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Uno sguardo storico

Catalogo della mostra, Museo Nazionale della Montagna, Torino19 giugno – 8 novembre 2009

L’origine della professione della guida alpina risale al Seicento, quando i “marroni”, sorta di rudi accompagnatori valligiani, scortavano i viandanti nell’attraversamento dei colli alpini. Ma la moderna concezione di guida è collegata alla nascita e allo sviluppo dell’alpinismo.
Alla vigilia della Rivoluzione Francese il naturalista ginevrino Horace-Bénédict de Saussure promette una lauta ricompensa a chi trovi la via di salita al Monte Bianco. L’8 agosto 1786 il medico Michel-Gabriel Paccard e il cercatore di cristalli Jacques Balmat si aggiudicano il premio raggiungendo la vetta più alta delle Alpi dal versante di Chamonix. Tutti pensano (erroneamente) che il merito dell’impresa sia da attribuire solo al montanaro Balmat, che la filosofia e l’iconografia romantica dipingono come il rude e buon uomo delle vette, destinato ad accompagnare per mestiere i “messieurs” sulle montagne. In realtà il ruolo di Paccard è stato fondamentale, soprattutto per scacciare i fantasmi dei draghi e dei demoni, e per infondere allo stesso Balmat il coraggio della ragione, comunque Jacques Balmat diventa la prima guida delle Alpi e l’anno seguente accompagna lo stesso de Saussure sul Monte Bianco.
La fortuna del Bianco cresce rapidamente tra Settecento e Ottocento, borghesi in gran numero vogliono ripetere la famosa avventura che appassiona i salotti e le corti d’Europa: così nel 1821, a Chamonix, nasce la prima Compagnia delle Guide.
Scrive Luigi Spiro, guida alpina svizzera:
“I curiosi venuti dalla città erano mal preparati ad affrontare i rischi e le difficoltà inerenti a qualsiasi esplorazione. Poiché non potevano esplorare le Alpi da soli, naturalmente si misero alla ricerca dei migliori abitanti; è così che essi furono indotti a cercare, nei villaggi alpestri, degli uomini decisi e capaci di condurli alla meta”.
La storia delle guide alpine segue quella degli alpinisti agguerriti e delle montagne famose. Sull’altro versante del Monte Bianco, nel 1850, nasce la Compagnia delle Guide di Courmayeur, prima in Italia, mentre nel Vallese (a St Niklaus con i Knubel e i Lochmatter, a Saas Fee con Mattia Zurbriggen) e nell’Oberland Bernese (a Grindelwald con la dinastia degli Almer) crescono e si affinano le due più prestigiose scuole delle guide svizzere.
La sfida alpinistica di metà Ottocento si concentra ai piedi del Cervino, “lo scoglio nobile e inaccessibile” corteggiato da Jean-Antoine Carrel di Valtournenche, cacciatore e guida, e da Edward Whymper, giovane e ambizioso disegnatore londinese. Anni e anni di collaborazioni e tradimenti si consumano il 14 luglio del 1865, quando Whymper scala a sopresa il Cervino dal versante svizzero con la grande guida di Chamonix Michel Croz e Carrel si ritrova battuto a pochi passi dalla vetta. Croz precipita con tre clienti durante la discesa e Carrel sale dopo appena tre giorni dal versante italiano, onorando il patto stretto con Felice Giordano, Quintino Sella e il giovane governo italiano in cerca di riscatto. In breve tempo il Cervino viene attrezzato con rifugi, corde e scale, le guide cominciano a cavalcarlo con i loro clienti e l’impossibile diventa un lavoro quotidiano.
La frontiera si sposta altrove, sul Dente del Gigante, la guglia di protogino del Monte Bianco dove l’alpinista inglese Albert Fredrick Mummery e la guida vallesana Alexander Burgener sono tornati indietro dalla gran placca centrale, giudicandola “impossibile con mezzi leali”. Il 29 luglio 1882 le guide Maquignaz di Valtournenche e i cugini Sella di Biella salgono il Dente del Gigante con corde, pertiche e fittoni, imponendo le priorità del mestiere sull’etica dell’alpinismo.
Nel frattempo, sul versante orientale del Monte Rosa, primeggiano gli specialisti del ghiaccio e del terreno misto. Primi tra tutti i due piemontesi acquisiti Ferdinand Imseng e Mattia Zurbriggen, che saprà distinguersi come nessun altro nelle spedizioni extraeuropee.

Come gli indiani d’America
Si giunge così alla fine dell’Ottocento, un periodo straordinariamente fertile per la collaborazione tra cittadini e guide alpine. I cittadini stringono rapporti di stima con i montanari che li accompagnano e si formano cordate eccezionali – Mummery e Burgener, Fontaine e Ravanel, Ryan e Lochmatter, Young e Knubel, Norman Neruda e Klucker, Mayer e Dibona, Rey e Castagneri – che fanno incetta di tutte le grandi “prime” sulle Alpi. Spesso la relazione tra guida e cliente si spinge oltre il puro aspetto professionale, sfiorando i confini dell’amicizia. La guida incarna nel modo più compiuto l’ideale romantico che aveva avvicinato i borghesi alla montagna. Scrive Guido Rey, pensando sicuramente alle sue guide Amé Maquignaz e Antonio Castagneri:
“In molti punti le guide mi ricordano quegli antichi Indiani nomadi d’America. Come quelli, esse paiono dotate talora di un senso supplementare, in noi da lungo tempo scomparso, di facoltà e di istinti di razze primitive e selvagge: il silenzio del passo, l’agilità del corpo che vince le leggi dell’equilibrio; l’acutezza della vista che scorge ai limiti estremi del vasto orizzonte montagne che a noi sembrano nubi, e le riconosce una per una; la facoltà di orientarsi fra le nebbie nella vasta landa di ghiaccio; l’istinto di ritrovare la via nell’oscurità della notte o nell’imperversare della tormenta”.
Nel Primo Novecento, con la trasgressione degli alpinisti accademici (il Club Alpino Accademico Italiano nasce a Torino nel 1904), gli alpinisti “senza guida” abbandonano la tutela dei valligiani dopo oltre un secolo di superiorità economica e di dipendenza tecnica. Naturalmente il mestiere non muore, ma con la Prima guerra mondiale si conclude la cosidetta epoca d’oro delle guide alpine.
Tra le due guerre operano grandi guide sui due versanti delle Alpi, ma è soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, particolarmente in Francia, che nasce e si sviluppa una nuova figura di guida: colta, cittadina, imprenditrice, in grado di alternare l’alpinismo di punta con la professione, e di condurre i clienti in imprese di primo piano. Si distinguono i nomi di Lionel Terray, Louis Lachenal e Gaston Rébuffat, che è anche il più efficace divulgatore del messaggio. Sul versante italiano del Monte Bianco operano personaggi analoghi come il veneto Toni Gobbi e, più tardi, il piemontese Giorgio Bertone, che ha un ruolo fondamentale nell’inventare e diffondere l’immagine della guida contemporanea.

L’archetipo letterario
La guida alpina è anche un ghiotto soggetto letterario e cinematografico, basato quasi sempre sulla contrapposizione moralistica tra la saggia guida valligiana e il cittadino avido o impreparato.
Il romanzo di alpinismo più fortunato della storia, Premier de cordée (“Primo di cordata”) di Roger Frison-Roche (1938), racconta la storia di una giovane guida colpita nel fisico e negli affetti (il padre è morto per il capriccio di un ricco cliente sull’Aiguille du Dru), che riconquista la propria dignità attraverso un lento e doloroso processo di maturazione alpina.
Il più hollywoodiano dei film di alpinismo, The Mountain (“La montagna”), con Spencer Tracy e Robert Wagner (1956), contrappone l’onesta e anziana guida di Chamonix (Tracy) al giovane fratello degenere (Wagner), corrotto dal vizio e dalla sete di guadagno.
Il più riuscito lungometraggio di montagna, Five days one summer (“Cinque giorni un’estate”) di Fred Zinnemann (1982), sviluppa il triangolo amoroso tra una bella cittadina, lo zio alpinista e l’immancabile guida alpina: il sacrificio della guida, montanaro di solidi principi, redimerà la relazione incestuosa.
Se il Piemonte non offre storie così emblematiche, anche in Piemonte, per buona parte del Novecento, la figura della guida alpina si identifica con il valligiano-alpinista ed è imparentata con altri “mestieri” come il contrabbando, la caccia, la costruzione e la gestione dei rifugi alpini. Per tutti vale una sola dote irrinunciabile: la conoscenza della montagna.

Torino, le sue valli, le sue cime
A fine Ottocento e nei primi anni del nuovo secolo, il rapporto tra Torino e le montagne è strettissimo, quasi intimo. Si esplicita materialmente negli innumerevoli “panorami delle Alpi dalla collina torinese”, firmati da disegnatori e cartografi.
Federico Sacco scrive un testo di “Geologia applicata alla Città di Torino”, analizzando i materiali di costruzione come se si trattasse di una formazione geologica, rafforzando anche sul piano scientifico l’immagine della montagna che si spinge nella città, la plasma, la modifica.
La relazione è rafforzata dai nuovi mezzi di avvicinamento alle valli torinesi, in particolare la tranvia di Giaveno, la ferrovia delle Valli di Lanzo e naturalmente la ferrovia del Fréjus, che collega Torino con Oulx e Bardonecchia e consente di spingersi oltre la catena alpina. Non è un caso se le valli frequentate dagli alpinisti e dai villeggianti torinesi, potenziali clienti delle prime guide, saranno appunto quelle di Lanzo e di Susa (apprezzata più ancora d’inverno che d’estate), oltre all’ormai conosciuta Valle Po, ai piedi dell’eterno Monviso scalato da Quintino Sella e compagni nel 1863.
“Sono cambiate molte abitudini dell’alta borghesia torinese – spiega Giuseppe Garimoldi interrogandosi sul primo turismo alpino; il tradizionale rito delle “vacanze in villa”, consumato per antica consuetudine nei ritiri della collina o nelle case di campagna, ora, in omaggio alle riconosciute virtù salutari dell’aria alpina, si svolge nelle valli montane.”

Castagneri e l’Uja di Mondrone
In cima alla valle centrale di Lanzo, la Val d’Ala, il villaggio di Balme è tra i primi ad attrezzarsi per ricevere i turisti; l’albergo Belvedere è apprezzato per la cordialità dei gestori e per l’accoglienza familiare. Ma a Balme vive anche una delle più grandi guide alpine in circolazione, Antonio Castagneri, e da Balme tre alpinisti infrangono l’ultimo tabù: quello della montagna innevata. La vigilia di Natale del 1874 il direttore dell’Archivio di Stato Luigi Vaccarone, il suo maestro di montagna Alessandro Martelli e la guida Castagneri salgono la difficile Uja di Mondrone, inaugurando la stagione dell’alpinismo invernale. Ad avventura conclusa il Vaccarone annota sul libro dell’albergo che è stato aperto apposta per loro:
“Partiti da Torino il giorno 23 fummo salutati dai nostri colleghi in alpinismo poco meno di pazzi siccome quelli che nella jemale stagione frullava nel capo l’idea di alpestri ascensioni: che anzi fuvvi chi si peritava di asserire che non solo era follia il pensare di ascendere qualsiasi monte di qualche elevatura, ma sarebbe stato sforzo erculeo l’aver potuto toccare Balme… Niente di tutto questo, e i pregiudizi dei nostri egregi colleghi caddero naturalmente dappoiché in oggi 24 dicembre noi abbiamo potuto felicemente eseguire l’ascensione dell’Uja di Mondrone di circa 3000 metri, ascensione fatta per la prima volta dal rinomato alpinista Leopoldo Barale il 3 luglio 1873 colla coraggiosa, abilissima, simpatica guida Antonio Castagneri di Balme”.
In compagnia dello stesso Castagneri e con una temperatura di circa otto gradi sotto lo zero (“ma il faticoso lavoro del procedere per ripidi pendii e rocce scoscese prerutte coperte da abbondante neve or tenera or durissima fece sì che i viaggiatori non ebbero punto a soffrire la molestia del freddo”), la comitiva raggiunse la vetta in poco più di otto ore dal villaggio di Balme, un tempo onorevolissimo se si considerano le condizioni della montagna e il dislivello da percorrere.
“All’una e quaranta minuti – specifica il Vaccarone – salutammo la superba cima con grida di gioia e spari di pistola.”

Le guide del Monviso
Tommaso Simondi ha definito Michele Re “il primo dei nostri alpigiani che aveva lasciato sulla vetta del Monviso la sua incredulità”. Re è un personaggio conosciuto in Valle Po come cacciatore di camosci e gestore di locanda; dopo la metà dell’Ottocento decide di fare la guida alpina. Nel 1870 il conte Carlo Pensa di Marsaglia lo definisce “la migliore guida del Monviso”.
Al VII Congresso degli alpinisti italiani del 1874, immortalato dalle famose fotografie alle sorgenti del Po, viene stilato il primo elenco delle guide e dei portatori della valle, che nel 1880 sono già inquadrati in un regolamento ufficiale. Al tempo il Monviso costa 20 lire per la guida e 5 lire per il portatore.
Mentre tramonta la stella di Re nasce la storia dei Perotti, la più prolifica dinastia di guide della Valle Po. Se Antonio Perotti era già stato compagno dello stesso Re, dunque pioniere tra i pionieri, Claudio Perotti è già così a suo agio con il Monviso da issarvi la croce di sei metri il primo settembre 1896, fissando alla base il pesante bassorilievo della Madonna. Senza dubbio è stato la più grande guida del Monviso e si tramanda che ne abbia scalato la cima ben 470 volte, in ogni stagione e con ogni sorta di cliente, guadagnandosi la stima di Guido Rey e Bartolomeo Gastaldi. La sua parabola professionale corrisponde con la fortuna di Crissolo, che agli inizi del Novecento, grazie proprio al Monviso, era una stazione turistica di tutto rispetto, crocevia di villeggiature e ascensioni.

Le guide del Gran Paradiso
Assai meno definibile è la tradizione delle guide del Gran Paradiso, versante piemontese, che non eccellono come scuola, ma si distinguono con alcune personalità di rilievo. Sono gli inglesi, a metà dell’Ottocento, a stanare i montanari di Ceresole e dintorni più adatti a condurli sulle cime, e così emergono i nomi di Andrea Blanchetti, specialista del Ciarforon e autore di sei prime ascensioni nel gruppo del Paradiso, e di Giovanni Oberto, che per circa quindici anni alterna il lavoro di guida di guardacaccia della riserva reale, e si guadagna i galloni come accompagnatore raccomandato dal Baretti e da John Ball.
Nicolao Riva estende la sua azione fino alla Vanoise, salendo la Grande Casse, Bartolomeo Rolando lavora con il Duca degli Abruzzi accompagnandolo alla Levanna Orientale, Bartolomeo Oberto è la guida di Giosuè Carducci e Giacomo Pezzetti Tonion, nella prima metà del Novecento, è il signore del Vallone di Piantonetto e del Becco della Tribolazione, ma si spinge fino al Cervino nel 1925 e accompagna sulla cima del Gran Paradiso Achille Ratti, il papa alpinista.
Nelle vicine Valli di Lanzo, oltre ad Antonio Castagneri, si mettono in luce i due ussegliesi Francesco Ferro Famil, insignito del Premio al Carattere Città di Torino per i soccorsi in montagna, e Pietro Re Fiorentin, che inizia la carriera scalando la parete nord della Lera e continua con clienti di rango, tra cui Cibrario, Bobba e Vaccarone.
Sono tutte guide che approfittano della notorietà mondana di Ceresole e delle Valli di Lanzo, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo breve, ma non riescono a creare un vero albo professionale. Restano spesso confinate nelle loro valli, aspettando i clienti sulla porta di casa.

Le guide del Monte Rosa
Ad Alagna Valsesia, sul versante piemontese del Monte Rosa, si distingue sopra tutte la famiglia dei Chiara.
Il progenitore Giuseppe, classe 1886, si sposta dal Monte Rosa all’Ortles e dal Monte Bianco alle Dolomiti, salendo per primo la parete sud della Punta Gnifetti e accompagnando Ninì Pietrasanta sulla parete nord del Corno Bianco. È a lungo custode dell’Osservatorio Margherita e delle capanne Gnifetti e Margherita. Muore sul Lyskamm Occidentale.
Il figlio Giacomo ne eredita la passione e il mestiere, distinguendosi in imprese di valore assoluto come il superamento del seracco del Ciarforon, nel gruppo del Gran Paradiso, e gli strapiombi di Fürggen al Cervino, con Luigi Carrel il piccolo. Muore in un crepaccio del Grenz durante una missione partigiana. Il suo corpo sarà restituito dal ghiacciaio nel 1963.
Nella valle di fianco, la valle di Macugnaga, emigrano e lavorano i due eccezionali cultori del terreno misto Ferdinand Imseng e Mattia Zurbriggen. Sono due tra le più grandi guide del periodo d’oro della professione, Imseng sulle montagne di casa, soprattutto sulla parete est del Monte Rosa, Zurbriggen in ogni parte del mondo. Il suo nome è legato per sempre allo stesso Monte Rosa, con la prima traversata del Colle Gnifetti, al Pioneer Peak (6893 metri), nel Karakorum, e all’Aconcagua (6970 metri), nelle Ande. Muore a Ginevra nel 1917, vittima dell’alcol e della solitudine.

Il nuovo volto della professione
Gli anni Ottanta segnano il tempo della specializzazione, perché nessuna guida è più in grado di eccellere su ogni terreno: mantenuta la comune vocazione all’alta montagna, emergono gli specialisti delle cascate di ghiaccio, del canyoning, dell’arrampicata sportiva. Oggi una guida, oltre che un ottimo tecnico emerso da dure selezioni, dev’essere anche un buon comunicatore e un imprenditore di se stesso, deve saper scalare sulle Alpi e, all’occorrenza, organizzare viaggi e spedizioni all’estero.
Soprattutto deve insegnare la montagna, perché non basta più portare il cliente sulla vetta, “come una fascina” dicevano i vecchi, ma bisogna aiutarlo a imparare, conoscere e diventare alpinista lui stesso, se lo desidera.
In Piemonte ci sono stati degli inimitabili “ambasciatori” di questa evoluzione. Primo fra tutti Giorgio Bertone, che ha saputo innovare, colorandolo a tinte accese, anche l’abito esteriore della guida, oltre all’atteggiamento professionale, e poi Guido Machetto, Gianni Comino e Gian Carlo Grassi, buoni maestri oltre che grandi alpinisti. Ma se alla fama di questi, che comunque restarono più alpinisti che guide, non si fosse affiancato un nuovo modo di intendere il mestiere, con dedizione totale sia sul piano dell’impegno che su quello delle proposte, di certo il Piemonte non avrebbe il ruolo che merita nella storia moderna delle guide alpine.
Nel 1974 nasce l’AGAI (Associazione guide alpine italiane), guidata con coraggio e lungimiranza dall’ossolano Giorgio Germagnoli. Dal corso guide del 1976 escono personaggi come Alberto Re, Alberto Paleari, Rio Celso e Franco Girodo, che accantonando l’alpinismo personale si dedicano anima e corpo alla professione, allargando il ventaglio delle attività dall’alpinismo allo scialpinismo, spaziando in tutto il mondo e in tutte le stagioni con i viaggi e le spedizioni. Nel 1985, Re è la prima guida a condurre due clienti su una cima di ottomila metri (il Gasherbrum 2), e lo stesso Re, nel 1997, diventa il primo presidente del Collegio nazionale delle Guide alpine.
Dopo Zurbriggen, che un secolo prima era stato capace di superare il provincialismo della guida di valle, questi alpinisti-guide di fine Novecento, unendo passione, intelligenza e mestiere, hanno portato la figura della guida fuori dai confini regionali e nazionali, modernizzandone il messaggio e l’immagine. Forse non hanno raggiunto i risultati sperati, perché altra strada resta da fare, ma certo hanno indicato la via.