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Paesaggi e vita montanara


Prima che una scelta estetica, e prima che un fatto tecnico, la fotografia è una scelta culturale. Il fotografo non è mai uno spettatore passivo che documenta la realtà così come essa è, perché la visione oggettiva del mondo non esiste e ogni realtà si presta a un numero di rappresentazioni pari agli occhi di chi la osserva. Dunque infinito.
La favoletta del documento scevro da interpretazioni e punti di vista può forse funzionare per un’asettica descrizione del mondo fisico (ma anche i fenomeni fisici hanno una loro “personalità” e sono suscettibili a un’infinita gamma di visioni soggettive), ma non può di certo funzionare per un mondo, come quello alpino, reso vivo dai montanari che vi abitano e dai forestieri che, non più di tre secoli fa, scelsero di esplorarlo e “conquistarlo”.

Fotografia alpina
La fotografia ha accompagnato circa la metà della storia delle Alpi “conosciute”, cioè delle Alpi rivelate agli occhi dei cittadini (tutti i primi fotografi, così come i primi pittori di montagna e i primi scrittori, erano cittadini) e dunque “esistenti” come realtà esterna, degna di un’osservazione prospettica. I precedenti dieci-dodicimila anni di storia, corrispondenti al popolamento umano delle alte quote dopo la grande glaciazione, appartengono alla storia dei montanari e a una visione “interna”, introspettiva della montagna, foriera di ben diverse rappresentazioni soprattutto attraverso l’artigianato e l’intaglio. Le cime e i ghiacciai ne erano generalmente esclusi.
Le Alpi si potrebbero storicamente definire come un “incidente naturale” nel cuore della vecchia Europa. Fino a tutto il diciassettesimo secolo sono state considerate una barriera possente e selvaggia che si alzava a turbare le linee ordinate delle pianure e delle colline, ostacolando la mano civilizzatrice dell’uomo e i suoi disegni colonizzatori. La letteratura e le arti che per secoli e secoli cercarono l’armonia, l’equilibrio e la simmetria del paesaggio, rincorrendo l’antico mito dell’arcadia, rimossero quasi completamente l’esistenza delle montagne perché, oltre a fare paura, non rispondevano neanche lontanamente al concetto classico del “bello”. La teologia protestante fondata da Martin Lutero le interpretò addirittura come il prodotto del diluvio universale, apocalittica raffigurazione del disordine e del male.
Nel 1671 il teologo Burnet si trova involontariamente al cospetto delle Alpi mentre accompagna il giovane conte di Wiltshire lungo l’itinerario del Grand Tour. Le montagne lo atterriscono e generano in lui un fiume di domande:
“Non trovai pace finché non fui in grado di darmi una spiegazione accettabile di come quel disordine fosse entrato nella natura”.
Premesso che “il mondo è immerso a tal punto nella stupidità e nel piacere dei sensi che si potrebbe raccontare che i monti crescono sulla Terra come vesce o che sono prodotti da certi mostri, come le talpe producono i loro cumuli di terriccio, e la gente non avrebbe alcunché da obiettare”, la spiegazione non poteva essere che una: il Dio che aveva fatto le Alpi non era un provvidenziale orologiaio, ma un sublime, anche se furibondo, drammaturgo. La Terra al tempo della Creazione era una sorta di “uovo terrestre, senza un segno né una frattura sul suo corpo, nessuna roccia, nessun monte”, ma il Diluvio inviato a lavare la malvagità del mondo aveva sconvolto per sempre quella purissima sfera primordiale, creando le montagne.
Il Settecento fu il secolo della grande svolta. Da pattumiera del mondo fisico e artistico, in pochi decenni le Alpi furono promosse a oggetto delle indagini illuministe e a rifugio della spiritualità romantica. Da un lato gli scienziati iniziarono una capillare opera di esplorazione del territorio alpino per fare luce sull’origine dei fossili, sulla nascita dei fiumi e sulle teorie leggendarie dei ghiacciai, risolvendo contemporaneamente molti problemi cartografici, dall’altro lato gli uomini d’arte e di lettere influenzati da Haller e da Rousseau cominciarono a rovesciare la visione tradizionale delle Alpi, scoprendo nei luoghi malfamati del passato il segno del bello e del sublime. Le cascate e i ghiacciai alpestri divennero ricercate mete di escursioni romantiche, destarono la meraviglia dei viaggiatori e impreziosirono con i loro “deliziosi orrori” i taccuini dei borghesi e degli artisti che avevano la ventura di addentrarsi nelle vallate.
Anche i montanari divennero oggetto di appassionata osservazione e, loro malgrado, furono chiamati a interpretare il modello del “buon selvaggio” che rispondeva alla nuova sensibilità romantica. Scrive Jean-Jacques Rousseau:
“Avrei trascorso tutto il viaggio immerso nell’incanto del paesaggio, se il commercio della gente non me ne avesse offerto uno anche più dolce… Non è possibile immaginare la disinteressata umanità, la premurosa ospitalità per lo straniero che il caso o la curiosità conducono tra loro… Tutti accorrevano con tale premura a offrimi la propria casa che non sapevo quale scegliere. Sono così disinteressati che in tutto il viaggio non ebbi modo di spendere un solo scudo”.
Bellezza del paesaggio (prima i ghiacciai e le cascate, poi via via anche le creste, le pareti, i precipizi, e naturalmente i villaggi) e mito del montanaro semplice e puro sono i due ingredienti fondamentali che accompagnano e sostanziano la “scoperta” della montagna da parte dei viaggiatori dell’Ottocento, i cultori del Grand Tour, i frequentatori dei sanatori alpini, e resistono pressoché inalterati (anche se insidiati dal turismo e dagli stereotipi della villeggiatura) fino al termine del secolo, cioè fino alla nascita della fotografia alpina.
L’eccentrica viaggiatrice inglese Amelia B. Edwards visita la Val Gardena nel 1872 e scrive:
“La capitale della Terra dei Giocattoli si apre davanti a noi, compatta ed estesa, lungo i vasti pendii che costeggiano la riva destra del torrente. Le case sono abitazioni tedesco-tirolesi, spaziose, con tante finestre, i tetti spioventi, le imposte verde chiaro e il giardino, sul davanti, rigoglioso di fiori… Fino a poche settimane prima di St. Ulrich non sapevamo nulla, se non che vi si costruiscono giocattoli e crocifissi di legno. E anche questo in modo vago. Ed ecco che inaspettatamente scopriamo che esiste un legame fra questo villaggio e la nostra infanzia. La memoria mi riporta l’immagine di un cavallino montato sopra una piccola piattaforma a rotelle, un cavallino che ho amato alla follia: nero, con un’eruzione di dischetti rossi in tutto il corpo, la criniera e la coda di pelliccia. Ebbene, quel mio giocattolo era fabbricato nello stile più puro della Val Gardena.
Il giocattolo non è altro che un simbolo, forte e persuasivo, per dire che la montagna è un ritorno all’infanzia, un viaggio fuori dal mondo, o addirittura un viaggio sopra il mondo. Ed ecco allora che la fotografia, più o meno consciamente, diventa la certificazione di questa visione, rendendo finalmente visibili a tutti quelle bellezze e quelle sensazioni che per un secolo intero hanno accompagnato i racconti orali e gli scritti dei viaggiatori. Un esempio? Provocatoriamente il Vittorio Sella che circa vent’anni dopo la Edwards percorre le Dolomiti e fotografa due minuscole figure in controluce, forse uscite da una fiaba dei Monti Pallidi, sullo sfondo dello splendido Cimon della Pala avviluppato dalle nubi e illuminato dal tramonto. Ebbene Sella, il meno romantico dei viaggiatori, il più ligio discepolo (e maestro) della scuola documentaristica (“soltanto la fotografia può riprodurre fedelmente gli innumerevoli dettagli degli elementi, che uniti formano il quadro che il nostro occhio vede nella natura”), diventa inconsapevole complice di quella religione dell’Alpe che ha inventato e divulgato i monti del sogno e del mistero.
La cultura romantica precede e orienta la rappresentazione fotografica. La condiziona al punto da eliminare ogni oggetto sgradito (così come, ancora oggi, i fotografi e i grafici eliminano i tralicci e gli orpelli della modernità dalle immagini dei libri e delle riviste di montagna), cancellarlo dall’inquadratura (mentale ancor prima che materiale), rimuoverlo dal messaggio visivo. In fondo anche la fotografia è un’arte (un’arma?) al servizio della virtuosa morale della montagna inaugurata dal Club Alpino Italiano di Quintino Sella e rinnovata da Guido Rey all’alba del secolo. Al pranzo del XXXIV Congresso degli alpinisti italiani (1903) Edmondo De Amicis si rivolge all’Italia:
“A voi egregi commensali, alla gioventù e alla fanciullezza che voi educate ed educherete all’amor virile e gentile delle Alpi, affettuosamente auguro fortuna in ogni forma d’ascensione della vita (poiché vivere, nell’alto significato della parola, è salire); auguro quanta felicità è possibile in un mondo dove è legge la lotta; e tutti i conforti che possono dare ai dolori inevitabili l’ardor del lavoro, il sentimento della forza, l’ammirazione della natura, e una profonda, invitta fede nella potenza infinita del bene, destinato all’ultima vittoria nel mondo”.
Le parole del vecchio Edmondo, padre dell’alpinista Ugo, contengono gli ingredienti fondamentali della morale dell’Alpe. Una sintesi tra i valori di ardimento dell’Italia risorgimentale, laica e liberale, e lo sguardo filantropico del socialismo umanista di inizio Novecento. Tra le righe del messaggio da trasmettere alla “gioventù e alla fanciullezza”, si possono individuare i temi archetipici della religione della montagna: innanzi tutto il vangelo di Guido Rey – “Credetti e credo la lotta con l’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede” –, che attraverserà tutto il secolo stampigliato sulle tessere dei soci del CAI; poi l’archetipo virile e virtuoso della salita, che distingue i casti cimenti delle vette dalle lascive mollezze del piano; infine, accompagnata da una laica compassione per le pene dell’esistenza umana, la fede nel bene superiore (un bene etico segnato da un attributo fisico: più alto, più vicino all’assoluto). In tal modo l’alpinismo, attività atletica fondata su sane pratiche e buone tecniche, si candida come il veicolo simbolico di un riscatto etico e i montanari diventano le rappresentazioni viventi di quello stesso riscatto.
In questo volume compaiono alcune fotografie di lavoro manuale: lavori duri e severi come la stessa montagna che li ha generati. I falegnami di Cortina maneggiano la sega all’ombra del crocifisso, i fratelli Grivel di Courmayeur forgiano ramponi e piccozze per gli alpinisti, due donne in costume dell’Ampezzano tornano dai campi con il rastrello sulle spalle, i militari scavano la traccia nella neve, gli alpini-segantini posano di fronte a un rustico fabbricato ricostruito dopo il terremoto della Calabria, i cacciatori del re posano senza l’immancabile stambecco morto, i tre montanari-falegnami di Zakopane esibiscono costumi chiari e facce scure su una radura, altri montanari vendono ceste e scale a pioli alla fiera di Santa Croce di Trento. In tutte le immagini l’elemento ricorrente è l’assenza del sorriso. Ogni personaggio immortala insieme alla fatica e alla fierezza (visibili anche se non esibite), una sorta di serenità implicita, nascosta, sotterranea, invisibile, che può rivelarsi soltanto attraverso un’interpretazione dell’immagine filtrata da ripetute frequentazioni letterarie delle cime.
La stessa (voluta) assenza di espressione si trova nelle fotografie di gruppo: ancora gli alpini-muratori in Calabria; ancora i cacciatori del re con il fucile in mano; le donne in camicia bianca e gli uomini baffuti (con bandiera) al Col d’Olen; la vita al campo militare del Colle Birrone in Val Varaita; gli alpinisti e (pochi) valligiani schierati sotto le povere case di Crissolo in Valle Po; gli alpini-alpinisti trionfanti ma impassibili sulla cima del Monviso; le guide alpine di Courmayeur con le immancabili corde e piccozze; gli austeri rappresentanti del Club Alpino alle sorgenti del Po, sempre sulla stessa roccia, sempre con le stesse acque rigeneratrici sotto i piedi. Scrive Giuseppe Garimoldi a proposito:
“Le manifestazioni ufficiali (del sodalizio) sono l’occasione che richiama i fotografi professionisti a immortalare l’avvenimento in un’apoteosi di simboli. L’allegoria della sorgente attorno a cui sono radunati i soci del club è anche troppo evidente, tanto più se consideriamo che è quella del maggior fiume d’Italia e che scaturisce dal Monviso, montagna a cui è legata l’idea stessa d’un club italiano”.
Gli sguardi criptici e le arie di cerimonia si stemperano sulle montagne del Sud, evidentemente più libere dai dogmi alpinistici e dagli imperativi pedagocigi. E allora abbiamo ragazze e bimbe quasi sorridenti alla raccolta delle olive e adulti che trattengono a stento la gioia di essere fotografati sul fiume di lava rappresa dell’Etna (entrambe le fotografie provengono dall’archivio del Club Alpino di Catania).
Infine la fotografia di gruppo si manifesta nella forma più spettacolare con le processioni, non importa se laiche o religiose. La teoria dei militari che scendono in fila (quasi) perfetta dal Col Girard nel settembre del 1902 esprime la stessa solennità delle pie donne inginocchiate davanti alla Vergine e al Monte Mucrone, durante la processione da Oropa a Fontainemore. La foto è di Alberto Maria De Agostini, ritoccata con inchiostro di china.
L’assenza di espressione che accomuna le fotografie ufficiali, ma anche le immagini di vita alpina a carattere etnografico e i ritratti dei vecchi montanari che posano dopo una vita di fatiche, è certamente attribuibile a una priorità estetica, all’imperativo degli stessi fotografi e all’austerità dettata dai tempi. Eppure è difficile non pensare che quelle facce rigide e indecifrabili non corrispondano anche all’immagine educativa della montagna, scuola di understatement e disciplina, forgia di caratteri duri e incorruttibili. Lo si deduce con particolare evidenza da alcune rappresentazioni, si potrebbe dire alcuni stereotipi, della vita alpina, tra cui spicca quello delle guide di alta montagna.
Una fotografia particolarmente riuscita, perché dietro l’evidente costruzione dell’immagine comunica una curiosa veridicità, è quella che mostra le due famose guide di Macugnaga Imseng e Zurbriggen in compagnia di un giovane cliente. Imseng, con il panciotto e l’orologio da taschino, sembra uno di quei distinti insegnanti di mezza età a cui si affida l’educazione (non solo sportiva, ma anche morale) dei propri figli. Zurbriggen, possente sullo sfondo con la pipa nella bocca, impersona la forza e l’astuzia del montanaro, in grado di cavarsela senza danno in qualsiasi situazione. Nessun’altra associazione di personaggi avrebbe potuto trasmettere un’immagine più convincente e rassicurante della professione di guida alpina.
L’accento oleografico predomina specialmente nelle immagini sacre e in quelle di vita agreste. Due esempi vengono dalla donna in maniche corte che accarezza il crocifisso ligneo ai piedi dello spettacolare Cervino di Zermatt e dai due contadini con mulo e foglie secche, poveramente ma dignitosamente agghindati, tra i boschi della Valle Angrogna (Val Pellice). L’immagine di Peyrot ricorda un quadro di Segantini e trasmette (artificiosamente) la malinconica e tragica poesia della vita di montagna.
C’è inoltre una fotografia di Szubert, ambientata sugli Alti Tatra polacchi, che ritrae due montanari di fine Ottocento abbigliati in modo ricercato e appoggiati a un sasso presso una capanna di legno. Sullo sfondo una catena di monti innevati. Scrive Garimoldi a proposito di quella precisa immagine:
“Il montanaro in costume, con le montagne come sfondo, è un ambito soggetto per il fotografo in cerca di esoticità; l’apprezzamento dei turisti determinò la fortuna del genere nelle cartoline e nelle immagini souvenir. In effetti i costumi, tramandati da una generazione all’altra e diversi da gruppo a gruppo, sono la distinzione del clan e la testimonianza di una ricchezza culturale autonoma a cui il montanaro si sente particolarmente legato. In questo campo l’intervento della fotografia ha permesso la raccolta di una documentazione che in qualche caso è l’ultima testimonianza di culture scomparse o in via di trasformazione”. Così la foto souvenir si fonde con il documento etnografico e va incontro a due destini contrapposti: la salvaguardia dell’antica identità culturale montana, almeno a livello di rappresentazione visiva dei suoi attributi più appariscenti, oppure l’alterazione e il tradimento di quella stessa identità a scopo turistico e commerciale. A partire dall’invenzione della fotografia, che ha finalmente permesso di “fermare” sulla carta i segni distintivi delle civiltà montane decantate dalla cultura romantica e descritte dai viaggiatori-studiosi dell’Ottocento, la testimonianza etnografica delle terre alte si è sempre dibattuta tra due vie: la conservazione scientifica e la museificazione artificiale. E spesso la fotografia ha seguito la seconda direzione.
Infine la modernità, inevitabile antitesi al vecchio mito della montagna isolata e bucolica. I cotonifici di Pont Canavese si allargano alla base delle montagne riempiendo l’intero paesaggio con i loro corpi possenti e forieri di promesse: lavoro e benessere. La funicolare di Vevey si arrampica sulla montagna ospitando due personaggi che potrebbero simboleggiare la mutazione dei tempi: il conducente arcigno in cravatta e abito nero, probabilmente un locale al quale è stata riconosciuta un’inedita professione, e l’ingegnere forestiero con il farfallino e il gilet.
In questo caso il fotografo (l’immagine è dei fratelli Fischer di Vevey, in Svizzera) è l’inconsapevole servitore di una civiltà nuova, trasgressiva, invadente, destinata a cambiare per sempre i destini delle Alpi. È la civiltà del turismo. La città sale sulle montagne in modi sempre più rapidi ed eclatanti. Negli ultimi decenni dell’Ottocento le strade ferrate sembrano annullare le distanze, avvicinando le valli e bucando le montagne con tunnel futuristici. Nel 1898 un trenino a cremagliera raggiunge i tremila metri del Gornergrat, il più rinomato belvedere di Zermatt, e c’è già chi progetta di costruire una funicolare per il Cervino. La Svizzera conosce l’incremento più vistoso di visitatori: quarantamila nel 1848, cinquecentomila vent’anni dopo, più di un milione nel 1890, quattro milioni alle soglie della guerra.
Sulle Dolomiti la storia si ripete. Nel 1864 viene inaugurata la ferrovia del Brennero da Innsbruck a Bolzano, nel 1871 entra in funzione la linea della Val Pusteria: dall’Austria all’Italia attraverso il valico di San Candido. Gli albergatori di Cortina d’Ampezzo, villaggio dell’impero asburgico, ottengono una stazione a Dobbiaco, e a Dobbiaco sorge il lussuoso Grand Hotel destinato a ospitare aristocratici e regnanti di mezza Europa.
Nel 1887 il giovane alpinista tedesco Theodor Wundt, ottimo fotografo d’alta montagna (“Già nel 1885 incominciai a fare fotografie e diventai un appassionato fotografo. Spesse volte mi trascinavo dietro molti apparecchi anche a posa, con fatiche inaudite, limitando il resto del bagaglio ad uno spazzolino da denti e ad un secondo fazzoletto; e nessun sacrificio mi pareva eccessivo, pur di ottenere una buona fotografia”) racconta il suo viaggio nelle Dolomiti ampezzane:
“A Dobbiaco giungiamo chi dal Brennero e chi dalla valle della Drava. Una fitta frotta di turisti si accalca all’uscita del treno sovraffollato, lieta di lasciare il fumante cavallo a vapore e di poter respirare a pieni polmoni la fresca aria di montagna. Fuori però, davanti alla stazione, ci attende la combattiva schiera dei portieri, facchini e vetturini dai quali non è facile potersi liberare. Si precipitano avidi sulle loro prede: Hotel Ampezzo! Hotel Toblach! Hotel Ploner! Desidera una vettura? Diligenza per Cortina! sono offerte che risuonano furiosamente l’una sull’altra… In violento contrasto, sopra i boschi, si ergono cupi i selvaggi dirupi della Cima Nove”.
Come sembrano lontani i tempi delle due donne ampezzane che tornano dal lavoro con i rastrelli, mentre i ragazzini tirano il carretto su uno sfondo di case linde e ordinate! Ma non è così: l’immagine di Underwood & Underwood è del 1898, dunque undici anni dopo la descrizione del Wundt, ma trattandosi di una cartolina distribuita a New York, Londra, Toronto e Ottawa descrive la realtà di una montagna edulcorata ad uso dei turisti. Di quegli stessi turisti che da oltre un decennio affollano concitati le carrozze e gli alberghi di Cortina, contribuendo a spazzare per sempre (tranne che dalle cartoline) l’immagine bucolica delle contadine ampezzane.