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Nuove fonti possibili per la letteratura di montagna

Atti dell’incontro, Trento 30 aprile 1996

La letteratura di montagna non esiste. Esiste la letteratura degli alpinisti, che è espressione di nicchia, di chiesa, ed esiste la letteratura degli scrittori che qualche volta fanno uso della montagna come sfondo o come fonte ispiratrice.
Quasi sempre il rapporto è di natura autobiografica: Mario Rigoni Stern trae felice ispirazione dall’altopiano di Asiago, dove vive; Francesco Biamonti narra delle sue montagne, nell’entroterra ligure; Lalla Romano racconta dei monti del Cuneese, dove è nata, o di quelli di Cheneil dove è andata in villeggiatura. Ma ci sono anche rapporti di tipo squisitamente narrativo, come nel “Marco e Mattio” di Sebastiano Vassalli: l’autore ha scoperto una bella storia, e casualmente la sua storia era ambientata sulle Dolomiti di Zoldo.
Gli altri incontri, sempre casuali, risalgono al tempo di guerra. In questo secolo la Grande Guerra e la guerra di Resistenza hanno portato in montagna ottimi scrittori, pensiamo a Emilio Lussu e a Luigi Meneghello sull’Altopiano, e oggi le loro eccezionali testimonianze letterarie si levano come moniti sull’abusata retorica del genere bellico.
Così eccoci ancora una volta al nodo della questione: perché la montagna ha generato così poca letteratura? Perché non c’è stato un Conrad dei ghiacciai, o un Melville delle cime? Per me la risposta non può essere che questa: perché la montagna – un po’ caserma e un po’ sacrestia – si è sempre stretta tra il modello degli alpini e il modello degli alpinisti, e questa dipendenza l’ha protetta ma anche isolata e impoverita, impedendo la comunicazione e il confronto con il mondo di fuori. I significati che gli “addetti alla montagna” considerano ancora oggi come la loro cultura, i loro valori, spesso sono significati esclusivi che soltanto gli iniziati riescono a decifrare. Le bellezze e i tradimenti, gli amori e gli odi, gli eroi e i dannati della montagna, insomma tutto quel misterioso universo che potrebbe fare letteratura, è stato protetto per almeno un secolo da un codice segreto di cui la gente di fuori non aveva la chiave. Troppo a lungo si è pensato, si è parlato e si è scritto soltanto per i propri simili, in una sorta di regime confessionale.
Ora è legittimo chiedersi: cambierà qualcosa?
Cadranno finalmente le barriere e si comincerà a pensare e a scrivere di montagna senza pregiudizi?
Proviamo a guardare al domani. Le Alpi, si auspica da più parti, sono destinate a diventare il grande giardino d’Europa, il serbatoio di natura per le metropoli congestionate e inquinate. Forse un giorno felice i giardinieri delle Alpi cureranno le valli e i visitatori, si spera rispettosi e garbati, si godranno i silenzi della montagna. Ma non troveremo più gli stessi montanari e gli stessi cittadini di una volta, divisi da invisibili confini e da incolmabili differenze: perché città e montagna saranno sempre più vicine, gli stili di vita sempre più omogenei, le professioni sempre più mobili e flessibili. Più che nascere montanari, presto si deciderà di diventarlo.
Dunque dietro l’apparente conferma dei due scenari letterari classici – la vita sui monti e l’evasione dalle città, la cultura alpina e l’alpinismo -, dobbiamo abituarci a leggere delle prospettive nuove.
Mario Rigoni Stern, rispondendo su “Alp” (maggio 1996) alle domande di Piero Spirito, ha detto di recente: «Non sono uno scrittore di avanguardia ma di retroguardia; le montagne muoiono nel momento stesso in cui diventano luogo deputato al turismo, e allora io cerco di salvare quel poco che ancora sopravvive di una cultura antica e radicata». Questa è l’ottica di chi, condividendo e amando la cultura dei montanari, si oppone alla spoliazione consumistica e interpreta il proprio scrivere come un’opera di testimonianza e di recupero. E’ il nobile compito del letterato che si ribella alla colonizzazione urbana, allo svuotamento dei valori, alla devastazione antropologica del turismo e – come Pavese, come Pasolini – sottolinea le umane radici affondate nella terra: quando la terra aveva ancora un senso e un mistero.
Ma Rigoni dice anche «io cerco di salvare quel poco che ancora sopravvive», cosciente che la storia è contro di lui e che da certe trasformazioni è impossibile tornare indietro. Lo stesso, io credo, si potrebbe affermare per certi racconti alpinistici contemporanei, perché anche l’alpinismo è un’epopea che storicamente volge al termine e il ricalcare i moduli espressivi del passato non giova alla sua resurrezione. La letteratura degli alpinisti, che è in gran parte autobiografica, si è sostanzialmente esaurita con i travagli interiori degli anni settanta: poi il fervore dell’impegno atletico sembra aver soffocato la carica narrativa e il clamore degli exploit – amplificato dai media e dalla pubblicità – oggi ha perduto il suo potere evocatore.
Tutto finito, allora? Soltanto rimpianto e nostalgia?
Io credo, al contrario, che potremmo aspettarci delle belle sorprese. Spesso è necessario morire per nascere diversi.
Salomon Resnik ha scritto che «il fine del viaggio è quello di trovare un luogo, di immaginare uno spazio che permetta ai pensieri smarriti di ritrovarsi, di raggrupparsi, di avere un pensatore», e solitamente questo spazio lo si trova alla fine del cammino, quando si attenua l’ansia dell’avventura e viene il tempo della riflessione. Allora il viaggiatore si accorge che non gli bastano gli eventi vissuti – pur eccezionali – a dare un senso al suo viaggio e al suo racconto, ma occorre esplorare i riflessi psicologici, le paure, i misteri, i perché, e per far ciò bisogna allargare lo sguardo ed elevare a metafora l’ossessiva ripetitività dell’azione. Per questo gli attuali exploit alpinistici comunicano poco: perché possono anche essere imprese eccezionali, e spesso lo sono, ma dietro l’azione non si scorge alcun significato. L’azione sembra aver smarrito la sua ragion d’essere.
A volte, perdonatemi l’irriverenza, penso che chi scrive di montagna ricordi gli esegeti deputati a tramandare la vita dei Santi: il loro coinvolgimento etico e psicologico è talmente forte che ogni deviazione dalla via canonica appare come un azzardo iconoclasta. Così chi scrive di montagna, più missionario che testimone, più moralista che narratore, è sempre troppo preso dall’esaltazione e dalla salvaguardia della propria esperienza, così preso da scordarsi – semplicemente – di raccontarla.
E alla fine il problema sta proprio qui: non è detto che il protagonista sia la persona giusta per raccontare la propria storia. Può esserlo il protagonista involontario, l’inviato che viene calato provvisoriamente in una realtà che non è sua e dunque non fa in tempo a diventarne dipendente, ma un protagonista convinto, un “praticante” per conservare la metafora, non è la persona giusta. Troppo a lungo, nella narrazione delle cose di montagna, si è subordinata la competenza (o meglio l’appartenenza) alla qualità espressiva, sacrificando il risultato letterario al sospetto che “qualcuno di fuori” venisse a mettere il naso in casa d’altri.
Questo è il momento per cambiar registro. Se accettiamo da un autore “laico”, non coinvolto, o coinvolto solo artisticamente, la proposta di qualcosa di nuovo, la fine della storia potrebbe essere il suo momento: esaurita la fase dell’impegno, sciolta l’angoscia dei protagonisti per la corruttibilità del loro mondo, anche sui monti potrebbe infine dispiegarsi il libero territorio della fantasia.
Finché gli eventi bastano a se stessi in fondo la letteratura è superflua, o è solo letteratura di maniera; ma quando una storia finisce si sente davvero il bisogno di raccontarla. Pensiamo all’epopea del Far West: non l’hanno raccontata i cow boy e neppure i pellerossa, eppure – finita la storia – si è aperto il sipario della sua rappresentazione. E in parallelo pensiamo alla dura vicenda dei montanari, aggrappati per millenni sulla cima del mondo, oppure all’epopea nobile e folle degli alpinisti, che ancora oggi appartiene a pochi specialisti: se un altro regista come Fred Zinnemann provasse a osservarla dal “mondo di fuori”, se un libero pensatore infine la facesse sua…
In tal caso il passato non sarebbe più il tempo della nostalgia, ma diventerebbe terra fertile di scoperta creativa. E ancora una volta si confermerebbe la grande verità di Marcel Proust: «Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma semmai nell’avere occhi nuovi».