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Una vita (non solo) da scalatore


Nel 1966 Walter Bonatti ha chiuso da un anno l’avventura del grande alpinismo. Agli occhi del pubblico è ancora il più popolare alpinista vivente, un’icona dell’esplorazione, anche se per conto del settimanale “Epoca” sta orientandosi verso nuove mete: deserti, foreste, fiumi e terre lontane. È naturale che alla domanda sulla più bella montagna del mondo risponda attingendo alle esperienze e agli amori della sua vita alpinistica, che a parte le avventure extraeuropee (la Patagonia, il K2, il Gasherbrum 4) si è concentrata sulle Alpi occidentali.
Il Monte Bianco è il massiccio che più ricorda le cime himalayane, con grandi dislivelli, altissime pareti e minacciosi ghiacciai, e lì Bonatti ha scalato praticamente tutto. Walter è l’uomo del Bianco, perché più ancora che sull’abilità tecnica può contare su una straordinaria resistenza e una sorprendente attitudine per l’alta montagna. Frequenta il tetto d’Europa da quando era ragazzo, lo ama come una seconda casa. Nel 1957 si è stabilito a Courmayeur ed è diventato guida del Monte Bianco, continuando a collezionare successi e ad alimentare polemiche. I giornalisti che lo idealizzano sono gli stessi che non gli perdonano fallimenti e tragedie, come quella, spaventosa, sul Pilone Centrale nel 1961, dove morirono quattro forti alpinisti e Bonatti portò gli altri in salvo.
Ha amato in modo particolare la parete settentrionale delle Grandes Jorasses, la più difficile e tenebrosa, scalando lo sperone Walker a 19 anni, firmando la prima invernale e aprendo una via nuova sullo sperone Whymper. Le Grandes Jorasses da nord sono forse la montagna che gli assomiglia di più. Un luogo selvaggio, quasi ai confini del mondo.
Non meno solitaria è l’ombrosa parete del Cervino di Zermatt, il Matterhorn, su cui Bonatti ha chiuso la mitica carriera nel febbraio del 1965, aprendo da solo e in inverno una via diretta. Tutti ricordano la sua foto accanto alla croce di vetta, dove il trentacinquenne Walter s’inginocchiò e pianse.