Pubblicazione

Introduzione


A un ragazzo può capitare di incontrare un uomo in grado di cambiare la sua vita. Un maestro, un capo, una stella polare. Se se ne accorge è un ragazzo fortunato, altrimenti è fregato per sempre.
Io Carrelino lo ricordo come fosse ieri. Avevo appoggiato i miei quattordici anni ai suoi settanta per violare il castello incantato delle signore: lo Château des Dames. Il vecchio e il bambino, e due altri amici in mezzo con gli anni. Lo sovrastavo in altezza di qualche centimetro e un po’ me ne vergognavo. Guardavo le montagne da sopra la sua coppola di lana. Attraversò il ghiaione di Vofrède con la grazia di un ermellino, senza smuovere un sasso, senza emettere un respiro. L’atmosfera sacra di una liturgia, mentre il sole accendeva la Becca di Cian e il Castelletto si animava di spiriti e re. Sul colle Carrelino cominciò a canticchiare in faccia al Cervino, felice come un pesce nel suo mare di cristallo. La pipa e il Cervino, non gli serviva altro nella vita. Si arrotolò le maniche della camicia, mi guardò con gli occhi piccoli da Charlot, impugnò la piccozza e mi nominò capocordata. Con tre parole disse vai, sei un uomo, la montagna ti aspetta. E ricominciò a cantare.
Qualche volta, in seguito, ho provato a raccontare Carrelino agli amici: il sole, il Cervino, la sua bandana da guerrigliero, la dolce cantilena valdostana. Non mi è mai riuscito, perché non si può raccontare la natura. Aveva ragione Guido Rey: «In molti punti le guide mi ricordano quegli antichi Indiani nomadi d’America, de’ quali, fanciullo, lessi avidamente le avventure ne’ romanzi di Fenimore Cooper e di Mayne Reid. Come quelli, esse paiono dotate talora di un senso supplementare, in noi da lungo tempo scomparso, di facoltà e di istinti di razze primitive e selvagge: il silenzio del passo, l’agilità del corpo che vince le leggi dell’equilibrio; l’acutezza della vista che scorge ai limiti estremi del vasto orizzonte montagne che a noi sembrano nubi, e le riconosce una per una; che sulla parete uniforme delle rocce lontane discopre un punto fuggente impercettibile: il camoscio; la facoltà di orientarsi fra le nebbie nella vasta landa di ghiaccio; l’istinto di ritrovare la via nell’oscurità della notte o nell’imperversare della tormenta che acceca, e di scoprire la via migliore su per un monte ignoto».
Carrelino era un meraviglioso insieme di gesti spontanei, apparentemente privi di intenzione. Lui non cercava l’appiglio, era l’appiglio che gli si offriva. Lui non combatteva con il temporale, aspettava semplicemente che la pioggia scivolasse lontano. In parete era un camoscio, sul ghiacciaio navigava da vecchio marinaio, si piegava al vento con l’erba dei pascoli e poi scendeva a valle con l’acqua delle cascate di Cheneil. Alla pensione diventava ospite serio e premuroso, palesando un mestiere mai imparato in nessuna scuola e un garbo ereditato da misteriosi geni montanari. Lalla Romano, parafrasando Cheneil con Pralève e Luigi Carrel con Emile Gorret, lo ha descritto così: «I modi di Emile erano di una cortesia da gran signore. Pensai che poteva averli appresi nella sua frequentazione di inglesi e di principi che aveva accompagnato nelle terre remote: Patagonia, Terra del Fuoco. Forse qualche sfumatura; ma la stoffa era sua. Parlava rado e lento, preciso, come certi medici famosi. C’era qualcosa di morbido, anche, di serpentino, di cauto, quale del resto era il suo muoversi silenzioso e leggero; così il suo strascicare le erre e quel tono interrogativo che in lui suonava, in definitiva, canzonatorio; e quella faccia di cuoio violaceo, un po’ grifagna, espressiva eppure astratta, impenetrabile come la maschera di un grande attore».
È vero: Carrelino è stato un attore, un magnifico attore. Ha recitato per ottant’anni il ruolo del montanaro e della guida alpina, la più grande guida del Cervino. Per ottant’anni ha recitato se stesso; ogni giorno, ogni istante; senza una forzatura, senza un tradimento. Si può chiedere di più a questa vita?