’architettura non è cambiato niente. Per salire al Col de Tracuit dalla valle di Zinal servono sempre quattro ore di cammino e ne vale assolutamente la pena, perché è una magnifica escursione tra pascoli, fiori e morene, in un ambiente dolce e progressivo, che alla fine, ma solo alla fine, permette di affacciarsi su un importante ghiacciaio del Vallese sfiorando l’alta montagna senza angosce né pericoli. Il paesaggio è dominato dalla piramide del Weisshorn, il corno bianco, uno dei più straordinari quattromila delle Alpi, scalato il 19 agosto 1861 dal fisico irlandese John Tyndall con le guide Bennen e Wenger. Il Weisshorn ha tre gigantesche pareti e tre lunghissime creste: precipita su Randa con la cresta est, si unisce allo Schalihorn con la cresta sud ovest e raggiunge il Bishorn con la cresta nord, la più difficile, scavalcando il Gran Gendarme. Per scalarlo da nord si parte dalla cabane de Tracuit ed è una bella avventura ancora oggi.
Salendo alla capanna non si può evitare di pensare a Georg Winkler, l’enfant prodige dell’arrampicata di fine Ottocento, che precipitò e scomparve sul Weisshorn tentando in solitaria la parete ovest: proprio quella che si ammira salendo al rifugio. Dopo i successi dolomitici, nel 1888 Winkler è attratto dalle Alpi occidentali, sogna le pareti di misto ed è affascinato dalle recenti imprese solitarie del professor Eugen Guido Lammer sullo Zinalrothorn e sul Weisshorn. Li raggiunge, li corteggia, si fa sedurre ma sceglie una cattiva estate, come annota lo stesso professore: «Il 1888 è stato un anno pessimo per il tempo, la qual cosa triplicò la difficoltà di ogni salita; proprio per questo la scalata compiuta da Winkler sul Rothorn di Zinal dal ghiacciaio del Mountet è in assoluto una delle più pericolose imprese alpinistiche che siano mai state portate a termine». Eppure Winkler non è contento perché gli manca il Weisshorn, che da lontano sembra un vascello bianco che veleggia nel cielo del Vallese. Si avvicina da Zinal per pascoli e morene, poi il breve ghiacciaio e, d’improvviso, la parete senza fine. Passa l’ultima notte al dolce alpeggio dell’Arpitetta, un mare d’erba in cui pascolano le vacche e su cui la massa chiara del Weisshorn incombe anche nel buio. Il 16 agosto parte prima dell’alba, affronta la muraglia e sparisce. Di lui resta solo la firma all’Hotel Durand di Zinal, dove si qualifica come “studente in medicina”. Il ghiacciaio restituirà il corpo nell’estate del 1956, a sessantotto anni dalla tragedia.
Per i valligiani era scontato che i ghiacciai inghiottissero le persone. Molto tempo prima che arrivassero gli alpinisti nel Vallese circolavano inquietanti leggende sulle anime in pena:
«C’era una volta sul bordo di un ghiacciaio un uomo che andava senza sapere da dove venisse, né come, né perché. Vedendolo, un signore straniero che passava di là gli domandò:
“Che cosa fai quassù?”
L’uomo rispose:
“Ebbene, sono un’anima in pena.”
Allora il signore disse:
“Ma come?, come posso fare per liberarti, come posso aiutarti?”
Rispose:
“Ascolta. Raccogli nella foresta un seme di pino cembro e poi sotterralo. Bisogna che il seme cresca e diventi un pino, un grande albero, poi che lo si tagli e se ne facciano assi per una culla. Quando il primo neonato prenderà posto in quella culla fatta con legno d’arolla io sarò libero.”
Detto questo sparì per un momento, forse mille o diecimila anni, errando in solitudine al bordo del ghiacciaio, senza saper che fare. Probabilmente sta errando ancora».
Certo non pensa a queste cose chi d’estate affolla le nevi del Bishorn, uno dei quattromila più facili delle Alpi. In realtà non è altro che la spalla del Weisshorn, ma per i collezionisti di quattromila, moderno feticismo d’alta quota, è comunque una montagna che “vale”, e vale eccome, a giudicare dalla profonda traccia che sale e segna il ghiacciaio, punteggiata di alpinisti nei giorni di bel tempo. La facilità del Bishorn fa la fortuna della cabane de Tracuit e ne segna l’ambivalenza, perché accanto alle cento cordate che si fermano sulla cima domestica ce n’è una, due al massimo, che molte ore prima si è avventurata oltre le colonne d’Ercole per affrontare il Gran Gendarme e scalare il Weisshorn da nord. Anche alla cabane de Tracuit convivono gli alpinisti seri, per così dire, e gli escursionisti dei ghiacciai, oltre a chi la neve non la tocca per niente e si accontenta di camminare fino al rifugio. E magari di dormirci senza aspirare ad altro.
La liturgia della sveglia distingue gli ospiti dei rifugi che servono itinerari di diverso impegno: il rifugio Torino sul Colle del Gigante, il Vittorio Emanuele al Gran Paradiso, il Sasc Furä al Pizzo Badile, il Coldai e il Tissi al Monte Civetta, e naturalmente anche il Tracuit al Bishorn e al Weisshorn. Li distingui la sera precedente, durante la cena e i preparativi per l’ascensione. Un occhio allenato sa individuare le ambizioni di una cordata dagli atteggiamenti della vigilia, dall’attrezzatura che porta negli zaini, dal modo di parlare e di fare. L’alpinismo è un’attività classista: i bravi sono diversi dai mediocri, e non lo nascondono. Poi è la notte a fare la differenza, come sempre. Tra la mezzanotte e l’una si svegliano i primi pretendenti, che affrontano le vie di ghiaccio e i seracchi con la complicità del gelo. Tra le due e le tre partono le cordate dirette ai lunghi itinerari di alta quota, che vogliono togliersi un po’ di cammino con le lampade frontali per essere già alte al sorgere dell’alba. Molto più tardi partono gli escursionisti che non hanno fretta. Qualcuno non parte affatto e resta a dormire finché il sole non bacia le persiane.
Come una coppia di fatto, la cordata ha le sue parole, i suoi codici e i suoi segreti. Anche le sue manie. Si parla sottovoce per non svegliare chi dorme, amplificando congetture e misteri. Ogni sveglia è un sogno che diventa azione, e ogni partenza è un mistero che si allontana nel buio. Nell’ora incerta della notte gli alpinisti percepiscono il rischio e l’incertezza, ma tengono duro: l’esperienza dice che l’alba scaccerà i cattivi pensieri. E allora si ribaltano i ruoli. Il sollievo che baciava gli ultimi quando la campana non suonava per loro si trasforma in invidia per chi è già passato dalla preoccupazione all’azione, e sta correndo verso un desiderio e una meta. Quando li hai sentiti partire non riesci mai a riaddormentarti perché te li immagini alti e forti, che scalano una montagna meravigliosa, la più bella di tutte le montagne: la montagna degli altri.
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