Pubblicazione

Introduzione


Credo possa ritenersi finalmente soddisfatto chi all’inizio del 2004, l’anno del cinquantenario, ha chiesto al Club alpino italiano di fare la dovuta chiarezza sulla vicenda alpinistica e “politica” della spedizione del 1954 al K2. Perché chiarezza è stata fatta e nessun resoconto sarà più come prima, a meno di continuare a intingere la storia nell’agiografia confondendo la leggenda con la verità, l’omertà con i buoni sentimenti, i sorrisi di circostanza con la buona fede.
In alpinismo succede, è sempre successo, perché di solito sono gli stessi alpinisti a scrivere di se stessi, come se Del Piero scrivesse la storia della Juventus o Chirac la storia di Francia. Non funziona, non è mai funzionato. Ogni elaborazione scientifica (e la storia è una scienza come le altre) ha bisogno di competenza, professionalità e distacco, deve rispondere a metodi d’indagine, ricerca dei documenti, comparazione delle testimonianze e verifica delle fonti. Non può essere affidata ai protagonisti che l’hanno fatta, quella stessa storia, se non in veste di testimoni. Altrimenti si cade in risultati assai diversi dall’analisi storica, come nelle autocelebrazioni di un personaggio, di un evento, di una scalata, di una spedizione, oppure, nel migliore dei casi, come in quegli onesti quanto rischiosi tentativi di ricostruzione delle dinamiche storiche in cui i meriti e i difetti sono divisi equamente tra i protagonisti per non far torto a nessuno, perché la favola romantica della montagna non venga incrinata da rivalità, conflitti, sopraffazioni, e perché la narrazione dell’alpinismo risulti infine miracolosamente affrancata dalle macchie e dalle menzogne che, inevitabilmente, possono sporcare ogni vicenda umana.
Nel caso della spedizione del 1954 al K2 è stato chiaro fin dall’inizio che l’agiografia non poteva reggere. Quando uomini come Riccardo Cassin vengono scartati da un gruppo in cerca di successo vuol dire che c’è in gioco qualcosa di molto più forte dell’ideale alpinistico o del fine sportivo. E infatti c’era in gioco il futuro di un paese bisognoso di riscatto, l’Italia del dopoguerra, e gli uomini che hanno avuto la fortuna di scalare per primi la seconda vetta della Terra, consapevoli o no, con il loro gesto apparentemente nobile e disinteressato hanno soddisfatto gli interessi di un’intera classe politica, di una grande macchina organizzativa e pubblicitaria, di un meccanismo di potere che andava infinitamente oltre i loro meriti o i loro limiti alpinistici. In altre parole la storia del K2 non è semplicemente la storia di una scalata, ma è la storia dell’Italia di allora inserita in un quadro di complessi e contraddittori giochi di potere.
Questo spiega perché per ben cinquant’anni la storia “ufficiale” della spedizione abbia nascosto quell’altra storia, assai meno nobile e trionfale, che oggi vede sostanzialmente riconosciuto a Walter Bonatti ciò che tutti gli osservatori con un po’ di esperienza di alta quota sapevano da almeno trent’anni, e cioè che Bonatti era l’uomo più forte del gruppo e avrebbe potuto offuscare il successo dei compagni se non fosse stato emarginato durante e dopo la spedizione. Spiega perché le sue instancabili esortazioni alla verità siano state snobbate e accantonate per tanto tempo, salvo riconoscergli una generica solidarietà che comunque non chiariva i fatti e le responsabilità. Spiega infine perché, condizionato e protetto da regole e consegne superiori, nessuno degli alpinisti in causa abbia ancora chiesto scusa come dovrebbe succedere nelle famiglie per bene, anche se uno dei due salitori del K2, Lino Lacedelli, proprio nell’anno del cinquantenario si è esposto con un libro-intervista (a cura di Giovanni Cenacchi, Mondadori) che chiarisce molti fatti e comprova le conclusioni che i tre saggi del Club alpino avevano raggiunto con la loro inchiesta parallela.
In fondo sarebbe bastata una stretta di mano tra alpinisti per evitare cinquant’anni di accuse, processi, umiliazioni, brutte figure. Sarebbe bastato uno scatto d’orgoglio e di onestà, allora, ai piedi della montagna, per ribadire che l’onore di un alpinista non dovrebbe essere intaccato dai giochi di potere e dalle consegne del silenzio, che nessuna vittoria ha senso se ti costringe a nascondere la verità, che qualunque amicizia vale più di un assegno o di una medaglia. Ma gli alpinisti sono uomini, appunto, e come gli altri uomini sbagliano, imbrogliano le carte, imbrogliano se stessi.
Per questo ci vogliono gli storici: per rimettere le carte a posto.