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Storia di ghiacci, storia di uomini


In mille anni i ghiacciai della Valle d’Aosta sono molto, molto cambiati, soprattutto nell’idea degli uomini. Per ricostruire una traccia di storia dal Medioevo ai giorni nostri è necessario incrociare i mutamenti del clima con i mutamenti del pensiero, senza dare mai per scontato un collegamento meccanicistico tra gli uni e gli altri. Sì, il pensiero è stato condizionato dal clima (e dunque dalle periodiche fasi di avanzata e ritiro dei ghiacciai), ma nel contempo ha seguito sentieri religiosi e filosofici autonomi, indipendenti dalle contingenze climatiche, dalle alluvioni, dalle catastrofi, sviluppando nei secoli un’idea di ghiacciaio completamente antitetica al mito originario.

L’Eden del Medioevo
Del Medioevo sappiamo che si trattò di un tempo benigno sul piano climatico, almeno fino ai primi anni del tredicesimo secolo quando i coloni walser scavalcarono gli alti colli intorno al Monte Rosa, e dal Vallese scesero in Val d’Ayas e nella Valle del Lys. Si transitava con le bestie sul Col du Mont Cervin (il Teodulo), forse si scavalcava l’ostile Félikjoch, sicuramente si abitarono e si coltivarono anche in inverno alte terre come Varda, Vasè e Verra, sotto i ghiacciai di Rollin e di Verra, e l’alpe di Félik, nel bacino glaciale del Lys.
Intorno a quest’epoca d’oro delle Alpi, che forse si incrinò tra il 1200 e il 1300 con una breve avanzata dei ghiacciai, e sicuramente finì nel 1500 con l’inizio della “piccola età glaciale”, è fiorita una mitologia di ispirazione pagana e cristiana: biblicamente può essere collocata al tempo dell’Eden, ma storicamente corrisponde ai secoli dopo l’anno Mille; se ne trova traccia in Savoia, nell’Oberland, nel Vallese e anche in Valtournenche, ai piedi del Cervino, anzi prima del Cervino:
«Nei tempi dei tempi – racconta la leggenda -, l’immensa piramide di rocce di nevi e di ghiacci non esisteva. Allora i monti non erano irti di punte e solcati da crepacci, ma formavano una grande giogaia uniforme, che abbracciava a semicerchio il fondo della valle, la conca prativa che ora si chiama Breuil.
Un’epoca beata, quella, per le valli d’Aosta! Esse erano sotto la protezione di un gigante, chiamato Gargantua, genio benefico di quei luoghi. Le valli godevano di un clima mitissimo, così che si potevano tenere gli armenti agli alti pascoli, a circa duemila metri d’altezza, fin quasi a Natale. Immense praterie fiorite si stendevano sulle pendici dei monti, i pastori vivevano nella più felice abbondanza. Il latte era in sì gran copia da formare ruscelletti, nei quali gli agnelli si dissetavano. I ragazzi giocavano ai birilli con pallottole di burro, ai dischi con forme di formaggio. Tutti andavano d’amore e d’accordo; il male, l’invidia, la cattiveria erano sconosciuti…».
Ma un brutto giorno l’armonia tra i valligiani e il loro dio – mediata da personaggi magici come il gigante Gargantua o l’Ommo Sarvadzo: l’uomo selvatico -, è brutalmente annientata dalla stoltezza dei montanari. L’Ebreo Errante, maledetto dal Cristo sulla croce, diventa il mediatore del tradimento:
«Ora avvenne che l’Ebreo Errante capitò alla città sul colle eccelso (il Teodulo): i buoni montanari lo accolsero senza diffidenza e gli diedero ospitalità, non sapendo che, con l’opporsi così alla volontà di Dio, si esponevano alla sua terribile vendetta.
Infatti, dopo mille anni, l’Ebreo Errante ritornò per la seconda volta sul colle. Avvicinandosi a quei luoghi, un tempo ameni e deliziosi, egli sentì il cuore battere forte nel petto. Una fitta nebbia si levò dinanzi a lui, togliendogli la vista del paesaggio, un brividò di freddo lo raggelò. Egli camminava sempre. A un tratto un vento furibondo spazzò l’orizzonte e l’Ebreo contemplò inorridito uno spettacolo di desolazione. Le pendici verdeggianti e i boschi folti erano scomparsi, scomparsa la bella città sul colle. Ovunque deserto e silenzio, rocce dirupate, gelide nevi, ghiacciai minacciosi…».
Il mito della città sepolta (il regno perduto) ritorna nella leggenda della città di Félik. Dio è rappresentato da un vecchio stanco:
«Una sera d’autunno, al cader della notte, un povero vecchio con un bastone in mano arrivò alla città e chiese da mangiare e un po’ di fieno o di paglia per passarvi la notte. Lo misero spietatamente alla porta, dopo averlo preso in giro e maltrattato. Il mendicante attraversò la città e si diresse verso il colle (il Félikjoch), ripetendo queste parole: “Stasera nevicherà, domani nevicherà, dopodomani nevicherà e la città maledetta non si salverà più!”
“Vattene!” gli gridava la gente, “ritirati, uccello del malaugurio! Profeta sinistro! Che la tua magra carcassa non lasci l’ombra nella nostra città né nei dintorni!” Il poveretto passò il colle e dalla sera stessa cominciò a cadere una neve rossa come il sangue.
Gli abitanti, nella loro colpevole noncuranza, passarono la notte nei piaceri. Intanto continuava a nevicare senza smettere e l’indomani nessuno potè uscire. Nei giorni seguenti, la neve continuò ostinatamente a cadere seppellendo per sempre la città maledetta sotto il suo lenzuolo, formando così ciò che oggi si chiama il ghiacciaio del Félik…».
Il patto di alleanza è rotto definitivamente. I ghiacci avvolgono i peccatori come le fiamme degli inferi, e li sotterrano con il loro orgoglio. Con la “piccola età glaciale” di metà millennio, che durerà fino al 1850, prende forma l’idea più negativa delle alte quote e dei ghiacciai alpini, simboli del disordine e della collera divina. Lutero bolla le montagne come un prodotto del peccato, il lascito apocalittico del diluvio universale. L’Eden è diventato l’Inferno.

Demoni e presagi: l’inferno
Nel 1673 il viaggiatore inglese John Evelyn scrive:
«La natura ha spazzato tutte le immondizie della Terra nelle Alpi, allo scopo di spianare e di ripulire la pianura della Lombardia».
Gli fa eco il teologo Gilbert Burnet:
«La Terra, se noi la consideriamo nel suo complesso, non è un insieme bello e ordinato, ma una massa confusa di parti accumulate alla rinfusa, senza badare alla bellezza e alla simmetria. Le montagne a che cosa servono? Se si potessero sopprimere, cosa perderebbe la natura se non un peso inutile?».
Un peso inutile e calamitoso, si potrebbe aggiungere, se si considerano i terribili racconti che accompagnarono i primi viaggi sulle Alpi e le tragiche cronace che segnarono il destino dei montanari nei secoli più difficili della loro storia. Scrive Sebastian Münster nel lontanissimo 1546:
«Mentre cavalcavo diretto alla Furka, giunsi vicino a un’immensa massa di ghiaccio, spessa, a quel che potei giudicare, da due a tre picche militari e larga quanto la portata di un arco possente. Quanto alla lunghezza, si stendeva indefinitamente verso l’alto, tanto che non se ne poteva vedere la fine. A chi la guardava offriva uno spettacolo terrificante…».
Terrificanti e maledetti, sono i due connotati più diffusi per i monti e i ghiacciai. Le guglie e i lunghi ghiacciai settentrionali del Monte Bianco erano considerati ancora nel ‘700 “Montagnes maudites”, luoghi maledetti (come attesta il de Saussure nei suoi famosi “Voyages”) e nel medesimo secolo dei lumi i demoni, le streghe e gli spiriti immondi popolavano gli incubi e le fantasie dei montanari, tra Chamonix e Courmayeur, sui due versanti del massiccio. C’è una ragione di natura fisica, oltre che soprannaturale, ed è che i ghiacciai sono cresciuti quasi ininterrottamente per tre secoli, hanno inghiottito i pascoli e le case, hanno ucciso pastori e contadini, hanno minacciato la sopravvivenza dei villaggi alpini con frane, valanghe e alluvioni. I ghiacciai hanno portato la paura delle cime.
E torniamo in Valle d’Aosta. Nella seconda metà del 1500 il Ghiacciaio del Rutor, che gravita sulla valle di La Thuile, è già avanzato talmente da sbarrare il lago omonimo con una diga soggetta a continui movimenti. Ne deriva una devastante serie di inondazioni, nel 1594, nel 1595, nel 1596 e nel 1597. Le allarmatissime autorità di La Thuile e di Aosta convocano d’urgenza i due esperti Tubinger e Soldati, che, per diecimila ducatoni, propongono di scavare un tunnel nella roccia per evacuare le acque del lago, oppure di bloccare la fuoriuscita del canale di scolo con un’ulteriore diga di pietre e di tronchi… Nessuno riesce a porre un rimedio, e le tracimazioni continuano per decenni e decenni malgrado le processioni annuali sul luogo del disastro.
Nel 1717 le cronache registrano la tragedia di Pré-de-Bar, in Val Ferret, sul fianco meridionale del Monte Bianco. Il 12 settembre il villaggio di povere baite viene spazzato via dal crollo di un pilastro granitico che causa un cedimento del Ghiacciaio del Triolet, così improvviso, a quanto raccontarono i testimoni, che neppure gli uccelli riuscirono a scappare e morirono intrappolati nei loro nidi.
Analoga sorte toccherà al villaggio di Saint-Jean-de-Perthuis, in Val Vény, alla base del crestone del Mont Noir de Peutérey, inghiottito dal Ghiacciaio della Brenva durante uno dei suoi periodi di rovinosa espansione.

Il Purgatorio di ghiaccio
C’è un seguito alla leggenda della città di Félik, che introduce il tema del Purgatorio. Propriamente, nel leggendario popolare della Valle del Lys e di altre vallate alpine (ad esempio la Loetschental), i ghiacci non rappresentano l’inferno dei dannati, ma l’asilo transitorio delle anime purganti. Il Purgatorio è l’invenzione medievale di un luogo intermedio tra la terra e il cielo (la montagna), tra l’Inferno e il Paradiso, dove i peccatori sono condannati al confino e a una peregrinazione senza requie. Vagano, soffrono ed espiano, nella speranza che le preghiere dei loro cari infine li traggano in salvo.
Nel silenzio delle gelide notti senza luna, chi abita gli alpeggi più prossimi ai ghiacciai può udire i lamenti dei morti che chiedono pietà, e talvolta i sentieri dei vivi (pastori, cacciatori, contrabbandieri) incrociano i sentieri dei morti:
«Alcune centinaia di anni fa, un uomo della valle del Lys che desiderava andare nel Vallese attraverso il ghiacciaio di Félik, stava per raggiungere il colle quando cadde in un grande crepaccio.
Molto fortunatamente, l’uomo scivolò lungo una parete obliqua e si trovò in fondo al ghiacciaio senza altri danni che qualche leggera contusione. Dopo essersi ripreso dallo stupore, constatò di essere realmente sotto il ghiacciaio. Un po’ di luce che penetrava attraverso il crepaccio gli permise di rendersi conto di ciò che lo circondava. Era una grande sala oblunga, con la volta e le pareti in ghiaccio verdastro che si innalzavano sulla roccia viva; da lontano si sentiva la cascata d’un ruscello che precipitava nell’abisso…
Intanto era scesa la notte e l’uomo gemeva penosamente sotto la roccia, in preda alle più crudeli angosce. Ad un tratto, una luce viva brillò ai suoi occhi e nello stesso momento tutta la grande sala di ghiaccio fu inondata di luce, come in un incantesimo; una tavola apparve improvvisamente nel mezzo carica di ogni specie di cibo; un gran numero di convitati, seduti o in piedi, stavano attorno a quel banchetto ma sembravano colpiti da grande tristezza…
L’uomo notò allora in un angolo della tavola una donna ancora più triste degli altri convitati; piangeva e sembrava inconsolabile. In capo a qualche minuto ella s’avvicinò al nascondiglio in cui stava il nostro uomo, che le chiese in nome di Dio cosa significasse tutto ciò e se potesse aiutarlo a uscire dal ghiacciaio. Allora la donna gli rispose con voce debole e languida:
”Sì, vi posso aiutare ad uscire di qui, ma a condizione che anche voi mi aiutiate ad ottenere la stessa grazia, pregando per me che così sarò liberata dalle pene. Tutte le persone che avete visto sono anime che soffrono ed espiano qui le loro colpe, prima di entrare nella gloria di Dio. Molti secoli fa, in questo luogo esisteva una città che, una sera, fu punita a causa dei suoi peccati…”».
Era la città di Félik, che aveva rifiutato la carità al santo mendicante.

La ricerca del Paradiso perduto
Chi pensa che fu la scienza a spingere gli uomini oltre la frontiera dei quattromila metri si sbaglia. I primi esploratori dei ghiacciai, al contrario, furono sette ragazzi di Gressoney in cerca del Paradiso. Raggiunsero i 4200 metri del Colle del Lys otto anni prima che Paccard e Balmat, su volere di de Saussure, scalassero il Monte Bianco da Chamonix.
Nelle tre valli principali del Monte Rosa era voce comune, ancora nel Settecento, che in qualche recesso del massiccio dovesse trovarsi la valle favolosa, ricca un tempo di campi, di fiori e di delizie, abbandonata precipitosamente dagli uomini per l’avanzata dei ghiacciai: la Verlorne Thal, la Valle Perduta. Le voci popolari si arricchivano a ogni racconto e narravano di cacciatori che l’avevano intravista da lontano, o di contrabbandieri e pastori che si erano imbattuti in un regno magico da cui erano fuggiti spaventati. Ma intanto la curiosità cresceva, e come spesso avviene in questi casi i montanari walser prendevano gusto a trastullarsi e a punzecchiarsi con il loro mistero, sussurrando di tesori e di sortilegi nascosti:
«Gli abitanti di Macugnaga – scrive il teologo Giuseppe Farinetti -, non sapendosi dare ragione di come mai a breve distanza dal grande ghiacciaio che scende fin quasi nel mezzo delle loro praterie sgorgasse un’abbondante e limpida fontana, le cui acque si mantengono in tutte le stagioni a circa eguale volume e temperatura, dicevano che quelle acque, già scorrenti nella Valle Perduta, chiuso ad esse ogni adito dai ghiacci e dalle frane, si erano aperte un varco sotterraneo per venire a scaturire nella loro valle dove danno origine al Grosse Brunnen: il Fontanone».
Ma la leggenda era assai viva anche nelle convalli del Sesia e del Lys, tanto che sette giovani gressonari si organizzarono per precedere i concorrenti alagnesi nell’ascensione:
«La partenza è fissata per la mezzanotte del 15 agosto 1778: in un’ora la carovana raggiunge il Colle di Satz da dove obliquando verso destra ci si porta sul pendio dell’Hohes Licht. Pervenuti in cresta essi ne seguono il filo fino al ghiacciaio che viene raggiunto allo spuntar del giorno verso le quattro del mattino. Dopo un breve spuntino la comitiva si rimette in marcia in cordata nell’ordine seguente: Valentino Beck che è il più anziano è in testa, secondo è Giuseppe Beck, terzo Sebastiano Linty, quarto Etienne Lisge, quinto Giuseppe Zumstein, sesto Nicolas Finzens e ultimo François Castel. Distanziati a circa tre metri l’uno dall’altro essi si aiutano col bastone ferrato, hanno nei piedi le grappette ed è inteso che qualora il capo-cordata avesse a fermarsi tutti dovranno arrestarsi, mantenendo sempre la corda ben tesa tra l’uno e l’altro: e così eccoli in cammino attraverso il ghiacciaio.
“A misura che si avanzava, scrive il Beck, l’aria si faceva sempre più rarefatta e questo oltre a darci dei dolori di testa ci rendeva il respiro affannoso e difficile per cui dovevamo fare delle frequenti fermate per ingerire degli alimenti atti a tonificare il nostro organismo debilitato. Ma lo stomaco rifiutava qualsiasi cibo e solo il pane e le cipolle erano vivande che ci appetivano…”».
Infine raggiunsero una roccia caratteristica che battezzarono in tedesco Entdeckungsfels, la Roccia della Scoperta. Da lassù non videro i mitici prati in fiore dei loro avi, ma videro le infinite distese di ghiaccio che si estendevano nel bacino svizzero del Gorner:
«Eravamo sicuri di aver scoperto una valle nascosta di cui da un pezzo si dubitava l’esistenza, ma che non era mai stata visitata. Eravamo molto tentati di continuare la nostra esplorazione, ma il tempo trascorreva veloce e l’orologio marcava già le due del pomeriggio per cui si decise di ripartire per non essere sorpresi dalla notte sul ghiacciaio».
Non avevano trovato il Paradiso delle antiche genti walser, ma avevano aperto la strada a un paradiso moderno, secolarizzato, il luogo delle avventure e dei giochi degli alpinisti.

Il Paradiso dei viaggiatori e degli alpinisti
Nella seconda metà del Settecento i ghiacciai continuano ad avanzare, ma cambia completamente lo sguardo degli osservatori. Con la sensibilità romantica gli intellettuali scoprono il fascino dell’orrido, del favoloso, del sublime, e proprio i ghiacciai che erano stati simboli di terrore e di morte diventano motivo di attrazione per i primi viaggiatori delle Alpi. Gletschers e glacières sono le mete più ricercate soprattutto in Svizzera, tra gli immensi bacini dell’Oberland, e in Francia, tra i seracchi dei Bossons e i crepacci della Mer de Glace, ma anche in Valle d’Aosta si preparano a transitare i primi estimatori dei “deliziosi orrori” dei ghiacci:
«Era notte fonda quando arrivammo a Pré Saint Didier» scrive Alexandre Dumas nel 1833.
«Il giorno seguente il primo che aprì gli occhi gettò grida di ammirazione che diedero la sveglia a tutta la compagnia: eravamo arrivati di notte, come ho detto, e non avevamo la minima idea della vista magnifica che si coglieva dalle finestre dell’albergo… Ci trovavamo ai piedi del Monte Bianco, ma sul versante opposto a Chamouny. Cinque ghiacciai scendevano dalla cresta nevosa del nostro vecchio amico e chiudevano l’orizzonte come una muraglia. L’inaspettato panorama, che nulla ci aveva lasciato presagire, era forse quanto di più bello avevamo trovato durante tutto il nostro viaggio».
A questo punto, sì, i regni perduti possono venire fisicamente riconquistati. Con scale, piccozze e ramponi. L’avventura dell’alpinismo è quanto di più eccitante riservino i saturi orizzonti del Vecchio Continente; nel cuore dell’Europa asservita dalla mano civilizzatrice degli uomini, c’è ancora un lembo di alte terre selvagge, ricettacolo della wilderness, frontiera della sfida. Così in due secoli di esplorazioni, ogni angolo delle Alpi – anche le pareti più ostili e verticali – perde la sua aura di mistero e diventa “terra conquistata”. I ghiacciai sono percorsi in lungo e in largo, d’estate e d’inverno, a piedi e con gli sci, e al mito si sostituisce il turismo, lo sport, il piacere. Anche l’incognita, anche la paura, sono valorizzate dalla nuova moda delle vacanze alpine che promette a tutti panorami, sorprese ed emozioni.
Nell’Ottocento i ghiacciai della Valle d’Aosta, soprattutto le seraccate del Monte Bianco e i plateau gelati del Monte Rosa, diventano l’irresistibile attrattiva di un turismo borghese che ha scoperto il “bello” dove un tempo i montanari vedevano caos e rovina, ha trovato il piacere nei luoghi delle leggende e delle tragedie contadine, e ha nobilitato la fatica che i valligiani subivano come un castigo divino.
Infine con il Novecento, e con l’industria del turismo di massa, anche la fatica viene cancellata dalle funivie e i ghiacciai diventano sfondo di inconsapevoli giochi sulla neve. Si scia anche d’estate sui ghiacciai del Gigante, del Teodulo, di Punta Indren, ma è come se si scivolasse su una superficie sintetica, in ambiente asettico e preconfezionato. I crepacci non ci sono più, il vento non c’è più, anche il freddo è stato sconfitto. Sembra più un Limbo che un Paradiso.