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Cassin più forte di tutto


Da qualche mese Cassin è un gene che abbiamo in corpo, precisamente quel “gene bussola” che guida lo sviluppo dei neuroni che risiedono nel midollo spinale umano per collegare il cervello al sistema periferico. I ricercatori dell’ospedale San Raffaele di Milano hanno voluto dargli il nome di Riccardo Cassin, il grande alpinista del Novecento, perché «come Cassin è un gene esploratore in grado di aprire una via». L’interessato che quest’anno avrebbe compiuto centodieci primavere sorriderebbe compiaciuto come faceva sempre, senza montarsi né sottovalutarsi troppo. Direbbe che è vero, che di quei geni ne aveva in abbondanza, e che ha cominciato a usarli negli anni Trenta quando dopo la boxe ha scoperto la montagna. Li ha usati sul vertiginoso spigolo della Torre Trieste, sesto grado, poi sulla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, artificiale estremo, scalando gli strapiombi sotto i temporali.
Dopo la Trieste e la Lavaredo il roccioso Cassin era già il più forte alpinista italiano, o almeno il più completo. Scalava con la stessa determinazione sul granito e sul calcare, padroneggiava l’arrampicata libera e la scalata con i chiodi, non temeva il ghiaccio e l’alta montagna. Friulano di nascita e lecchese di adozione, era il leader indiscusso della scuola dei rocciatori del Lario e poteva fare affidamento su compagni sanguigni, fedeli e decisi quanto lui, accomunati da concretezza e realismo di matrice operaia. Gli scalatori del lago erano abituati a lavorare dieci ore al giorno in officina e ad allenarsi di sera oppure la domenica sulle Grigne, in ogni stagione e con qualsiasi tempo. Spesso raggiungevano la montagna a piedi o in bicicletta. Da ragazzo Cassin aveva fatto il pugile e aveva provato i colpi della vita, ma anche la poesia del mondo. Conosceva “gli ultimi grandi problemi” delle Alpi, li rispettava e non si lasciava intimorire. Il suo motto era «andiamo, proviamo e vediamo».
Riandiamo con Cassin ai tempi d’oro. Nel 1937 non si parla ancora di guerra ma si parla tanto di montagna. La montagna piace al regime e gli alpinisti vanno sui giornali, anche quelli che come Riccardo tifano per la libertà. Nel 1937 ha ventotto anni e cerca un’altra grande prima sulle Alpi. Guardando alla Val Bregaglia scopre il granito del Pizzo Badile e sa che gli alpinisti di punta hanno messo gli occhi sulla parete di Bondo. La chiamano semplicemente la Nordest, il nome è una garanzia. La Nordest è una pala così grande e convessa che a fissarla bisogna ribaltare gli occhi, soprattutto quando il sole del mattino disegna la lavagna di ottocento metri. La Nordest è una geometria dura e dolcissima allo stesso tempo, irresistibile. Il Badile è liscio, bello, spaventoso e non finisce mai. Con i mezzi tecnici dell’epoca è la sfida estrema, una gran prova di astuzia e resistenza. Per questo attira Riccardo Cassin, che il 14 luglio 1937 si lancia in parete con i forti Ratti ed Esposito, sotto un cielo lunatico, umido e inaffidabile.
Con le previsioni di oggi nessuno attaccherebbe il Badile con quel cielo, ma Cassin non ha né internet né i bollettini meteorologici, e poi ha poco tempo con qualunque tempo. In parete incontra Molteni e Valsecchi di Como, due alpinisti più lenti e deboli dei lecchesi, anche male equipaggiati; Riccardo li rimorchia sul muro immenso. Piove, grandina, fa freddo, non sembra estate, ma Cassin non molla e sale la lavagna, scovando la via in un dedalo di placche senza respiro e senza prospettiva:
«Proseguiamo ancora per una trentina di metri e alle 21 siamo su un pianerottolo che si presta per passare la notte».
Appena si sono sistemati per il nuovo bivacco si scatena un violento temporale, ma verso mezzanotte il vento del nord spazza le nubi e riporta un’illusione di sereno. Si rivedono le stelle.
«Con il sorgere del sole ci riscaldiamo un po’ e riprendiamo la salita».
Al mattino Molteni e Valsecchi danno segni di esaurimento. A mezzogiorno il cielo si copre di nero e ritorna la pioggia, che si trasforma in grandine e presto in neve. I comaschi sono distrutti, non ce la fanno più. Nevica fitto, si gela e la visibilità è ridotta a un metro. Eppure Cassin non dispera e il terzo giorno li porta tutti sulla cima. «Sentiamo che la meta sta per essere raggiunta – scrive –. Ci sembra che lassù ci sia la salvezza». Verso le sedici la parete è scalata, ma la lotta non è finita. La tormenta infuria sempre più violenta e la neve avvolge tutto. «Non riusciamo più a orientarci per raggiungere il rifugio Gianetti. I comaschi più pratici della zona non possono e non riescono in quelle condizioni a darci alcun ragguaglio. Intanto si fa notte. Facciamo tutto il possibile per tenere lontana la morte che è in agguato… ma invano». Molteni e Valsecchi muoiono di sfinimento durante la discesa. Si spengono come due candele consumate. All’alba il cielo è terso, paradosso della sorte. «Arrivati alla capanna Gianetti comunichiamo la penosa notizia e ci buttiamo sfiniti sulle cuccette: siamo rimasti cinquantadue ore sulla parete, scalando per trentaquattro ore e per dodici la tormenta ci ha flagellato senza sosta». Metà vittoria e metà tragedia, come accade spesso nella storia dell’alpinismo.
Passa mezzo secolo e Cassin ha voglia di festeggiare il suo Badile. Vuole ritornarci dalla Nordest, solo che adesso ha settantotto anni e gli fanno male le ginocchia. Però è ancora Cassin e con l’aiuto degli amici di Lecco sale sicuro la parete dei trent’anni, scalando come in una favola, senza neve, senza vento, senza angoscia, sotto il sole e il cielo della Bondasca. Il vecchio rispetta l’orario di una scalata come si deve e si assicura meticolosamente ai chiodi come chi ha tanta vita davanti. Quando arriva in cima sorride alla macchina fotografica e si fa immortalare con il maglione rosso dei Ragni. Appoggiandosi al granito tiepido guarda l’orizzonte che sa a memoria e poi confida in dialetto al capocordata: «È andato tutto bene, grazie». Segno che poteva anche andar male, gli era già successo.
Per Cassin e per il Pizzo Badile si organizza una gran ricorrenza in Valtellina. Riccardo è il decano degli alpinisti e nessuno vuole mancare alla festa di compleanno. Gli vogliamo tutti bene, è un uomo che mette il buonumore. Il 5 settembre 1987, a Morbegno, discutiamo dei valori dell’alpinismo, di com’è cambiata la scalata negli ultimi cinquant’anni, di dove sta andando. Sono il giovane direttore del mensile Alp e conduco il dibattito al teatro Pedretti con Messner, Mariacher, Jovane, Gogna, Miotti e altri protagonisti della montagna. C’è anche Cassin che sorride sereno, un po’ distaccato, perché il suo alpinismo l’ha già fatto e non ha motivo di preoccuparsi per i giovani. Riccardo ha fiducia nei giovani.
Messner è chiaro come sempre: «Per Cassin l’incognita era la chiave, oggi è stata sostituita dai record. Per me l’avventura resta fondamentale, gusto il successo soltanto se raggiungo il mio limite su un terreno che non conosco. Comunque tutti gli alpinismo sono giusti». Riccardo approva: perché bisogna pensar male? «Noi non ci pensavamo su ed eravamo contenti lo stesso».
Nel pomeriggio ci trasferiamo ai Bagni di Masino e comincia la festa vera. Il Badile non si vede ma sappiamo tutti che è sopra di noi. A poche ore di sentiero ci sono la capanna Gianetti e il posto in cui morirono Molteni e Valsecchi, ma noi abbiamo bel tempo, il magnifico cielo di settembre, e oggi nessuno morirà in montagna. Oggi no. Tra il vino della Valtellina, i pizzoccheri fatti in casa e il Braulio fatto con le erbe vedo accendersi la sala del vecchio albergo. La festa decolla. Se dovessi moderare anche questa non ci riuscirei. Guardo Messner che canta e Cassin che abbraccia Ginetto Esposito, il compagno di tanti anni prima. Dice che «rivede l’impeto del suo passo giovanile e ritrova il suo sorriso un po’ sarcastico». Quando la comunità alpinistica è più sbronza e unita che mai penso che i dibattiti non servono. L’amore per la montagna e la voglia di scalare sono questa passione insensata, soltanto questa. Quando riusciremo a spiegarla l’alpinismo sarà finito.