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Vertigine


Che sarà mai, nel fondo del fondo, questo amato alpinismo, se non l’ingenuo tentativo di colmare quel vuoto immenso che sovrasta e stordisce l’umanità? In fondo, nel fondo del fondo, forse non restano che questa struggente nostalgia di pienezza e l’illusione di arrampicarsi sopra i pilastri del vuoto nel vano desiderio di riempirlo. E se questo è l’alpinismo, la vertigine dev’essere la sua concubina: la dolce compagna che seduce i viaggiatori, l’amante diabolica che flirta con i poeti, la fata che consola i guerriglieri del vuoto o la strega malvagia che spalanca le porte dell’abisso.
Non siamo uccelli è evidente: perfino un pollo si alza nell’aria con più eleganza di un alpinista. Eppure in certi giorni di fuggevole grazia, abbagliati dal cielo e ubriachi di passione, siamo saltati sulle remiganti della maga vertigine che sa far volare gli esseri pesanti con la grazia del falco.
Non siamo uccelli, ma una volta – almeno una volta nella vita – abbiamo riso in faccia al vuoto, e quella fata vertigine colma di ebbrezza ci ha librati nell’ariacome spiriti senza peso, bambini senza peccato, piedi nudi di fanciulle su alberi in fiore.
Vorrei dirlo agli adoratori di Newton e Cartesio: di quell’irragionevole incanto che scivola nella pelle, di quelle braccia sottili che abbracciano il nulla, di quel mare pieno di vuoto dove galleggiano gli dei, e di quella fatica estenuante che non stanca mai. Vorrei dirglielo, ma non sarei sincero. Non del tutto, almeno. Perché molto prima della vertigine buona, prima delle ali del falco e del sorriso del cielo, ho conosciuto l’umiliazione della vertigine maligna che ha osato mettersi in mezzo ai miei desideri.
Correva l’anno della rivoluzione 1968 e il mondo si muoveva veloce. Il maggio era passato da due mesi sui miei sogni di ragazzino già irreparabilmente perduto dietro le montagne, a Valtournenche fiorivano le margherite e il Grand Tournalin si era scrollato di dosso la neve dell’inverno. Solo quello mi importava: salire sulla cima più alta che divide le valli del Marmore e dell’Evançon, là dove Edward Whymper aveva scoperto il più bel panorama delle Alpi:
“A ogni persona che abbia un giorno a disposizione in Valtournenche raccomando caldamente la scalata del Tournalin. Consiglio l’ascesa della montagna non tanto per l’altezza o le particolarità tecniche della scalata, bensì per l’ampio e splendido panorama che si gode dalla cima. Da questa posizione privilegiata si dominano tutte le principali vette delle Alpi Cozie, delle Graie, delle Pennine, del Delfinato e dell’Oberland. La scena racchiude al massimo grado di perfezione tutti quegli elementi pittoreschi che non sempre sono presenti, nemmeno nei panorami dalle cime più alte”.
Grazie a questa straordinaria pubblicità, verso la fine del secolo fu costruito sulla vetta un piccolo rifugio di pietra per catturare l’ultimo sole sul Cervino (“verso il tramonto l’equilibrio atmosferico si ristabilisce e le nuvole svaniscono”), e le dame imbellettate dell’Ottocento salivano a dorso di mulo su un tappeto di rocce grigioverdi e intonavano all’unisono con il grande Whymper: «Beautiful alpine world!».
Mio padre, paziente, si accollò l’onere di accompagnarmi (non c’era ancora la strada di Cheneil,: si partiva a piedi dalla valle) e attraversammo il bosco di Promindo alle luci dell’alba, tra suoni misteriosi e carichi di presagi.
«Carrel mi guidò sui prati a sud e a est dell’altura dove si trova il villaggio di Valtournanche, poi lungo un sentiero a zig zag in una ripida e vasta foresta. Egli tagliava spesso il sentiero, mostrando così una perfetta conoscenza della zona. Usciti dall’ombra del bosco ci dirigemmo verso una di quelle vallette nascoste così numerose in Valtournanche, chiamata Combe de Cheneil. Il Tournalin è situato proprio alla testa della valle».
Raggiunti i pascoli di Cheneil, ci riempimmo i polmoni con l’aria leggera del mattino e trottai come un camoscio sulle mie gambette tornite quanto due stuzzicadenti lungo la regale mulattiera che risale a semicerchio la conca; bevemmo alla fonte sopra il grande balzo della Trecare, superammo la morena del vecchio ghiacciaio e ci infilammo nel solitario vallone del Tournalin, dove i primi fiori occhieggiavano a pochi passi dall’ultima neve. L’aria era fresca e il cielo azzurro. Giornata perfetta per un battesimo.
«Passato Cheneil, il Tournalin comincia a mostrarsi svettante su una serie di muraglie che gli fanno corona e sono solcate da numerose e bellissime cascate. Per evitare queste pareti di roccia il sentiero piega verso sud, tenendosi sul lato sinistro (orografico) della valle; 1000 metri circa a monte di Valtournanche, e 450 metri sopra Cheneil, si incontrano le prime morene, di grandezza notevole se confrontate con i ghiacciai che le hanno formate. Lì termina il sentiero e la via si fa più ripida».
Toccammo il colle e finalmente cominciammo ad arrampicarci sulla montagna. La cresta, nella prima parte, era stata addomesticata da giganteschi scalini di pietra e il vuoto della parete est si intuiva appena dietro una balaustra di roccia. A ovest potevo seguire con lo sguardo il percorso del sentiero, disegnato sui pascoli e sulla pietraia. Si saliva in fretta e senza fatica. «Poco più di una passeggiata» recitava su per giù la fidata guida del Cavazzani, e il monte pareva darle ragione.
«Sul colle ci stavamo riposando un poco, quando un branco di camosci arrivò improvvisamente sulla cima della montagna dal lato nord: alcuni, a giudicare dalla posizione statuaria, sembravano apprezzare il grandioso panorama; altri si divertivano a far rotolare le pietre giù dai burroni. Fu proprio il rumore delle rocce precipitanti che ci fece alzare lo sguardo: erano innumerevoli, tutti stretti sulla vetta, ignari della nostra presenza. Il mio compagno salutò l’apparizione con forti grida. Come se una bomba fosse scoppiata in mezzo al branco, cominciarono a correre in ogni direzione in preda al panico, senza mai sbagliare l’appoggio, con tale grazia e velocità da riempirci d’ammirazione».
Dalla Val d’Ayas emersero batuffoli di nebbia sollevati dalle correnti ascensionali. Fluttuavano nell’aria calda del mattino come fantasmi dalle mutevoli sembianze, si sfilacciavano e ricomponevano immediatamente sotto diversa forma. I gracchi giocavano a cavalcarli in volo stazionario, senza battito d’ali. Poi li infilzavano in picchiata, scomparendo nel nulla.
«La cresta tra il colle e la vetta era eccezionalmente facile, sebbene rotta in più punti dal gelo.; Carrel pensava che non sarebbe stato difficile tracciare una mulattiera su quei blocchi sconnessi».
Fu così, associando l’ansia latente a quelle immagini vertiginose di gracchi ondeggianti, che cominciai a fiutare il fetore del vuoto. La perfida fattucchiera degli abissi si impadronì del mio respiro, spinse il mio cuore a mille e irradiò un fremito inconsulto dalle spalle fino alla punta dei piedi.
Terrore, impotenza, panico assoluto.
Mentre le mani si aggrappavano goffamente ad appigli grandi come paracarri e le gambe di papà diventavano ancore per le mie braccia tremanti e imploranti, il Grand Tournalin, la dolce conca di Cheneil e perfino la lontana Becca di Cian, vorticavano con gli spiriti del luogo in un sabba sfrenato e mi risucchiavano le gorgo con loro.
A circa metà cresta, un intaglio detto mauvais pas obbligava le signore dell’Ottocento a scendere dal mulo e a procedere a piedi con l’aiuto delle guide e dei portatori.
«Donnette rammollite, madame con la gonna lunga e il fiato corto», ripetevo tra me e me per farmi coraggio.
Il “cattivo passo” è una facile placca rocciosa di circa dieci metri, che la natura ha modellato con ottimi appoggi per i piedi: un passaggio da fare di corsa e con le mani in tasca, se solo la cresta non si inabissasse in quell’oscuro canale senza fondo…
«A un tratto ci accorgemmo dell’esistenza di una spaccatura che non avevamo notato e che ci tagliava l’accesso al punto culminante: scendeva verso sud quasi a strapiombo per 7-8 metri: Carrel mi calò con la corda, poi discese egli stesso appoggiandosi prima sulla mia piccozza e poi sulle mie spalle; l’agilità di Carrel stava ai miei goffi tentativi come i movimenti dei camosci ai suoi».
Ma noi la corda non l’avevamo ed ero nudo e impotente nel mondo dei naufraghi, orrendamente spaventato e oscenamente attratto dall’abisso.
«Ricche signore con cappello e crinolina», citavo a memoria dal libro di storia per spronare il mio orgoglio avvilito.
Ma la strega vertigine mi aveva già afferrato le caviglie per trascinarmi con sé nell’antro smisurato. Il gioco si faceva duro.
Ai piedi del mauvais pas vacillai ubriaco di paura e di rabbia. Infine mi accucciai sotto una roccia, chiusi gli occhi per non vedere e abbandonai i residui sogni di gloria.
Vedendomi impaurito come un gattino sul cornicione, papà comprese che il mio terrore era perfino più grande dell’immensa voglia di salire sul Grand Tournalin, ed ebbe pietà di me. Mi prese per mano come un invalido e tornammo indietro.
«Pochi facili appoggi ci portarono infine alla cima, fino ad allora inviolata, e celebrammo l’avvenimento costruendo un’enorme piramide, visibile a chilometri e chilometri di distanza».
Lo seguii a testa bassa, con lo spirito del disertore, colpevole e vittima della mia presunzione. Scendendo con il groppo in gola, mi voltavo a guardare quella montagna placida e maliarda nel sole di mezzogiorno, quella cima perfetta e incurante del mio dramma, la vetta delle meraviglie di Edward Whymper:
«A sud, velata dai vapori che salgono dalla Valle d’Aosta, si distende la lunga linea delle Graie con le sue cime che superano i 3500 metri. Ma per quanto maestose nell’aspetto, non è su queste montagne che si posa lo sguardo, bensì sul Monviso, piccolo e lontano sullo sfondo. A ovest e verso nord, il gruppo del Monte Bianco e alcune tra le vette più imponenti delle Pennine centrali, il Grand Combin e la Dent Blanche, fanno da sfondo, ma sono sovrastate dalle grandiose creste che culminano nel Cervino. In direzione est e nord l’occhio non indugerà a lungo sui riposanti pendii erbosi della Val d’Ayas, né sui ghiacciai e sui nevai a monte, né sull’Oberland in lontananza, poiché gli si pareranno di fronte, quasi a portata di mano, nonostante la distanza di chilometri e chilometri, sbalzate nell’azzurro purissimo del cielo, le scintillanti creste del Monte Rosa».
Non mi perdonavo una rinuncia così vigliacca, a un passo dalla meta, senza neanche la forza per tirare fuori i denti e tentare un affondo. Ma ero vuoto anche dentro, come avvelenato. Avevo mangiato la mela rossa degli innamorati, e la strega vertigine gioiva per il suo sortilegio.
«Mai più!» giurai in lacrime sul sentiero ritrovato, tra praterie fiorite e scenari orizzontali, con la schiuma del torrente, le mucche al pascolo e tutto il resto. Eppure – suprema umiliazione – i miei occhi cercavano pace proprio in quel verde sdolcinato da Baci Perugina. «Mai più», mi vergognai trovando rifugio tra i tavoli della pensione Carrel. Anche la panna montata, quel pomeriggio, era amara come il fiele. Perfino il Cervino aveva perso i suoi colori.
Ma già la stessa sera, mentre salutavo mestamente la grande conca lasciandomi il vecchio sorbo alle spalle, il Tournalin era tornato a sorridermi come una sfinge bonaria, un vecchio amico distratto. Perché così vanno i diabolici piani di strega vertigine: a valle ti strazia il cuore con il canto della sirena, sulla montagna ti prende l’anima e poi ti butta nel vuoto.
La mia vita quel giorno è cambiata. Ero un piccolo Ulisse sotto il monte di Calipso: perdutamente attratto e completamente prigioniero. Di notte sognavo le cime e di giorno ne fuggivo. Uno strazio senza rimedio.
Eppure mi sentivo nato per la montagna. Scalavo ogni roccia emergente nel mezzo dei prati, correvo come un furetto sui ghiaioni, scivolavo a razzo sui nevai, saltavo crepacci e torrenti in piena, mi dondolavo dalle piante della foresta, ma al primo scoscendimento a picco, al primo accenno di vuoto, il valzer delle anime pesanti si impadroniva di me in modo così prepotente e ossessivo che ancora oggi ricordo la sua musica, la sua lagna nauseante dal fondo degli abissi.
E ogni volta ritornavo sconfitto.
Poi vennero due incontri importanti: due incontri di pianura.
A Torino, attraversando il ponte di corso Regina Margherita, mi imbattei in un misterioso uomo di frontiera, un po’ barbone e un po’ profeta, che vedendomi perso tra le nuvole volle intrattenersi con me.. Sporgendosi come un Siddharta di provincia sulle acque del Po mi chiese senza preamboli:
«Cosa farai quando sarai grande?
«Vorrei fare la guida» gli dissi «o almeno scalare le montagne…»
«Ma?»
«Non so, credo di non esserci portato.»
«Che vuoi dire! Dici cose senza senso!»
«Non so …» balbettai.
«Tu lo desideri?»
«Sì, più di ogni cosa.»
«Allora non dubitare: quella è la tua strada.»
Erano gli anni dell’utopia al potere, e ogni disgraziato si affrettava a insegnarti qualche cosa. Però il barbone lasciò il segno.
Il secondo incontro fu di natura letteraria. Il libro, o meglio il breviario, era Primo di cordata di Roger Frison-Roche. Mi ero innamorato dell’edizione tascabile Garzanti, quella con la guida alpina in copertina, impeccabile completo grigio e calzettoni chiari, che salta un crepaccio di roccia a braccia spalancate. Sullo sfondo il cielo blu. Riprendevo in mano il libro come una medicina, nelle settimane precedenti il tormento estivo, e mi andavo ad appollaiare in cima a un castagno nei boschi di Reaglie, sulla collina torinese. Il sole primaverile surriscaldava il mio sangue da adolescente e non ricordo di essermi mai più sentito così vivo come durante quelle fughe erotiche e solitarie, a tu per tu con gli eroi della montagna.
Il protagonista del romanzo era un certo Pietro Servettaz, bloccato dalle vertigini in seguito a una caduta. Ogni suo tentativo di recuperare la sicurezza perduta assomigliava alle mie patetiche prove sulla soglia del vuoto:
«Ma che aspetti? L’hai fatto venti volte questo passaggio! Basta un passo, ti sporgi in avanti, ti aggrappi all’orlo ed è fatta! Potresti saltare anche a occhi chiusi! Suvvia, va!»
Pietro si sporge, piega le ginocchia, prende lo slancio ma all’ultimo momento si blocca come se una forza occulta lo trattenesse. Tende le braccia senza decidersi a saltare, il cuore sale alle labbra e preso da ripugnanza si getta di nuovo sulla cornice. Steso a pancia in giù sulle pietre calde piange come un bambino…»
Il bello era che Pietro alla fine vinceva le vertigini e saliva da capocordata la parete nord dell’Aiguille Verte.
Anche mio padre lesse il libro e osservò con spirito razionalista:
«Vedi, è la dimostrazione che con la volontà si ottiene tutto.»
«Vuol dire che al desiderio non si comanda», precisai con tono romantico e contestatore.
«Al desiderio non si comanda», la penso ancora così. Ancora oggi che ho sperimentato le illusioni e i tranelli della vita, ora che tante altre cose mi sembrano prive di senso, so che è stata soltanto la passione a portarmi in cima al Tournalin e a un sacco di montagne molto più difficili e famose. E soprattutto più vertiginose. La passione è tutto ciò che ci resta dei giorni chiari dell’infanzia, degli amici perduti, delle carezze di Dio. Senza passione è vecchio anche un bambino di fronte all’universo.
Che cosa è successo precisamente? Come ho sconfitto il drago dentro di me? Non saprei dire, forse perché non è successo niente. Un giorno qualsiasi in un posto qualsiasi, che so?, una di quelle giornate opache e assonnate in cui il mondo sembra uno stagno immobile, su una cresta senza nome e senza storia, nel mezzo di uno dei miei ingloriosi e masochistici giochi, il vortice ha smesso inaspettatamente di vorticare, le sirene si sono zittite, l’aria s’è fatta leggera, calma, solidale, e poi si è trasformata in corrente ascensionale. Senza avere neanche il tempo di stupirmi, come i gracchi senza peso della Val d’Ayas sono salito sulla cima proibita tra le braccia di fata vertigine.
È stata una metamorfosi naturale, la crisalide che diventa farfalla e scopre di aver sempre saputo volare. Da quel giorno e da quel posto qualsiasi ho cominciato a fare il vuoto sotto di me, come lo scrittore fa il pieno sulle pagine bianche. Scalare è diventato il mio modo di farlo e riempirlo, quel vuoto, con un’azione simbolica che non lascia tracce e si può ripetere all’infinito.
Finché c’è stato desiderio ho flirtato con la vertigine da spasimante insaziabile, inebriandomi del vuoto come di un elisir d’amore, ma ogni volta che l’abitudine si è infiltrata nelle crepe della passione la parete ha ricominciato a girare come un tempo, al canto nauseabondo delle sirene.
Era fata vertigine che mi avvertiva: «Scendi adesso, è ora di tornare a valle».