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Gino Soldà e l’epoca d’oro del sesto grado

Atti del convegno, Valdagno 26 maggio 2007

Ho dato questo titolo, un po’ banale, ma bisogna innanzi tutto definire che cosa si intende per «epoca d’oro del sesto grado». Molti storici dell’alpinismo hanno definito più periodi come «epoche d’oro», e questo crea confusione. Ognuno di noi, dentro di sé, ha un’epoca d’oro che coincide con qualcosa di importante e irripetibile.
Soldà ha attraversato tanti alpinismi perché ha avuto una carriera lunga e completa che testimonia vari momenti storici, culturali e sportivi. Dunque mettiamo qualche coordinata storica e proviamo a capire come si possono inquadrare i periodi e le epoche più importanti, e perché, soprattutto, certi personaggi hanno segnato così marcatamente la storia dell’alpinismo: per esempio Gino Soldà, in quel momento magico che sono stati gli anni Trenta del Novecento.

L’epoca d’oro dell’alpinismo inglese
Il concetto di epoca d’oro, o momento magico, è legato a una situazione storica precisa, e non è mai generalizzabile per tutti i paesi. Non voglio certo assecondare tentazioni di nazionalismo, ma le scuole di pensiero nazionali e anche regionali e locali hanno sempre condizionato le prestazioni e le idee. Quindi bisogna contestualizzare le imprese nelle varie epoche e nelle varie zone.
In questo senso il fatto che tutta la parte pionieristica dell’alpinismo sia sostanzialmente legata, almeno fino alla salita del Cervino, a un’iniziativa prevalentemente anglosassone, ci dice che per gli inglesi era quello il periodo d’oro, perché evidentemente avevano una situazione economica e socio-culturale tale da poter per primi apprezzare le Alpi, e aver voglia di salirle, cosa che non si è verificata in altri paesi. L’Inghilterra aveva conosciuto un impetuoso sviluppo industriale con i problemi di inquinamento che anche noi, oggi, conosciamo bene. Gli inglesi colonizzavano, nel bene e nel male, gli angoli ancora vergini: in questo senso le Alpi li attiravano in quanto erano, come direbbe Messner, delle «macchie bianche», l’unica zona inesplorata nel cuore del continente europeo iper conosciuto, iper esplorato. Questa è stata la molla che ha mosso la conquista delle Alpi, almeno fino alla scalata del Cervino (1865).

L’alpinismo con guide, l’alpinismo senza guide
C’è un’altra epoca d’oro nei libri di storia: quella delle guide. Questi uomini che vivevano in valli chiuse e talvolta isolate, che non avevano nessun interesse a scalare le montagne, che le ritenevano utili al massimo per ragioni di caccia o ricerca di cristalli, hanno cominciato a vedere nella salita delle montagne una fonte di reddito. Uomini dotati di un’ottima conoscenza del terreno, hanno iniziato a specializzarsi nell’escursionismo e nella scalata, e verso la fine dell’800 sono stati i massimi esponenti di un’esplorazione che non era più quella delle cime (già salite), ma delle grandi creste, degli speroni, degli itinerari più logici e difficili.
Queste guide, prima occidentali e poi orientali (c’è sempre stato un po’ di antagonismo tra una e l’altra scuola, anche perché il turismo sulle Alpi occidentali è iniziato prima), alla fine dell’800 hanno dato il massimo con clienti di altissima capacità tecnica, che arrampicavano anche meglio dei montanari ma non avevano la conoscenza del territorio che invece apparteneva ai valligiani.
Si arriva così alle Dolomiti, dove le guide salgono le grandi pareti della Marmolada e della Tofana (Dimai, Bettega, Zagonel), che segnano il confine tra l’alpinismo delle vie che sfruttavano la morfologia della montagna e quello delle pareti strapiombanti. Una nuova dinastia di guide, penso a Dibona e Piaz, che hanno salito pareti assai impegnative (Dibona era in grado di fare il sesto grado: non l’ha fatto perché in tutta la carriera alpinistica ha usato credo cinque o sei chiodi), si affaccia sulla scena nei primi anni del Novecento, indiscussi protagonisti del periodo d’oro delle guide.
Accanto ai grandi professionisti si afferma il primo alpinismo cittadino senza guida; un caso emblematico è quello di Paul Preuss (ma c’erano già stati Winkler e Zsigmondy), che si differenzia nettamente dalle precedenti concezioni dell’arrampicata e comincia a praticare e predicare l’arrampicata libera assoluta (in salita e in discesa: pagherà con la vita), in polemica accesa con Piaz che, da buon montanaro, e guida, sosteneva che era meglio un chiodo in più che un alpinista in meno.
Con questa dialettica tra puristi e artificialisti (già vissuta al Dente del Gigante e in altre epoche), si è andati avanti fino agli anni della Grande Guerra. Ma noi italiani tendiamo a sottovalutare ciò che è stata la Scuola di Monaco, che ha sostanzialmente inventato quello che sarà l’alpinismo dopo la Prima guerra mondiale. Nel Kaisergebirge e su altre pareti calcareee si sono affermati un gruppo, un’idea, una scuola che hanno fatto il salto di qualità, portandol’alpinismo verso gli eccezionali livelli del dopoguerra: la terza età d’oro. Otto Herzog, Hans Dülfer e altri hanno inventato un nuovo tipo di alpinismo; avevano molta tecnica e un ottimo allenamento, ma soprattutto sapevano guardare oltre, anche sul piano atletico. Questo è un punto fondamentale, che li differenzia dall’alpinismo delle guide di montagna, che avevano più intuito che allenamento sportivo.

Cultura e alpinismo prima della Grande Guerra
Tutto questo è precedente alla guerra, e in qualche modo prepara ciò che succederà dopo. Deriva sicuramente dalla cultura “alpina” assai presente nei paesi a nord delle Alpi, dove le montagne facevano (e in parte fanno) parte del patrimonio di tutti. Non credo che l’alpinismo, pur con tutte le sue componenti anarchiche (gli alpinisti sono difficili da inquadrare, i club alpini hanno sempre fatto fatica a gestirli), si possa sganciare dalla comprensione che gli gira intorno, dall’humus culturale che lo sostiene e lo alimenta. Sicuramente in Austria e in Germania (Monaco è una città vicina al confine) questo tipo di cultura era forte e importante, ed è stato determinante.
Ha ben scritto Christian Arnoldi sul numero 15 della rivista L’Alpe, a proposito del Bergfilm, cioè il cinema di montagna nato nei paesi di lingua tedesca:
«Dal punto di vista stilistico questi lungometraggi rappresentavano una novità poiché per la prima volta ritraevano la natura en plein air in tutta la sua imponenza, rompendo la consuetudine di girare negli studi cinematografici. Il genere incontrò immediatamente i favori del pubblico, rapito dalla bellezza sconvolgente delle Alpi, dalla forza brutale dei suoi elementi, dalle vedute mozzafiato, dalle gesta eroiche dei suoi cavalieri, dai valori più profondi trasmessi dall’alpinismo e dalla montagna. Del resto il “vangelo delle vette” che si voleva diffondere era in piena sintonia con lo spirito e il sentimento di molti tedeschi e austriaci, che da anni dedicavano il proprio tempo libero alle escursioni nella natura.
Testimoniano la tendenza i numerosi movimenti giovanili che si diffusero a partire dalla fine dell’Ottocento: per esempio i Wandervögel, fondati nel 1901 da Karl Fischer nel sobborgo berlinese di Steglitz. Il pensiero e le aspirazioni di questo movimento che portava sulle catene alpine austriache e bavaresi la gioventù tedesca dell’epoca, si possono riassumere con le parole pronunciate dal famoso alpinista Eugen Guido Lammer in occasione di un’escursione proprio con i Wandervögel: “Chi ha potuto una volta assorbire lo spirito libero delle cime, non può sprofondare in tutta la volgarità di laggiù. In mezzo al tumulto stridulo privo d’anima del mercato risuona nei nostri orecchi dai nostri monti il rombo fremente di ciò che è grande, gorgoglia nei nostri cuori la fonte argentea di ciò che è puro”. I Bergfilm insomma riprendevano ed elaboravano l’esaltazione per la natura selvaggia e l’entusiasmo per le imprese alpinistiche più audaci e pericolose (come le scalate alle famigerate pareti nord), elaborando gradualmente un’autentica mistica delle vette da opporre alle paure e alle angosce che la modernità stava alimentando nel popolo tedesco».
Poi arriva la guerra, che fa strage di tutto perché uccide e genera lutti anche nell’alpinismo (Dülfer muore in guerra, si salva Otto Herzog, detto Rambo, che nel ’21 scala una via di sesto grado nel Karwendel). Sostanzialmente però l’alpinismo austriaco e tedesco, con il crollo dell’Impero, ha una battuta d’arresto; la distruzione è tale che anche il processo evolutivo si ferma o rallenta pesantemente.

Cultura e alpinismo nell’Italia del dopoguerra
In Italia che cosa capita? Si registra un fenomeno opposto. L’Italia ha vinto la guerra (sappiamo che cosa ha significato: morte, pazzia, distruzione…); ma ciò che conta non è la vittoria, bensì le conseguenze culturali che la guerra ha lasciato nell’immaginario e nell’esperienza collettiva. Il confine innaturale delle Alpi, che per definizione politica era stato inventato dopo il trattato di Utrecht («di qua e di là le acque che vi scendono»), totalmente antistorico perché la gente della montagna non ha mai ragionato secondo la linea dello spartiacque (al contrario la gente delle alte valli era spesso in contatto: si pensi ai Ladini intorno alle Dolomiti di Sella, o alla repubblica del Grand Escarton intorno al Monviso), viene in qualche modo codificato e «consacrato» dalla Grande Guerra, seppure a costo di violenze e forzature inimmaginabili. Prima della guerra la linea del confine alpino, artificialmente imposta, non era capita dalla gente e non aveva riscosso nessuna popolarità in Italia. Con la guerra il popolo è scaraventato sulle montagne, è costretto a conoscere le montagne in tutta la loro dura bellezza, soprattutto le Alpi orientali, cioè il fronte terribile che andava dall’Adamello, scendeva giù attraverso le Dolomiti e gli altipiani, e infine raggiungeva il Carso. Questa linea di fronte che per i generali era solo un confine, per i soldati diventa un luogo dove passare due anni in condizioni disumane, subendo più morti per le valanghe che i per cannoni, dove si battono giovani che fino al giorno prima andavano alla messa insieme e corteggiavano la stessa morosa, gente con la stessa religione e la stessa cultura. La guerra introduce nel panorama culturale italiano la montagna e le Alpi, che prima sostanzialmente non esistevano, erano rappresentate solo da una linea sulle carte geografiche.
Il sentimento eroico italiano affonda le radici nella Prima guerra mondiale, e in particolare nella guerra delle Alpi ‘15-17, il sacrificio di massa che ha cambiato radicalmente il rapporto tra i popoli e le montagne.
A tale proposito osserva lo storico Diego Leoni:
«La guerra dolomitica fu l’estensione al massimo grado dell’alpinismo, dei processi di interazione tra uomo e ambiente e di riempimento, da parte della civiltà urbana, del “vuoto” della montagna. Da questo punto di vista, la guerra rappresentò il “pieno” assoluto: pieno di uomini, di tecnologie, di costruzioni, di potenziale distruttivo e costruttivo. Il soldato-alpino arrivò dove l’alpinista non era mai arrivato, usando chiodi, scale, scavando nella roccia e lì stanziandosi per mesi e anni: non solitario conquistatore, ma membro di una “tribù” che vantava decine di migliaia di appartenenti… La montagna cambiò volto: venne attraversata da sentieri, mulattiere, gallerie, strade, percorsa da teleferiche, occupata da baracche e fortificazioni. Opere e mezzi che imposero una diversa organizzazione spazio-temporale del territorio alpino, prefigurando, e preparandone, la conquista da parte del moderno turismo di massa…».
La Grande Guerra scaraventa sulle Alpi migliaia di uomini altrimenti destinati a una tranquilla vita di pianura. La guerra svela brutalmente al popolo l’esistenza delle montagne e apre gli orizzonti di una nuova meta collettiva. I valori di eroismo e virilità collegati al sacrificio degli alpini e ai simboli retorici del fiasco di vino e del vecchio scarpone si guadagnano un ruolo forte e duraturo, offuscando le reminiscenze romantiche dell’alpinismo delle origini. È il passaggio dal riserbo dei pochi alla partecipazione delle masse, che, abilmente pilotate dai regimi, riprendono la strada della montagna in tempo di pace con i treni della neve, i campeggi estivi, le adunate alpine, le associazioni alpinistiche popolari.

Alpinismo e fascismo
Dopo la guerra, con un sapiente abbinamento tra i simboli del fucile e quello della piccozza, l’alpinismo diventa un fenomeno collettivo su cui fondare le migliori energie, mentre prima era cosa per pochi. Non basta: il fascismo elabora il sacrificio degli alpini come il modello fondante di una nazione e quindi quelle frontiere che non avevano nessun significato diventano luoghi di culto, diventano dei santuari, delle mete di pellegrinaggio (e turismo). La montagna entra prepotentemente nel clima culturale italiano.
Non bisogna dimenticare che la tradizione alpinistica italiana proviene dalla visione romantica: le montagne, da Rousseau in avanti, erano concepite come il luogo ideale, un posto fantastico dove vivevano le popolazioni migliori, dove il cittadino trovava paesaggi incontaminati, dove si cercava la natura ma anche il montanaro, il buon selvaggio, colui che era esente dai vizi e dalle bruttezze della città. La visione romantica aveva dominato tutto il periodo ottocentesco e aveva influenzato moltissimo l’alpinismo (gli inglesi si erano salvati perché inglesi, ma tutta la parte continentale – quindi austriaci, svizzeri, tedeschi, italiani – è stata fortemente impregnata di romanticismo). Con la guerra c’è il passaggio dalla visione romantica alla visione eroica, ed è un passaggio disumano perché di violenza. Il superomismo di Lammer e di altri maestri di lingua tedesca, che identificava l’alpinista come un paladino dell’assoluto secondo una visione molto elitaria che faceva presa sui ragazzi delle università di Vienna o di Berlino, dopo la guerra, in Italia, diventa una specie di ideologia di stato, e quindi la visione eroica della montagna viene propagata a larghe mani dal fascismo. Con una contraddizione, perché da un lato il fascismo veicola un messaggio ancora elitario e antistorico (i puri cavalieri delle vette), strumentalizzando molti eroi-alpinisti (pensiamo a Emilio Comici, che non era certo un fascista nell’animo ma è diventato un simbolo del regime e anche commissario prefettizio), ma dall’altro apre le frontiere delle montagne, spinge i giovani, le scuole, gli uomini e le donne ad andare in montagna, come se la montagna fosse una ricetta terapeutica contro tutti i mali del presente: ecco allora icampeggi escursionistici, lo sci per tutti «contro l’incubo sessuale», l’alpinismo sociale…
Tre brevi citazioni rendono l’idea del cambiamento di clima culturale. La prima è di Piero Jahier, un valdese che ha combattuto ed è il cantore degli alpini:
«Perché gli alpini curano tanto le robe, mentre spreca il soldato cittadino? Perché il montanaro che deve creare ogni cosa, ha rispetto della cosa creata: sa che fatica è creare… Perché gli alpini sono tanto disciplinati? Perché il loro padrone è la montagna che è autorità assoluta… Perché sono così rassegnati? Perché considerano i mali della società come mali della natura: sono mali eterni e imprevedibili i mali della natura, e a nulla vale la ribellione».
Questa è una visione ancora tipicamente romantica: la montagna fonte di bene e la pianura fonte di male. Ma un passaggio di Giuseppe Schicca, che ha scritto l’Opera degli alpini pubblicata dalla libreria del Littorio, usa un tono già molto diverso:
«Il montanaro: torso nocchiuto di cariatide, avvitato dal mantice di polmoni capaci, servito da braccia e da gambe d’atleta, governato da un cervello quadrato, con poche idee limpide e guidatrici e da un occhio che sfida i prodigi dell’ottica».
Il linguaggio è evidentemente mutato. Mentre Jahier, che proveniva da una passione alpinistica sincera precedente, si inserisce nella tradizione anteguerra e scrive ancora secondo dei moduli – diciamo – classici, il nuovo tipo di scrittura è già tipicamente ideologico e diffonde una visione del montanaro totalmente falsa ma funzionale alla propaganda del regime.
Infine ce n’è una terza, del Duce in persona:
«Per quella imponente corona di montagne che Dio pose in difesa della Patria, voi avete inciso sui vostri gagliardetti il fierissimo motto: “Di qui non si passa”. Non sono le Alpi che fanno gli alpini, ma gli alpini che fanno le Alpi».
Dietro la retorica, e a pensarci bene anche l’insignificanza delle parole, Mussolini riusciva a trasmettere il messaggio voluto, vale a dire: in montagna si è migliori, più bravi, più forti, più belli, eccetera.

L’epoca del sesto grado
Ma torniamo all’alpinismo. Dopo le premesse della Scuola di Monaco, che non si arrende alla guerra ma è costretta ad arrendersi al dopoguerra, siamo sfociati nel periodo incriminato, la cosidetta epoca del sesto grado. Il periodo si apre ufficialmente con l’impresa di Lettenbauer e Solleder sulla parete nord ovest della Civetta (1925), che non è probabilmente la prima prestazione di sesto grado ma viene assunta come tale. Solleder conferma la sua supremazia sulla Furchetta e sul Sass Maor, dimostrando che ancora nella metà degli anni Venti la scuola tedesca era superiore a quella italiana. Ma già nel ’29 Videsott e Rudatis, con lo spigolo della Busazza, eguagliano la prestazione dei tedeschi in Civetta. Se Videsott è un giovane fuoriclasse che arrampica con l’istinto, Rudatis, che ha a lungo elaborato le teorie esoteriche care a Lammer rivisitandole secondo la sensibilità mediterranea, è il fondamentale teorizzatore della rivincita italiana. Rudatis sa che i limiti dei suoi compatrioti non sono di natura atletica ma culturale. Una seconda conferma arriva dall’impresa di Micheluzzi sul pilastro della Marmolada (1929), dove si parla nuovamente di sesto grado, anche se in realtà non siamo che ai preamboli e la consacrazione deve ancora venire.
Il colpo di teatro degli anni Trenta è il logico coronamento di almeno un decennio di preparazione da parte della Scuola di Monaco, della «santificazione» delle Alpi dopo la Grande Guerra e di un altro decennio di «imitazione» da parte degli alpinisti italiani, sorretti dall’impianto ideologico di Domenico Rudatis. La scuola italiana si impone nettamente sulle difficoltà dolomitiche, e Gino Soldà si inserisce nel novero dei tre-quattro caposcuola che spostano in avanti i limiti dell’arrampicata: Soldà, Comici e Vinatzer, in particolare. Mentre il triestino Comici era a tutti gli effetti un cittadino e il gardenese Vinatzer era un montanaro che visse prevalentemente nella sua valle, Soldà è stato un montanaro di ampie vedute, che ha viaggiato per il mondo e ha arrampicato indifferentemente con alpinisti di città e alpinisti di montagna.

Gino Soldà uomo e alpinista
Gino Soldà era un alpinista completo, capace di eccellere in arrampicata libera (Sassolungo) e artificiale (Marmolada), ottimo interprete dei terreni ghiacciati (si sarebbe ben comportato anche sull’Eigerwand, se fosse riuscito a provare) e di alta quota, distinguendosi tra i protagonisti della spedizione al K2 del 1954, nonostante i limiti dell’età.
Negli anni Ottanta Reinhold Messner scrive:
«L’aspetto essenziale da mettere in evidenza è la mentalità, la psicologia degli uomini del periodo del sesto grado, rispetto alle ascensioni che essi compivano, ai rischi che essi affrontavano. Essi arrampicavano senza chiedersi continuamente il perché, senza chiedersi: “Ha senso?, è forse una cosa da malati fare il sesto grado?” Arrampicavano perché piaceva loro arrampicare, perché amavano superare difficoltà sempre maggiori, e in questa attività non vedevano nulla di malato, erano perfino orgogliosi di quello che facevano… E possiamo ricavare un’ulteriore conferma considerando ciò che quegli uomini hanno fatto dopo il loro grande periodo: Soldà è diventato una famosa guida alpina, un ricercato istruttore di sci e produttore di scioline; Carlesso ha creato una grande azienda commerciale ed è diventato un raffinato collezionista di opere d’arte; Cassin ha messo in piedi un’importante ditta di articoli sportivi; Bertoldi è divenuto uno dei maggiori progettisti della Fiat». Messner ha ragione quando scrive che quegli alpinisti non dovevano cercare un senso in ciò che facevano, proprio perché arrampicare aveva e trasmetteva senso in quel particolare momento storico. Inoltre erano persone grandi non solo in montagna ma in ogni circostanza della vita.
Un altro elemento significativo dello stile di Soldà era la capacità lieve, diretta, quasi giornalistica, con la quale sapeva raccontare di sé e delle sue imprese in un periodo in cui l’assenza di retorica era tutt’altro che scontata: basti leggere il tono con cui Franco Bertoldi, uomo per altro raffinato e colto, descrive l’arrivo in vetta al Sassolungo:
«La partita è chiusa. Nel pieno fulgore del giorno 26 agosto Gino Soldà, sorgendo dall’alta cresta terminale, lanciava l’alalà della vittoria, e il maschio volto, incavato da tante dure lotte, si distendeva finalmente nel sorriso del trionfo».
Gino Soldà, al contrario, era uno spirito libero e creativo, che sapeva guardare all’essenza delle cose, per di più in una contingenza culturale, quella della sovrastruttura fascista, che è stata tutto fuorché essenza. Lo dimostrano i suoi itinerari che sono assolutamente logici, estetici e lasciano il segno. Sono le firme di un perodo irripetibile.
Il clima favorevole alle grandi gesta dell’alpinismo accompagna tutta la carriera alpinistica di Soldà, fino al K2, e per tutti quegli anni lui sa tenersi fuori dalle esaltazioni nazionalistiche. Dopo che Riccardo Cassin, friulano di nascita e lecchese di adozione, sale le tre eccezionali pareti nord della Cima Ovest di Lavaredo, del Pizzo Badile e delle Grandes Jorasses, proprio le Jorasses incarnano il mito con le altre due grandi Nord del Cervino e dell’Eiger. Soprattutto l’Eiger, l’“orco” dell’Oberland Bernese, è la grande sfida alla vigilia della seconda guerra mondiale, dove tanti giovani alpinisti tedeschi hanno lasciato la vita sospinti dalla propaganda nazista. Alla fine l’impresa riesce a due cordate condotte dal tedesco Anderl Heckmair, che scrive dopo l’impresa:
«Fu di nuovo come un destino. Gli austriaci Angerer e Rainer si erano uniti e insieme erano andati incontro alla morte. Noi del vecchio Reich ci unimmo coi camerati della Marca Orientale e andammo insieme alla vittoria. Non volevamo vincere questa battaglia solo per noi; su questa parete si trattava di qualche cosa di molto più alto che la soddisfazione di un’ambizione personale. Kasparek e Harrer
furono visibilmente sollevati dalla nostra proposta; ci stringemmo le mani e giurammo di restare insieme fino alla fine».

L’alpinismo himalayano
Sull’Eigerwand, nel 1938, si chiude l’epopea esplorativa delle Alpi: quasi tutte le grandi pareti sono state scalate e la guerra frena ulteriori conquiste. Con la Seconda guerra mondiale, che rivoluziona i riferimenti politici internazionali e allarga gli scenari, gli obiettivi alpinistici si spostano in Himalaya. Dopo la guerra, gli ottomila nepalesi e pakistani (il “terzo polo” della Terra) diventano simboli di riscatto per i paesi usciti con le ossa rotte dal conflitto (Francia, Italia, Germania-Austria) e sigilli di supremazia per i paesi vincitori (Inghilterra). Le nazioni di più antica tradizione alpinistica si dividono le cime più alte del pianeta: l’Annapurna ai francesi (1950), L’Everest agli inglesi (1953), il Nanga Parbat ai tedeschi (1953), il Cho Oyu agli austriaci (1954), il K2 agli italiani (1954).
Tutte le conquiste (all’epoca l’uso del linguaggio militare era voluto) recano una forte impronta nazionalista, anche se occorre distinguere tra lo sciovinismo di marca francese che portò all’ascensione del primo ottomila, lo spirito colonialista britannico che sorresse la spedizione Hunt nella prima salita dell’Everest e lo spirito di rinascita italiano tipico degli anni cinquanta.
L’alpinismo francese non è interpretabile secondo i parametri classici dell’alpinismo mitteleuropeo, perché la Francia non ha partecipato al massacro degli alpini e dei kaiserjäger durante la Grande Guerra, e neppure all’eroica corsa per la conquista delle grandi pareti negli anni del Ventennio. Le sono stati parzialmente risparmiati i martiri della montagna intrisi di lacrime e sangue, la retorica del sacrificio alpinistico, la perniciosa sovrapposizione di fucile e piccozza che ha prima sorretto e poi impoverito l’alpinismo tedesco, austriaco e italiano di matrice idealistica. Mentre sulle Dolomiti si compiva l’epopea del sesto grado e sulle pareti nord di Cervino, Eiger e Grandes Jorasses si consumavano tragedie e vittorie sotto l’ala complice dei regimi, gli alpinisti francesi hanno pazientemente atteso il loro momento, finché a guerra finita, liberatisi dagli invasori e spinti da sentimenti di rivincita nazionale, sciovinisticamente fiduciosi nel futuro, improvvisamente padroni dei propri mezzi e del proprio destino, si sono trovati tra le mani un bel mazzo di carte ancora tutte da giocare. È proprio da questo improvviso sprigionarsi di forze positive che maturano i presupposti per la difficile (e drammatica) ascensione dell’Annapurna nel 1950.
Al contrario, la salita inglese dell’Everest del 1953 – che beneficia di uno spirito internazionale, anche se i vincitori verranno personalmente incoronati dalla regina d’Inghilterra in un grande revival di orgoglio imperiale – è la logica conclusione di un antico rapporto di amore-odio tra gli alpinisti britannici e la Dea madre. Già nel lontano 1924, quasi trent’anni prima che Hillary e Tenzing calchino ufficialmente la vetta, Mallory e Irvine persero misteriosamente la vita a poche centinaia di metri dal tetto del mondo, sul versante tibetano della montagna, e ancora oggi non è del tutto archiviata l’ipotesi che abbiano potuto arrivare per primi sulla cima.

L’Italia e il K2
In Italia la conquista del K2 viene affidata ad Ardito Desio, che gestisce la spedizione come un’operazione militare. Riceve l’incondizionato appoggio del governo e del Club Alpino Italiano. Fa scalpore l’esclusione di fortissimi alpinisti come Riccardo Cassin, Cesare Maestri ed altri che evidentemente erano personalità in grado di offuscare e contrastare la supremazia di Desio. Vengono invece inclusi nel gruppo il «vecchio» Gino Soldà e il giovane Walter Bonatti, astro nascente dell’alpinismo, che entrerà in conflitto con gli obbedienti Compagnoni e Lacedelli e rischierà la vita a oltre ottomila metri di quota, costretto a bivaccare senza tenda in condizioni quasi disperate.
Ma ciò che interessa Desio e la nazione è esclusivamente la vittoria, e la vittoria arriva il 31 luglio 1954. Si fermano le fabbriche, si ferma il paese. A decine, aprono bar intitolati al K2, magica sigla capace di evocare emozioni esotiche e di far sognare gli italiani. Compagnoni e Lacedelli diventano eroi nazionali, Desio viene portato in trionfo come un generale di ritorno dalla guerra.
E prima di tutto ciò, Paolo Monelli scrive su “La Stampa” ad ascensione compiuta:
«Per quel tricolore legato al manico di una piccozza piantata sulla più alta vetta del mondo che fosse tuttora inviolata, oggi noi italiani andiamo per via come ci fossimo messi un fiore all’occhiello, con passo più alacre, con cuore più lieve. Ancora non conosciamo il nome di chi primo abbia posto il piede sulla cima, e questo non importa, perché una cima non è conquistata da un singolo individuo, ma da un’intiera cordata, una squadra di uomini che, legandosi l’uno all’altro, si consacrano solidali nello stesso rischio, per la stessa vittoria o la stessa morte. Misureremo più tardi in tutto il suo impegno questo tenace sforzo di nervi e di volontà, quando ne conosceremo i particolari dalla viva voce dei ritornati. Oggi basta la notizia pura e semplice dell’impresa a rallegrare noialtri cittadini qualunque, senza ambizioni e abilità e competenze speciali, che amiamo la patria di un amore patetico e disinteressato».
Chissà mai cosa pensò il «vecchio» Soldà dopo tutta quell’abbuffata di festeggiamenti e parole altisonanti? Forse, semplicemente, pensò che il mondo stava per cambiare, e che la sua epoca stava per finire.