L’attuale fotografia delle Alpi è spesso paradossale: valli fortemente spopolate e povere di servizi accanto a valli iperpopolate per due o tre mesi l’anno (il cuore dell’estate, Natale, le settimane bianche invernali) e iperstrutturate, con condomini e alberghi di tipo urbano, parcheggi, cinema, boutiques, ristoranti e locali notturni. Un mondo irreale in cui aleggiano i fantasmi del “come eravamo”, nei nomi dei bar o di qualche ritrovo alla moda, nelle antiche stampe che sbiadiscono alle pareti, nelle facce abbronzate e smarrite dei nuovi montanari sospesi tra una civiltà e l’altra, tra un passato perduto e un futuro incerto. In una recente pubblicazione che ha fatto discutere, l’antropologo Annibale Salsa parla eslpicitamente di “tramonto delle identità alpine tradizionali”, intendendo che bisogna cominciare a pensare alle Alpi come a un mondo in trasformazione, non un relitto del passato.
Dietro le complesse dinamiche politiche ed economiche che negli ultimi due secoli dello scorso millennio hanno determinato la crisi dell’economia alpina e la fine di una civiltà sopravvissuta – almeno nei suoi caratteri fondanti – per circa cinquemila anni, c’è un attore invisibile e formidabile: il modello consumistico urbano.
Il processo di colonizzazione della montagna non si è manifestato tanto nel rapporto geografico tra una città che penetrava con i suoi tentacoli nelle valli alpine e una montagna che veniva invasa di prime e seconde case, quanto, e soprattutto, in una cultura egemone che spianava una cultura minoritaria, annullandone i tempi, i riti, i miti, i tabù, le dinamiche sociali, e imponendo dall’esterno un modello estraneo alla tradizione locale. Oggi le Alpi sono un pezzo del mondo globale, profondamente inserito nel cuore della vecchia Europa. Le distanze tra montagna e città si sono ridotte drasticamente, e i bambini di Cervinia o Madonna di Campiglio crescono con gli stessi riferimenti culturali dei coetanei di Torino o Venezia.
Eppure le Alpi, oggi più che mai, sono uno straordinario laboratorio per l’Europa e il mondo intero in virtù di due qualità rare e preziose: la specificità e la complessità.
Non c’è dubbio che le Alpi siano un territorio dotato di una spiccata specificità: un arco di milleduecento chilometri di montagne che sfiorano la soglia dei cinquemila metri (Monte Bianco); un nastro di valli, creste e altipiani inseriti nel cuore del vecchio continente; un serbatoio di foreste, prati, acque e ghiacciai a poche centinaia (talvolta decine) di chilometri dalle grandi metropoli; una sorta di “cintura verde” europea fittamente popolata e fortemente trasformata dalla mano dell’uomo, ma anche caratterizzata da vastissimi spazi naturali e da residue isole di wilderness.
Un territorio già di per sé così diverso dal resto dell’Europa presenta a sua volta una straordinaria articolazione interna. Storicamente le Alpi sono sempre state un crogiolo di popoli e di culture: ogni nuova immigrazione ha portato con sé specifiche forme di produzione e diverse tecniche di adattamento alla natura alpina. Queste differenze sono ben visibili ancora adesso, in particolare nella distinzione economica e culturale tra la regione alpina di tradizione romana e quella di lingua tedesca, e vanno arricchendosi con l’ingresso di nuovi “montanari” provenienti da lontano: Marocco, Albania, Ex Jugoslavia, Est Europa.
Essendo il territorio montano più industrializzato e antropizzato del mondo, le Alpi pongono una sfida per il Pianeta, ma anche un’opportunità. In queste regioni, infatti, si concentrano quasi tutti i grandi problemi mondiali, dall’eccesso di sviluppo all’inquinamento ambientale, dall’estinzione delle specie all’impoverimento culturale e alla gestione irrazionale delle risorse. Le Alpi sono il primo termometro dei mutamenti climatici e costituiscono terreno privilegiato per sperimentare le fonti di energia rinnovabile (sole, acqua, biomasse).
Un laboratorio qualificato
La catena alpina Alpi è il più qualificato laboratorio in cui sperimentare uno sviluppo alternativo non perché rappresenti un’isola incontaminata, conservando quell’alterità del puro sull’impuro e dell’alto sul basso cara alla tradizione romantica, ma, al contrario, perché si trova a diretto contatto con i problemi e le contraddizioni della pianura. Avrebbe poco senso parlare di laboratorio se le Alpi, come molte altre catene montuose del mondo, non avessero conosciuto l’industria, l’inquinamento, il turismo, l’urbanizzazione, il degrado ambientale, l’omologazione culturale, cioè tutte quelle situazioni potenzialmente degenerative dentro il cui dominio bisogna lavorare per costruire l’alternativa.
In questo senso la “diversità” non va considerata come una presa di distanza elettiva dal mondo viziato della pianura (salvo poi imitarne gli stessi vizi), bensì come la dimostrazione che si può vivere, lavorare e essere felici in quello stesso mondo (occidentale ed europeo), ma con uno stile diverso, più attento al risparmio, al rispetto e alla qualità.
Quale altra regione europea presenta una tale varietà di risposte naturali in uno spazio così ristretto? Se si sale da Aosta alla cima del Monte Bianco, o da Berna alla vetta della Jungfrau, o da Innsbruck alla cresta del Grossglockner, si incrociano in pochi chilometri quasi tutti gli ambienti presenti nel continente: la fascia dei boschi di faggio e di castagno, la zona delle conifere, poi la linea degli arbusti d’alta quota, il territorio dei pascoli, quello desertico delle morene e delle piante pioniere, la fascia dei ghiacciai (sempre più alta a causa del riscaldamento globale) e il culmine delle montagne.
Il luogo della biodiversità
Le Alpi sono il luogo della biodiversità. Con circa cinquemila specie spontanee di piante vascolari, ospitano da sole i tre settimi della flora europea. Nell’Europa centrale rimangono la sola regione che abbia conservato dei biotopi originali, come le trecentocinquanta specie di piante endemiche che crescono unicamente sull’arco alpino. Una banca genetica di eccezionale valore, un laboratorio naturale dove si sono sviluppati alcuni dei più notevoli casi di adattamento degli esseri viventi (vegetali e animali) ai limiti della vita, un rifugio di ecosistemi preziosi quanto fragili che giustifica ampiamente le misure di protezione che sono state messe in opera con la creazione di una rete di parchi nazionali e riserve naturali.
Il recente ritorno dei grandi mammiferi (il lupo, la lince e l’orso) pone nuovi problemi di convivenza tra attività umane ed esigenze predatorie, ma rappresenta anche una sfida affascinante per un territorio antropizzato.
Al mosaico naturale si sovrappone quello etnografico, che disegna i caratteri, le tradizioni e le lingue dei popoli delle Alpi: una lunga storia di convivenza nella diversità. Oggi la sfida consiste nel restituire all’arco alpino la sua potenziale funzione di cerniera tra opposti versanti, la capacità di comunicare oltre le frontiere artificiali degli stati e la volontà di proteggere le minoranze dall’invasione della cultura omologante, senza tuttavia isolarle dal contesto europeo. La regione alpina è un laboratorio antropologico in cui si possono confrontare pacificamente lingue e popoli che, al cospetto di un omogeneo sistema di bisogni, sono chiamati a elaborare risposte culturali unitarie.
Locale e globale
Per riflettere sulle relazioni tra montagna e città, dunque tra sguardi interni e sguardi esterni alle Alpi, che è poi la questione delle questioni in un mondo – il nostro – sempre più ferito dai conflitti tra “locale” e “globale”, occorre affrontare un salto di prospettiva culturale. Non valgono più i vecchi concetti di cultura “alpina” e cultura “urbana”. Bisogna spostare il punto di vista.
Il geografo Eugenio Turri, recentemente scomparso, ha scritto:
“Difendere la valle, la sua identità oggi si può non tanto chiudendosi in una Heimat senza speranza, ma coltivando le passioni locali e nel contempo dialogando con l’esterno, quindi con la megalopoli. Come dire che ci vuole una duplice cultura, unica condizione per vivere o sopravvivere nel difficile mondo della complessità che ci assedia”.
Dunque una sola cultura non basta più, e in tal senso va analizzata la complessa e difficile relazione tra cultura interna e cultura esterna, che viene spesso declinata come uno scontro-incontro fra tradizione e turismo, ma in realtà non è altro che l’incontro-scontro tra locale e globale, interno alpino ed esterno metropolitano.
Con grande lungimiranza l’abbé Gorret scriveva nell’Ottocento:
“Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo rimarrebbe assai contrariato se vi ritrovasse la città che ha appena lasciato”.
Gorret ragionava ancora nei termini dei “due mondi” contrapposti – città e montagna –, ma aveva capito perfettamente che, non foss’altro che per ragioni economiche, non si può proporre al turista una “copia” (bella o brutta che sia) del suo stesso mondo, cioè della città.
Ma anche la visione opposta, di un mondo “vergine” e “incontaminato”, porta in sé un’insanabile contraddizione, come avrebbero osservato molti anni dopo gli studiosi dei flussi turistici diretti verso i paradisi esotici del pianeta. Perché il turismo “mangia” se stesso, nel senso che consuma e distrugge ciò che cerca: l’ambiente culturale e naturale.
Montanari e cittadini
In questa prospettiva critica vanno riconsiderati i rapporti tra montagna e città, dunque tra “montanari” (vecchi e nuovi) e “cittadini” di ogni specie. Non nei termini di un incontro tra passato e presente, o fra tradizione e innovazione, ma in quelli (molto diversi) di un mondo fragile ed eccezionale che incontra un mondo (apparentemente) più solido e sicuro di sé, ma che proprio in funzione delle sue fragilità può indicare alla pianura il senso del limite, il valore del tempo, un diverso modo di intendere lo “sviluppo”, meno schiavo del consumo e più interessato all’innovazione e alla sperimentazione.
Vivere sulle Alpi nel terzo millennio sarà anche una questione estetica e una scelta di stile.
Werner Bätzing scrive a conclusione del suo lavoro sulle Alpi:
“Per la stabilizzazione ecologica dei paesaggi culturali divenuti instabili e per la conservazione delle Alpi come spazio economico non è sufficiente elaborare programmi settoriali… C’è bisogno di un modo di fare economia che riconosca una grande importanza alla produzione ecologica, e di una cultura che consideri socialmente ragionevole questa forma economica e sviluppi una comune responsabilità. Senza un cambiamento fondamentale non si può realizzare uno sviluppo sostenibile. Ma con altrettanta chiarezza le Alpi ci fannno capire che senza un simile cambiamento il nostro sistema economico e sociale non ha futuro e distrugge per sempre le proprie basi materiali e immateriali.
Questi nessi vengono oggi ripresi e discussi in molte località d’Europa. In questo dibattito le Alpi potrebbero però assumere un ruolo di “battistrada”: poiché in passato, proprio prendendo a modello le Alpi, l’Europa ha sviluppato la propria concezione della natura e dell’ambiente con immagini particolarmente dense, intense e impressionanti; sempre facendo riferimento alle Alpi si potrebbero discutere con particolare vigore anche le questioni di fondo dello sviluppo sostenibile… In tal modo le Alpi potrebbero diventare le antesignane di uno sviluppo sostenibile in Europa”.
Sempre per usare le parole di Bätzing, le Alpi si porranno come “una regione unica al centro dell’Europa”, se sapranno superare il vecchio limite dei confini nazionali. Ma anche un altro significato di “confine” è ormai superato dai fatti, ed è quel limite invisibile che separa la montagna dalla pianura, o la cosiddetta “cultura alpina” dalla cultura urbana.