Pubblicazione

Scalare le Alpi


La fondazione del Club Alpino segue di due anni quella del Regno d’Italia, e non si tratta di una coincidenza. Il legame italiano è fisicamente incarnato dalla spina dorsale appenninica, uno scheletro geologico capace di tenere insieme la testa e i piedi dello stivale. Ma paradossalmente, per le Alpi occidentali, la nuova Italia comporta una frattura, perché nel 1860 – l’anno prima dell’unificazione – Cavour ha ceduto Nizza e la Savoia ai francesi in cambio di aiuto diplomatico e militare. Tutti abbiamo studiato il baratto sui libri di scuola: a loro le terre che stavano di là delle Alpi, a noi quelle di qua. Ci è sembrato “naturale” che lo spartiacque alpino separasse i due versanti per destinare a ogni stato le valli e le città che gli spettavano.
Sbagliavamo: la natura non c’entrava affatto. L’idea dello spartiacque era forse “naturale” per i politici e i generali che l’avevano inventata per delimitare gli stati nazionali, certo non per i pastori e i commercianti che attraversavano le dorsali, e neppure per le città di Torino e Chambéry che da secoli si scambiavano il ruolo di capitale. Le Alpi Graie erano al centro del Regno pre-unitario e le alte cime del Monte Bianco, delle Levanne, della Ciamarella e del Rocciamelone non costituivano linea di frontiera. Le creste separavano i due versanti, non le culture e le appartenenze delle persone.
Anche la storia dell’alpinismo si è spesso confusa: per esempio il Monte Bianco non l’hanno scalato i francesi, ma due sudditi del Regno di Sardegna: Paccard e Balmat. Il dottor Michel-Gabriel Paccard, vero artefice dell’impresa, si era laureato all’Università di Torino ed era tornato a Chamonix senza attraversare nessuna dogana. Tutto cambia nel 1860-1861, quando i piemontesi cominciano a pensare che dietro le Alpi abiti lo straniero. Le cime diventano simbolo di patria e Quintino Sella, più volte ministro del Regno d’Italia, si adopera per scalare il Monviso nel 1863 e strappare il Cervino agli inglesi nel 1865. Le montagne non sono più semplici pezzi di roccia che toccano il cielo, ma stanno diventando le sentinelle della nazione. Scalare il Monviso e il Cervino equivale a conquistare simbolicamente una frontiera, imponendo sulla cresta di confine il sigillo del nuovo Stato unitario.

La salita del Monviso e la nascita del Club Alpino
Fa un caldo terribile nell’agosto del 1863, quando Quintino Sella, il conte Paolo Ballada di S. Robert, suo fratello cavalier Giacinto e il barone Giovanni Barracco partono alla volta della Val Varaita, raggiungono Casteldelfino, si spingono oltre i boschi e i sentieri di Vallanta e scalano la cima del Monviso dal versante sud, alzando finalmente la testa di fronte allo strapotere inglese sulle Alpi e siglando idealmente, ma anche materialmente, la fondazione del Club Alpino Italiano in risposta all’Alpine Club di Londra.
Pagine eroiche sono state scritte sull’impresa di Sella e compagni (che vera impresa non fu perché il Monviso non è una cima così difficile da sud, e poi Mathews, Jacomb e le guide Croz avevano già raggiunto la vetta due anni prima strappando ai piemontesi la più piemontese delle montagne) e molto si è detto sulla lunga lettera che il trentaseienne Sella scrisse a Bartolomeo Gastaldi, amico e compagno di studi, non appena furono scesi dalla montagna:
«È una vera crudeltà il venire a te, cui il dovere tenne incatenato sotto quest’afa canicolare in mezzo a carte aride, e fastidiose come il polverio che infesta le strade, e parlarti delle impareggiabili soddisfazioni da noi godute appiè delle nevi, tra quel che gli orrori alpini hanno di più sublime e tremendo. Ma non vorrei che mi tacciassi di mancator di parola, ed eccoti un breve cenno della nostra gita».
In una pregevole lettura critica della missiva a Gastaldi, Pietro Crivellaro ha sottolineato l’accenno retorico agli «orrori alpini sublimi e tremendi», che sono una chiara allusione alla definizione romantica dei «deliziosi orrori delle Alpi», dacché alla fine del Settecento gli spiriti inquieti d’oltralpe, soprattutto artisti e viaggiatori protestanti, avevano cominciato a vedere nelle montagne il sublime nascosto e rivelato dalle pieghe dei precipizi. Però il Sella, che tanto romantico non era, stempera immediatamente l’ardore idealistico con quella parola “gita” che non vuol dire scalata, e neppure ascensione all’inglese, ma semplicemente escursione con motivazioni ludiche e scientifiche.
Poi il giovane Quintino confessa:
«Parecchi strumenti che si erano ordinati non furono neppure all’ordine, sicché i progetti di una serie di osservazioni fatte contemporaneamente in stazioni diverse andarono tutti in fumo. Ci limitammo dunque a trovar modo di giungere alla vetta del Monviso».
Sella era docente di Mineralogia, membro della Regia Accademia delle Scienze e convinto sostenitore della ricerca scientifica, ma sul Monviso si limitò a raggiungere la cima. C’erano altre urgenze:
«Il Monviso era da tutti i touristes, da tutti gli arditi alpigiani che ne vivono ai piedi, dichiarato affatto inaccessibile. Ed è singolare che per tanti secoli non se ne tentasse neppure la salita, mentre vennero montate parecchie cime meno rimarchevoli, e che io giudico assai più difficili (…) Era riserbata alla costanza e all’ardire di un inglese la gloria di salire per primo».
Pur senza dichiarati intenti nazionalisti, la scalata del Monviso vuole mettere fine al primato britannico sulle Alpi occidentali e sostenere l’iniziativa alpinistica degli italiani. Non a caso Sella invita un calabrese a partecipare all’ascensione:
«Mi recai a tentare Barracco onde venisse a rappresentare la Calabria, di cui è oriundo e deputato, su questa estrema vetta delle Alpi Cozie».
Per Sella l’alpinismo incorpora i valori dell’impegno, della ricerca e dell’amor patrio:
«Gli abitanti del Nord riconoscono nella razza latina molto gusto per le arti, ma le rimproverano di averne pochissimo per la natura… Però da alcuni anni v’ha grande progresso… Ei mi pare che non ci debba voler molto per indurre i nostri giovani, che seppero d’un tratto passare dalle mollezze del lusso alla vita del soldato, a dar piglio al bastone ferrato, ed a procurarsi la maschia soddisfazione di solcare in varie direzioni e sino alle più alte cime queste meravigliose Alpi (…)».
Inizia la storia del Club Alpino Italiano, fondato al castello del Valentino di Torino il 23 ottobre 1863, due mesi e undici giorni dopo l’ascensione del Monviso. Una quarantina di soci riunita in assemblea approva lo statuto e vota il primo consiglio di direzione. Tra i fondatori ci sono alcuni deputati del Regno e un «piccolo mondo cittadino di personaggi autorevoli, gentiluomini, studiosi, professionisti, benestanti, che – osserva Massimo Mila – evadevano dalle costrizioni della vita di città percorrendo le Alpi, per lo più col pretesto di compiere studi geologici (…)».
In seconda seduta, il 30 ottobre, la direzione del Club Alpino elegge presidente Ferdinando Perrone di San Martino, che muore l’anno successivo lasciando il posto a Bartolomeo Gastaldi, l’escluso del Monviso. Forse non è del tutto vero che lo studioso si fosse assentato dall’ascensione per motivi professionali, c’è chi adombra che non si sentisse all’altezza della scalata, ma curiosamente, proprio mentre Sella gli scrive parole di scusa, Gastaldi è partito per un’escursione ai piedi del Monviso. Lo apprendiamo da una lettera che l’ingegner Felice Giordano, consulente minerario del Regno, indirizza allo stesso Sella dopo il 24 agosto del 1863:
«Sono stato cinque giorni con Gastaldi presso il Viso passando da Castel Delfino alla valle di Crissolo, osia del Po, che è molto più bella di quella della Varaita. Quando giunsi colà ero arrabbiato con te perché non mi avevi neanche avvertito della partenza per la salita: ma sapute le cose come stavano, che eravate già in quattro, mi ragionai e misi da parte il pensiero di bastonarti».
La lettera di Giordano rivela alcuni aspetti importanti. Innanzi tutto l’amicizia con Sella; poi la manifesta competitività che regola e muove le ascensioni dei pionieri; infine la passione che spingeva i primi alpinisti. Non erano dei contemplativi i fondatori dell’alpinismo, al contrario bruciavano di desiderio, il che spiega le fatiche che erano disposti a sobbarcarsi camminando per giorni su sentieri polverosi, viaggiando a dorso di mulo e pernottando nei fienili, e anche i rischi cui andavano incontro con vestiti leggeri e corde di canapa scadente.

La tragedia del Cervino e la consacrazione dell’alpinismo
Il Monviso è solo l’anticamera della vera sfida. Due anni più tardi, nel 1865, troviamo italiani e inglesi in gara per la scalata del Cervino, “il più nobile scoglio d’Europa”.
Il 14 luglio 1865, in una camera dell’albergo Giomein al Breuil l’ingegner Felice Giordano scriva a Quintino Sella, nel frattempo rinominato ministro delle Finanze dal capo del governo La Marmora:
«Caro Quintino, oggi alle 2 pom. con un buon cannocchiale vidi Carrel e soci sull’estrema vetta del Cervino; con me lo videro molti altri; dunque il successo pare certo, e ciò, malgrado vi sia stato ier l’altro un giorno di pessimo tempo che coprì il monte di neve. Parti dunque subito, se puoi (…)».
La calligrafia affrettata tradisce il consueto rigore scientifico del Giordano, austero geologo dell’Accademia dei Lincei, quarantenne sabaudo dalla barba ben pettinata. Non è il freddo organizzatore di una spedizione alpinistica, è il capo di una congiura, l’istigatore di un drappello ribelle.
Ma è solo un’illusione. Il giorno dopo Giordano prende altra carta e corregge:
«Caro Quintino, ieri fu una cattiva giornata, e Whymper finì per spuntarla contro l’infelice Carrel».
Gli uomini avvistati sulla cima del Cervino non erano quelli della cordata di Jean-Antoine Carrel detto “il Bersagliere”, guida della Valtournenche e combattente nelle guerre d’Indipendenza, ma il gruppo di Edward Whymper. Sentendosi tradito dalle macchinazioni di Sella e del suo inviato Giordano, l’inglese aveva lasciato Carrel e l’Italia per tentare la scalata dal versante di Zermatt, dove per ironia della sorte si era imbattuto in un folto gruppo di connazionali con guida pronti a tentare il Cervino dal lato svizzero.
La storia sconfina nel romanzo, perché non solo il tempo si mette al bello, ma contro ogni previsione la cresta svizzera si rivela molto più facile di quella italiana e il 14 luglio 1865, nel primo pomeriggio, Whymper e compagni mettono piede sulla cima. Scorgono il povero Carrel duecento metri più in basso, sulla cresta del Pic Tyndall, e lo sotterrano con urla di vittoria. Agli italiani non resta che girare i tacchi e scendere a valle.
«Finora ho lavorato con la speranza di essere il primo – confessa Giordano al ritorno del Bersagliere –, ma la sorte mi è stata contraria. Pazienza! Ora qualunque sacrificio lo faccio per voi della valle, per il vostro onore e il vostro interesse. Volete ripartire per decidere la questione?».
Le risposte delle guide sono incoerenti e scoraggiate. Carrel non ci crede più, sembra rassegnato, ma si alza la voce di un prete della Valtournenche animato da grandi intenzioni: l’abbé Amé Gorret. Il suo entusiasmo rianima gli sconfitti e il Bersagliere lo recluta per la nuova spedizione. Giordano vorrebbe andare con loro, ma Carrel dice no: niente cittadini, per ora.
Questa volta va tutto liscio e il 17 luglio il Cervino è salito anche dal versante valdostano e italiano. Sella, Giordano e Carrel hanno raggiunto il loro scopo e nella dolce conca del Breuil si accendono i falò; come aveva intuito Gorret, è l’inizio di un’epoca nuova per il turismo e l’alpinismo. Ancora non sanno, gli italiani, che i loro concorrenti hanno pagato a caro prezzo il successo e quattro alpinisti si sono sfracellati sulla parete nord durante la discesa: la guida di Chamonix Michel Croz, il reverendo inglese Charles Hudson, l’allievo Robert Hadow e Lord Francis Douglas. Whymper, che si è salvato, dovrà dividere per la vita rimorso e gloria.

I rifugi per vincere la notte
Il Monviso e il Cervino diventano i teatri naturali in cui progettare e costruire dei punti d’appoggio per la ripetizione della scalata. La prima capanna voluta dal Club Alpino Italiano sorge appunto sul fianco orientale del Monviso, sul versante di Oncino in alta Valle Po. Il rifugio dell’Alpetto può ospitare una decina di persone e assomiglia in tutto e per tutto a una baita d’alpeggio. Viene inaugurato nell’estate del 1866 a fronte di un costo complessivo di 200 lire.
Appena due anni dopo la tragica corsa per il Cervino, su proposta del canonico Georges Carrel, il Club Alpino allestisce un secondo ricovero presso la cosiddetta Balma della Cravatta al Pic Tyndall, su una cengia vertiginosa lungo la via italiana della Gran Becca. Tra i promotori figura il solito Felice Giordano, che nel 1868 scrive in una relazione per il CAI:
«Il sito detto La Cravatta, posto ad un’altitudine di oltre 4000 metri, è quello ove nel 1866 avevo passato cinque notti contro una rupe che faceva sporto di qualche metro. Ivi io avea allora tracciato un casottino di rifugio da costruire in pietre a secco. Nello scorso anno, 1867, mediante l’opera delle guide della Valtournanche e un opportuno sussidio del Club Alpino, tale rifugio venne eseguito benché non con lieve fatica, ed infine munito di porta e finestrino e pelli di montone per letto, oltre a qualche masserizia indispensabile. L’utilità di simili rifugi è immensa, dispensando il viaggiatore dal grave carico di trasportare seco coperte e altri impedimenti, e assicurandolo in caso di cattivo tempo».

L’ultima guglia: il Dente del Gigante
Alessandro Sella, il primogenito di Quintino morto a trentaquattro anni per una misteriosa malattia africana, descrive il Dente del Gigante come «un’informe spada tronca diretta verso il nord est, di cui un fianco piomba a picco verso l’Italia per un’altezza di forse centocinquanta metri, e l’altro precipita irregolare verso la Savoia». Il Dente è entrato nel libro delle leggende dell’alpinismo fin dal 1871, quando Edward E. Whitwell ha provato a scalarlo con le guide svizzere Christian e Ulrich Lauener. «Impraticabile!» è stato il verdetto. Nel 1876 la guida di Argentière Jean Charlet-Straton ci ha riprovato senza successo dal versante nord, poi qualcuno ha azzardato il numero da circo: scavalcare la guglia con ancoretta, razzo e polvere da sparo.
L’alpinista inglese Albert Frederick Mummery e la guida vallesana Alexander Burgener salgono verso l’ignoto in un’imprecisata alba del 1880. Giunto alla base del Dente, la Gengiva, il montanaro di Saas intuisce il passaggio che dal lato sud porta alla parete ovest. Aggirato lo spigolo affronta la placca striata da una ruga di gelo; i chiodi degli scarponi scintillano e le dita cercano l’appiglio che non c’è; infine Burgener ritorna imprecando sui suoi passi. Alla base della placca che li ha respinti, Mummery lascia il bastone di legno e un foglietto con un messaggio: «Inaccessible by fair means, insuperabile con mezzi onesti».
Il messaggio non sarà raccolto, ma il bastone sì: dal manipolo di alpinisti italiani che nel 1882 assaltano e addomesticano il monolite con corde, scale, martelli e punte di ferro. «Le guide – racconta Alessandro Sella al quindicesimo Congresso degli alpinisti italiani – non avevano potuto sormontare il cattivo passo che colla scala a piuoli. Esse avevano attaccato in alto una corda doppia munita di qualche raro nodo. Vi si saliva a forza di braccia coll’aiuto, che pareva scarso, delle ginocchia e dei piedi… Il terribile camino termina alla spalla del Dente, donde si fa la salita della breve cresta che conduce alla cima. Vi giunsi all’una pomeridiana, salutato dall’energico grido di “Viva l’Italia” di Maquignaz».
Il 29 luglio 1882 è un giorno luminoso per gli uomini del Club Alpino, che giudicano la scalata artificiale del Dente un atto supremo di bravura e coraggio. L’eco della “vittoria” assume rilevanza nazionale, perché la guglia inaccessibile è stata domata in nome della patria da due illustri famiglie dell’alpinismo: i Maquignaz di Valtournenche e i Sella di Biella. Si parla di “lavori” e di “apparecchiare” la parete, traducendo la distanza degli italiani dalla regola leggera di Mummery. Era già successo sul Cervino, dove il grande Jean-Joseph Maquignaz aveva attrezzato lo strapiombo della parete sud per permettere l’ascensione alle guide con i clienti. La salita del Dente del Gigante non va giudicata come una creazione artistica o un’impresa sportiva: è piuttosto una conquista territoriale.

Con e senza guide
Si giunge così alla fine dell’Ottocento, un periodo straordinariamente fertile per la collaborazione tra i cittadini e le guide alpine. I primi stringono rapporti di stima con i montanari che li accompagnano e si formano cordate eccezionali – Mummery e Burgener, Fontaine e Ravanel, Ryan e Lochmatter, Young e Knubel, Norman Neruda e Klucker, Mayer e Dibona, Rey e Castagneri – che fanno incetta di tutte le grandi “prime” sulle Alpi. Spesso la relazione tra guida e cliente si spinge oltre l’aspetto professionale, sfiorando l’amicizia. La guida incarna nel modo più compiuto l’ideale romantico che aveva avvicinato i borghesi alla montagna. Scrive Guido Rey, pensando alle sue guide Amé Maquignaz e Antonio Castagneri:
«In molti punti le guide mi ricordano gli Indiani nomadi d’America. Come quelli, esse paiono dotate talora di un senso supplementare, in noi da lungo tempo scomparso, di facoltà e di istinti di razze primitive e selvagge: il silenzio del passo, l’agilità del corpo (…); l’acutezza della vista (…); la facoltà di orientarsi fra le nebbie (…)».
Nel processo dialettico dell’alpinismo, dopo le guide vengono i “senza guida”. A Torino, il 5 aprile 1904, nasce il Club Alpino Accademico Italiano. Ettore Canzio è uno dei soci fondatori e scrive:
«Non fu una ribellione dell’alpinista al montanaro: fu un lento scivolar fuori di tutela. Conviene dire subito che nessun tutore fu mai così garbato, servizievole, accomodante come lo fu in generale la Guida (…) Per questa opera magnifica e qualche volta oscuramente eroica che la Guida ha compiuto dai primi tempi dell’alpinismo fino ad oggi, vada ad essa da queste pagine in cui si ricorda e si spiega il commiato che noi ne prendemmo, l’espressione della nostra riconoscente ammirazione».
Onore alle guide, ma avanti da soli. I sedici cittadini che per primi vollero emanciparsi dalla tutela dei montanari sono per lo più gli stessi che hanno esplorato le nuove frontiere dello sci ed esprimono simpatia per un alpinismo dilettantistico “puro”, di buon livello tecnico, fondato sulla preparazione individuale e sull’iniziativa di gruppo. L’articolo 1 dello Statuto del Club Alpino Accademico recita: «Il CAAI si propone di coltivare e diffondere l’esercizio dell’alpinismo senza guide, affiatare i soci fra di loro, unirne l’esperienza, le cognizioni ed i consigli per formare la sicura coscienza e l’abilità indispensabili a chi percorre i monti senza l’aiuto di professionisti».
Questa posizione crea una frattura in seno al Club Alpino, dove gli alpinisti più tradizionalisti, fedeli frequentatori delle guide alpine per ragioni tecniche e anche per nostalgie romantiche, contestano agli accademici di coltivare il rischio ed esaltare i pericoli della montagna, mentre i “senza guida”, pur riparandosi dietro sentimenti di stima e rispetto per i montanari, ribadiscono implicitamente che la montagna è rischiosa per tutti, siano essi dilettanti e professionisti, ed è solo la preparazione che fa la differenza. Avranno ragione loro.

La Grande Guerra e il sesto grado
La differenza tra “cittadini” e “montanari” diventa drammaticamente evidente nella Prima guerra mondiale, quando i generali inventano un fronte assurdo che passa per le altissime creste del Cevedale e dell’Adamello e sulle guglie verticali delle Dolomiti. Nasce l’identificazione tra alpino e alpinista perché la Guerra Bianca richiede esperienza di arrampicata, e nel dopoguerra, sotto il regime fascista e con la generale complicità del Club Alpino, l’eroismo degli alpini viene arbitrariamente traslato sulla figura dello scalatore. La montagna, la parete, e in particolare la vertigine della scalata, diventano simboli di sfida e vittoria, emblemi di superiorità fisica e spirituale, secondo l’insegnamento di dubbi maestri come Eugen Guido Lammer:
«Quando noi siamo abbarbicati a una cresta orridamente accidentata parecchie migliaia di metri al di là d’ogni umano aiuto, e d’un tratto ci romba da presso la tormenta che avvolge tutto all’intorno in una notte scialba di nebbia, allora uomini di nessuna apparenza si trasformano in nature veramente eroiche, qui si scoprono geni dell’azione e dominatori come altrimenti si rivelano solo nelle rivoluzioni (…)».
La guerra continua anche in tempo di pace, non negli intenti degli alpinisti ma nella propaganda dei regimi. Il primo sesto grado ufficiale è dei tedeschi Emil Solleder e Gustav Lettenbauer sulla parete nord ovest della Punta Civetta, nel 1925, cui gli italiani Domenico Rudatis e Renzo Videsott rispondono quattro anni dopo con lo spigolo della Busazza, sempre nelle Dolomiti orientali. La competizione tra tedeschi e italiani favorisce un deciso innalzamento delle difficoltà in roccia e l’idealismo postbellico li accomuna nello stesso sentimento della montagna, “pura” e superiore. Quando Gino Soldà “vince”, come si diceva allora, l’ombrosa parete del Sassolungo, il compagno Franco Bertoldi, un ingegnere molto capace, usa queste parole:
«La partita è chiusa. Nel pieno fulgore del giorno 26 agosto Soldà, sorgendo dall’alta cresta terminale, lanciava l’alalà della vittoria, e il maschio volto, incavato da tante dure lotte, si distendeva finalmente nel sorriso del trionfo».
Comunque la retorica degli alpinisti è accompagnata dai fatti. Con la nuova tecnica dei chiodi introdotta sul calcare dalla Scuola di Monaco, gli alpinisti italiani scalano le pareti più difficili delle Alpi orientali lungo le linee più eleganti e disegnano capolavori firmati Micheluzzi, Soldà, Tissi, Carlesso, Detassis, Castiglioni, Vinatzer e Cassin. La difficoltà si sposa con l’estetica nell’azione esemplare del triestino Emilio Comici, il fragile danzatore della verticale gradito al fascismo. Più o meno consciamente, Comici incarna quell’immagine di purezza virile cui il regime attinge a piene mani per il culto degli eroi. E come tutti gli eroi, Comici muore prima di compiere i quarant’anni per un banale incidente su una roccia della Val Gardena, dove è appena stato nominato commissario prefettizio.
Per tutto il Ventennio i dirigenti del Club Alpino svolgono un lavoro di propaganda e promozione dei campioni che non si ripeterà mai più nella storia del Novecento, perché la montagna non sarà mai più un luogo di riconoscimento pubblico e di affermazione politica. Parallelamente si compie un graduale allargamento della base dei praticanti, che attraverso i campeggi estivi e i torpedoni organizzati scoprono le Alpi e si avvicinano all’alpinismo.

L’altra guerra e il dopoguerra
L’alleanza tra Mussolini e Hitler porta alla fortificazione delle Alpi occidentali in vista di una nuova guerra, che fortunatamente sarà breve sulle montagne, e infinitamente sottodimensionata alla rete di strade militari, casematte e fortini eretti per l’evenienza. La campagna delle Alpi del giugno 1940 vede affrontarsi 58.000 soldati francesi e 133.000 italiani. Non può certo essere paragonata, per impiego di mezzi e numero di caduti, alla Guerra Bianca, ma è guerra di alta montagna a tutti gli effetti, combattuta su terreni che in tempo di pace appartengono agli alpinisti. Coinvolge personaggi come Renato Chabod, futuro presidente del CAI e indiscusso conoscitore del Monte Bianco:
«Fortunatamente non ci toccò di dover combattere, perché sarebbe stata una sciagurata guerra in famiglia, fra montanari dell’uno e dell’altro versante».
Dopo la guerra, la resistenza e la liberazione, lo sciovinismo delle nazioni s’incanala con il pieno appoggio dei club alpini verso le conquiste himalayane. In Italia il ruolo del CAI s’inquadra nel complesso lavoro di rinascita e ricostruzione, con un rapido processo di democratizzazione dell’alpinismo che, accanto ai sodalizi classici e spesso elitari, vede emergere i gruppi proletari. Nascono le associazioni degli alpinisti operai – per esempio i Ragni di Lecco e i Pel e Oss di Monza – e proprio da Monza spunta il nome di un ragazzo che a vent’anni è già un fuoriclasse: Walter Bonatti. Trasferendo sul Monte Bianco la tecnica artificiale delle Dolomiti, nel 1951 scala con Luciano Ghigo la monolitica parete est del Grand Capucin.
Bonatti è l’ultimo rappresentante dell’epoca “eroica” dell’alpinismo, anche se il Ventennio è già finito da molto tempo. Nel dopoguerra la gente ha più che mai bisogno di modelli per sperare; forse non si crede più nel vecchio mito degli alpini a sentinella delle frontiere, ma si vuole credere ancora nel sapore forte delle montagne e degli scalatori, nel valore dell’uomo che sa imporsi sulla natura selvaggia, nelle misteriose imprese che richiedono coraggio e dedizione.
L’alpinismo si evolve soprattutto in due direzioni: le ascensioni invernali, che accostano l’ambiente alpino a quello himalayano, e la scalata artificiale con i chiodi e le staffe. Il chiodo a pressione permette di superare strapiombi spaventosi sulle pareti dolomitiche – in particolare sulla Roda di Vaèl e sulle Tre Cime di Lavaredo –, rincorrendo l’utopia della linea a goccia d’acqua, finché negli anni Sessanta le “direttissime” sfociano in un chiaro abuso della tecnologia.

I tempi nuovi
«Quando mi chiesero che cosa avessi contro il chiodo a pressione, potei esprimermi solo in modo positivo: può essere messo dappertutto (…), non è costoso (…), serve anche per appendere i quadri (…); dà un apporto all’alpinismo: ne favorisce il tramonto».
Sono parole di Reinhold Messner, l’interprete del nuovo dell’alpinismo che usa un numero di chiodi inversamente proporzionale al grado su cui scala: il settimo. Nel 1968 pubblica sulla Rivista del Club Alpino Italiano un articolo dal titolo forte: L’assassinio dell’impossibile. La Rivista mensile lo pubblica in prima pagina:
«Chi ha intorbidato la pura fonte dell’alpinismo? Forse i primi volevano avvicinarsi ancora di più al limite; oggi, invece, ogni limite è svanito, cancellato. Sono bastati dieci anni per eliminare dal vocabolario alpinistico la parola “impossibile”».
La crisi è evidente, conclamata. Come uscire dall’impasse? C’è un solo modo, secondo l’antica ricetta: limitare i mezzi per rilanciare l’avventura. Bisogna togliere per avere di più. Messner ci riesce soprattutto sulla parete sud della Marmolada e sul Sass dla Crusc, poi arriva un ragazzo ancora più bravo di lui: Enzo Cozzolino, il triestino asciutto e visionario che scala il favoloso diedro del Piccolo Mangart nelle Alpi Giulie.
Dall’altra parte delle Alpi, a Torino, si risponde alla crisi con un’utopia ancora più radicalmente distante dalla tradizione dell’alpinismo e del Club Alpino Italiano. Sotto la guida culturale di Gian Piero Motti nasce il movimento del Nuovo Mattino che rivendica il diritto alla “non vetta”, l’usurato simbolo sacrificale della tradizione eroica. L’arrampicata deve trovare valore e bellezza in sé; è il gesto che conta, non la cima. Alla provocazione piemontese segue quella dei Sassisti lombardi, che inventano meraviglie in Val di Mello, il paradiso di granito ai piedi del Pizzo Badile. La primavera valtellinese si compie intorno al 1977, con la salita di Ivan Guerini e Mario Villa al Precipizio degli Asteroidi: settimo grado.
Il Nuovo Mattino si esaurisce con gli anni Settanta: non perché gli alpinisti tornino a indossare i pantaloni alla zuava, al contrario; la trasgressione finisce perché le scarpette da arrampicata, le braghe di tela e la polvere bianca di magnesio diventano così popolari da trasformarsi in sport. Negli anni Ottanta la passione per la montagna rinasce in panni atletici e collettivi, beneficiando del cammino liberatorio del decennio precedente: si butta la dimensione simbolica e si conserva la parte utile, riproducibile.
E il CAI? Dapprima timido nel recepire il cambiamento, piuttosto ancorato all’interpretazione classica ed elitaria dell’alpinismo, scopre progressivamente la sua vocazione sociale. Anzi la riscopre, congiungendo la sfera culturale a quella sportiva.
Oggi come ieri c’è chi invoca la purezza originaria della scalata contro la degenerazione dello sport. La cura eccessiva della dimensione atletica è tuttora considerata dai critici intransigenti un attentato alla sfera spirituale della montagna. Alla luce della storia e dei suoi esiti ormai centenari si tratta però di un falso problema, forse mosso da nobili intenzioni ma sempre mal posto, perché una dimensione non esclude necessariamente l’altra. Spesso, al contrario, la alimenta. L’uso consapevole ed evoluto del proprio corpo, tipico di chi si allena secondo principi sportivi, può portare l’alpinista a trasformare l’azione in raffinato atto creativo. Che poi oltre ai muscoli e al sudore l’alpinismo preveda un supplemento di spirito lo dimostra la passione stessa dei protagonisti, che – da sportivi alquanto visionari – permette loro di individuare itinerari che gli altri non vedono e provare sentimenti che gli altri non sentono. Non è da tutti amare i sassi e dare un senso alla fatica. Questa è la cultura del Club Alpino.