Se il nostro sguardo alpinocentrico ci fa considerare come “altri monti” tutti quelli che Alpi non sono, sarebbe doveroso e giusto individuare dei caratteri specifici per la fotografia di questi “altrove”, a partire dagli Appennini, che da sempre soffrono di una condizione ancillare rispetto al blasonato arco alpino, fino ai continenti più lontani e a quell’ultima Thule che corrisponde ai ghiacci mitici di Artide e Antartide. E invece, scorrendo le immagini di quei mondi e di quei monti geograficamente e culturalmente separati dalle Alpi, ma pur sempre protesi visive delle Alpi stesse, ci accorgiamo che gli sguardi fotografici si discostano appena, quando non si diversificano affatto, dal “modello” originario, perché non sono i luoghi a determinare scelta e composizione delle immagini, ma gli occhi dei fotografi. Ne consegue che un Vittorio Sella o un Walter Bonatti ritraggono le montagne extraeuropee con lo stesso sguardo con cui guardano e fotografano le Alpi, così come i primi tentativi etnografici di documentare delle forme di società montanare in Caucaso o in Albania, poco si allontanano dagli stessi tentativi già sperimentati sulle Alpi.
Se liberiamo la mente dai retropensieri di carattere economico e sociale che, quelli sì, distinguono la Svizzera o la Valle d’Aosta dai vulcani del Sud Italia o da altri massicci dimenticati, notiamo che gli orgogliosi tentativi di spingere un vagone ferroviario sulla cima del Vesuvio, o di gettare ponti tra i dirupi degli Appennini, equivalgono agli sforzi ingegneristici impiegati nel domare i pendii della catena alpina, o nel traforarne le viscere, con l’identica fede nel progresso che avanza, spiana e addomestica. Ciò che distingue questo genere di fotografia applicato alle Alpi dallo stesso genere esteso agli altri monti sono la valenza promozionale e la ricaduta turistica, quasi sempre presenti nella documentazione (pubblicitaria) alpina, quasi sempre assenti in quell’altra documentazione, dove il primo obiettivo è civilizzare e ingentilire una terra per chi la abita e la subisce. Questione di priorità. Forse lo sguardo si rovescia quando l’obiettivo di un Marubi immortala i poveri ma fieri abitanti dei monti albanesi, che evidentemente messi in posa dalle esigenze del fotografo, esprimono un orgoglio e un’alterezza di solito assai più sfumati nella fotografia etnografica alpina novecentesca, dove i contadini e le donne in costume cercano tradizionalmente di sedurre il viaggiatore per trattenerlo nella propria valle. Ancora una questione di precedenza. E se le escursioni sui Tatra ricordano né più né meno una gita nelle Alpi Marittime, perché anche lontano dalle Alpi ci si può rilassare e divertire, e gli sguardi naturalistici di Vilém Heckel trasmettono la prepotente emozione dell’alta montagna al pari di un Ansel Adams, è con le immagini dell’Unione Sovietica imprigionata dal gelo che ci allontaniamo dallo stereotipo occidentale. Non c’è più spazio né per la poesia né per la speranza in quei pontili e in quelle navi immortalate nel sudario di ghiaccio, ma solo la fredda riproduzione di un momento, quasi un’esecuzione.
Il Nord Europa è un mondo dove comanda l’undestatement, anche in fotografia. Se è vero che gli sguardi romantici proiettati sulle isole Svalbard o sul mare islandese sovrastato da misere croci, restituiscono il senso delle terre desolate e remote, illuminate solo dalle luci di una natura estrema, sui fiordi norvegesi già si affacciano austeri i primi alberghi di fine Ottocento, simbolo di un mondo destinato non tanto a vivere per sé, quanto per i suoi visitatori. E qui le Alpi si riavvicinano.
Poi ecco il continente asiatico con le montagne più alte del mondo e le massicce spedizioni alpinistiche di inizio e metà Novecento, dove lastre e pellicole si misurano con le temperature e le difficoltà ambientali dei sei, sette, ottomila metri. Tra tutte spiccano le fotografie di Sella e Piacenza, magnifiche rappresentazioni dei paesaggi del Ladak e del Karakorum corrispondenti a riproduzioni in grande scala dei paesaggi glaciali alpini, là dove tutto è più grande, smisurato, incommensurabile, e nel caso del Ladak anche popolato da arti e bellezze ineguagliabili. Con Mario Fantin emergono urgenze di documentazione, sia sulle amate sabbie sahariane (Africa) sia durante la famosa spedizione italiana al K2, che fu alpinismo, nazionalismo e propaganda insieme, mentre Fosco Maraini sa unire il dettaglio antroplogico dei volti e delle cose con la poesia dell’ambiente, ricreando un mondo che porta l’oriente nell’anima. Il suo Giappone è insieme documento, lettura e interpretazione, anche lirica, dell’“altrove” per eccellenza, almeno per uno sguardo occidentale, dove il “bello” risulta sempre un bello diverso, così come i sorrisi, le luci, i colori. Ed è significativo che lo stesso Giappone fotografato dai giapponesi si spogli di ogni dettaglio umano per restituire alla natura il solo messaggio e l’unica espressione possibile.
Con il Monte Kenya e le prime immagini africane, ci avviciniamo a un’altra priorità possibile per il fotografo e la sua missione: esplorare, conoscere, solidarizzare, evangelizzare. Che lo faccia con il laico trasporto del Duca degli Abruzzi alle sorgenti dell’Uabi-Uebi Scebeli, o con il religioso zelo dei padri missionari sulla vetta e sulle pendici del Kenya, siamo comunque lontani dall’approccio conquistatore e individualista degli alpinisti, che ha molto condizionato la fotografia di montagna senza tuttavia escludere altre visioni. Talvolta la passione del viaggio è sublimata dall’incontro con la gente del posto, povera ma vera. Lo dimostra il più grande esploratore-missionario mai esistito, padre Alberto Maria De Agostini, che si fa ritrarre con i suoi indios a Punta Arenas sulle tracce di don Bosco e dei primi salesiani in Sudamerica, per poi perdersi tutto solo nelle lande patagoniche, a fotografare gli sconfinati orizzonti delle Torri del Paine e dei ghiacciai argentini, sovrapponendosi inconsapevilmente agli sguardi dei fotografi cileni e anticipando le inquadrature di Bonatti, molti anni dopo, tra i rami di alberi pietrificati.
Lo scarto Alpi-non Alpi si riduce quando la divulgazione nel nome della wilderness ci presenta la natura selvaggia (ma anche controllata) dei parchi americani, con piccoli uomini sullo sfondo di grandi montagne, o quando un altro treno, quello di Mount Washington, affronta le pendenze della cima da conquistare, o ancora quando l’obiettivo aereo di Bradford Washburn fissa i crocevia di ghiaccio dell’Alaska, come arterie di sangue congelato, per ampliarsi inesorabilmente nelle lande gelate di Artide e Antartide, dove non ci sono pareti da scalare, ma mari, navi, slitte, cani, cieli, aerostati, aeroplani, orizzonti senza vetta. Qui la fotografia diventa la registrazione artistica e patetica di un’epopea, sia nella ricostruzione per lo schermo di Richard E. Bird “Seul devant la mort!”, sia nelle incredibili immagini dei fotografi polari, da Cook a Colbeck allo stesso Luigi di Savoia, sia nell’ennesima fedele documentazione di Mario Fantin sui ghiacci groenlandesi.
Ogni fotografo è prima avventuriero che artista, e ogni avventura polare sembra rispondere a una sceneggiatura fotografica o cinematografica, con esploratori-attori, marinai-comparse, natura-protagonista, vascelli fantasma e vittime sacrificali. Ogni soggetto, ogni partitura, ogni scena appaiono come l’incubazione di un dramma, oscurando la documentazione, la tecnica, perfino le ragioni del viaggio. In questo senso siamo lontani anni luce dalle vecchie Alpi, dove forse solo la guerra Bianca combattuta dallo Stelvio alle Dolomiti (1915-17) ha saputo condensare ed esprimere altrettanta forza attraverso le (rare) immagini sopravvissute fino a noi, tragiche, nude, definitive.
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