Pubblicazione

Rubrica Storie

Editoriale bimestrale (dal 2016 al 2021), mensile dal 2022 sulla rivista Orobie.

Renzo Videsott, genio e istinto tra scalate e tutela dell’ambiente alpino (marzo 2024)

Cinquant’anni fa moriva Renzo Videsott, l’uomo dalle due vite: campione del sesto grado e pioniere dell’ambientalismo. Il compagno di cordata Domenico Rudatis scrive che prima di affrontare l’immenso spigolo della Busazza, il giovane Renzo giurò di aver sognato il camino di salita: nessun dubbio, la via passava di lì. «Era il suo stile personale, indipendente, caratteristico: aspettare la chiamata della montagna». Videsott era così: genio e istinto. Nato a Trento nel 1904, divide con i migliori scalatori della sua terra l’ebbrezza delle crode e le trasferte all’Università di Torino, dove si laurea in Veterinaria nel 1928. A venticinque anni è già un eroe del Ventennio perché ha firmato il mitico sesto grado, ma non gli importa. Con una scelta radicale volta le spalle all’alpinismo. Proprio quando la fama sta per cambiargli la vita, decide di rimettersi in gioco. Cacciatore convinto, “sterminatore di selvaggina d’alta montagna” come scrive di sé, passa dalla parte degli animali. Il Parco del Gran Paradiso ha vent’anni compiuti, ma naviga in pessime acque. Le scelte miopi della burocrazia romana lo hanno portato sull’orlo del collasso. Videsott è nominato commissario su proposta del CLN di Torino, sente la gravità della situazione, intuisce che la rinascita italiana passa dalla difesa di un ambiente devastato dall’incuria della politica e dalle ferite della guerra; il 25 giugno 1948, con il conte Gallarati Scotti, fonda il Movimento italiano per la Protezione della Natura. Lo stesso anno diventa direttore del Parco e affronta un’impresa di settimo grado: ricostituire l’organico delle guardie, restaurare la rete dei sentieri, ridefinire i confini, fermare il bracconaggio, salvare lo stambecco. È uno snervante lavoro di mediazione tra Roma e le comunità locali, dove la gente gli è ostile. A dispetto dei successi diventa il nemico delle libertà e dello sviluppo, perché è un ruvido visionario con il vizio di agire in anticipo e guardare lontano. Come spiegare ai valligiani che la tutela del Parco sarà un investimento se sapranno vedere oltre l’orto di casa? Videsott non trova le parole, è un uomo solo. Alla fine del 1968 i consiglieri valdostani del Parco chiedono la testa del loro direttore. Seguono le dimissioni, l’amarezza, l’oblio.

La salita di Mallory e Irvine sull’Everest. Un mistero che dura da cent’anni (febbraio 2024)

L’anno scorso si è molto parlato dell’Everest perché era l’anniversario della prima ascensione; quest’anno se ne riparlerà per l’impresa visionaria di George Mallory e Andrew Irvine, tuttora avvolta nel mistero. E sono cent’anni. I due pionieri britannici scomparvero nella tempesta sul versante tibetano, lasciando aperta la possibilità, e l’enigma, che avessero raggiunto la vetta prima di morire. In tal caso avrebbero anticipato la storia di trent’anni! Partirono l’8 giugno 1924 dall’ultimo campo, scomparvero dalle lenti dei cannocchiali e non fecero mai ritorno. Quando precipitarono sotto la cresta nordovest non c’era nessuno che potesse testimoniare. Di George L. Mallory, il colto ed eccentrico alpinista sposato con la bella Ruth, uno che credeva nell’impossibile quando l’Everest era ancora un’impresa per pazzi o sognatori, si parlò sempre di più con il passare degli anni e con l’accrescersi del mito, fino alla primavera del 1999, quando una spedizione americana ritrovò il suo corpo seminudo a grande altezza, sul versante della montagna. Ne nacque uno scoop giornalistico di dubbio gusto e le macabre immagini rimbalzarono in tutto il mondo: la seconda morte di Mallory. Tutti vollero dire la loro: che era stato in cima, che non c’era stato; che era caduto in salita, in discesa, di notte, per la tempesta, causa lo sfinimento degli ottomila metri. Mallory nel gennaio del 1924 era negli Stati Uniti e fu intervistato da un giornalista del New York Times. «Perché vuoi scalare l’Everest?» gli chiese. «Because it’s there» rispose. La lapidaria risposta è entrata nella storia e naturalmente è stata tradotta anche in italiano. Ma in che modo?, si domanda il bibliofilo milanese Angelo Recalcati. Ecco la spiegazione. «Nella quasi totalità delle volte in un modo formalmente corretto grammaticalmente, ma che non va alla radice del suo vero significato. Quasi tutti infatti traducono “Perché è là” o “Perché è lì”. Secondo me invece la più corretta traduzione è “Perché c’è” o meglio, visto che la lingua italiana permette maggiori varietà di sfumature “Perché esiste”. Una delle rare eccezioni è Simone Moro nel suo libro Everest in vetta a un sogno, che a pag. 52 traduce: “Perché c’è”».

Toni Gobbi, un precursore tra tradizione e innovazione (gennaio 2024)

Ci sono dei personaggi fondamentali nella storia dei luoghi e delle persone, senza i quali mancherebbe la cerniera tra le parti buone e creative. Uno di questi è stato certamente Toni Gobbi, uomo geniale e guida innovativa. Pavese di nascita e residente a Vicenza fino all’università, Gobbi si trasferì a Courmayeur durante la seconda guerra mondiale per amore di una donna e del Monte Bianco. Gobbi mi è sempre piaciuto, ma purtroppo non l’ho conosciuto. Adesso mi pare di capirlo meglio, da quando il nipote Oliviero Gobbi e Antonio Bocola gli hanno dedicato un accurato documentario invitandomi a partecipare in qualità di storico dell’alpinismo. Insieme a Oliviero, sono entrato nella vita straordinaria di un uomo che ha saputo unire tanti mondi: la pianura e la montagna, la passione e il professionismo, l’intuizione e l’organizzazione, l’alpinismo e lo sci alpinismo. Nonostante venisse da fuori, a Courmayeur era un’autorità perché aveva aperto vie nuove con Bonatti, firmato grandi invernali e soprattutto perché sapeva muoversi nell’ambiente internazionale dell’alpinismo, amico di Terray, Rébuffat e altri grandi. Era rispettoso della tradizione locale, ma non si faceva schiacciare, spaziando da par suo verso mete e progetti inediti. Aveva in testa un’idea del mestiere che assomigliava moltissimo a quella attuale, con la guida che non aspetta il cliente per accompagnarlo sulle solite cime della valle, ma se lo va a cercare, lo allena, lo prepara, lo incuriosisce e poi gli propone ambiziosi itinerari. Gobbi fu un precursore in tutto questo e praticamente inventò i raid e le traversate scialpinistiche sulle Alpi e in ogni parte del mondo, dall’Elbrus alla Groenlandia. Purché si potesse salire con le pelli di foca e scendere con gli sci, lui esplorava e andava. Le settimane di Toni Gobbi divennero proverbiali, unendo guide e clienti di notevoli capacità, affiatati, appassionati e soprattutto guidati dalla rigida mano di Gobbi, che non si lasciava sfuggire neanche un dettaglio. Ma la neve, si sa, non è materia docile e obbediente e Toni morì per uno smottamento di pochi centimetri di neve, scendendo con i clienti dal Sassopiatto. Era il 18 marzo 1970. Aveva 56 anni e lasciava due figli.

Con la suola di Vitale Bramani l’alpinismo ha cambiato passo (dicembre 2023)

La storia dell’alpinismo è un continuo progredire dal punto di vista tecnologico: a ogni invenzione corrisponde un miglioramento della sicurezza e delle prestazioni. Per esempio la scalata su ghiaccio decolla nel 1908, quando Oscar Eckenstein inventa i ramponi a dieci punte. L’idea dei ferri sotto i piedi non è nuova: i cacciatori, i montanari e i contrabbandieri calzano da tempo le scarpe ferrate per muoversi sulle superfici gelate, ma il rampone permette di scalare anche le ripide pareti ghiacciate. Tuttavia i ferri restano un problema sulla roccia, dove stridono e fanno scintille, tanto che gli alpinisti devono togliersi gli scarponi chiodati e indossare le babbucce di feltro o di corda prima di avventurarsi in verticale. Ed è proprio assistendo alla morte per assideramento di alcuni sventurati sorpresi dalla tempesta in scarpette di corda, che l’imprenditore alpinista lombardo Vitale Bramani decide che è tempo di cercare una soluzione. In collaborazione con la Pirelli, pensando a una suola universale che coniughi le esigenze dell’avvicinamento e della scalata, crea la rivoluzionaria gomma a carrarmato che prenderà il nome di Vi-bram, da Vitale Bramani. All’inizio sembra che l’invenzione non funzioni gran che – troppo molle, troppo dura, sempre troppo qualcosa –, ma alla fine Bramani e Pirelli trovano la mescola giusta e sperimentano la nuova suola. Chiaramente la gomma ha un’infinità di vantaggi: è leggera, impermeabile, funziona su ghiaccio e su roccia, va bene dappertutto senza bisogno di cambiare scarpe e non obbliga più a calzare le pantofole rischiando di congelarsi. In pratica lo scarpone chiodato ha già un piede nella fossa. Nel 1936 Giusto Gervasutti collauda un prototipo di scarpa “tra la pedula e lo scarpone” sulla seraccata della Vallée Blanche, nel massiccio del Monte Bianco, beandosi della leggerezza delle calzature e sollevando tutta la disapprovazione delle guide di Chamonix. «Quell’uomo è pazzo – pensano i valligiani – si avventura su un ghiacciaio crepacciato in scarpe da città.» Ma l’anno dopo Bramani dà semaforo verde alla nuova suola scalando in scarponi la difficile parete nord ovest del Pizzo Badile. Sul Badile la Vibram trionfa e l’alpinismo cambia passo.

 

La storia paradossale del Vajont dove a cedere fu la montagna (novembre 2023)

Quest’anno sono 100 anni dal cedimento della diga del Gleno nelle Alpi Orobie, che il primo dicembre 1923 provocò 356 morti secondo le stime ufficiali, e forse di più. E sono 60 anni dalla tragedia del Vajont, che fece 1910 vittime. Perdite spaventose, che le popolazioni pagarono all’industria idroelettrica. La storia del Vajont è paradossale perché non fu la diga a cedere, ma la montagna. La prima a denunciare il pericolo è la giornalista Tina Merlin su L’Unità, il 21 febbraio 1961:«Una enorme massa di 50 milioni di metri cubi di materiale, tutta la montagna sul versante sinistro del lago artificiale, sta franando». Non è solo lei a dubitare, tutti sanno: i geologi, i politici, gli amministratori. Sanno i giornali, e tacciono; gli speculatori, e imbrogliano; i politici, e coprono il gioco. I ripetuti smottamenti hanno rivelato l’instabilità del Monte Toc, che vuol dire “tocco, pezzo” di roccia, ma in friulano indica anche una cosa marcia. Uno dei padri del progetto, Carlo Semenza, il 10 aprile 1961 confida al professor Ferniani: «Non le nascondo che il problema di queste frane mi sta preoccupando da mesi: le cose sono probabilmente più grandi di noi…» Dubitano anche gli ingegneri, ormai, ma la macchina va avanti come se non avesse il guidatore. «La verità fa più paura della frana di una montagna» osserva la Merlin, denigrata e sola. Purtroppo il suo allarme si rileva molto ottimistico. Nella notte del 9 ottobre 1963 il Monte Toc frana nel lago artificiale con 263 milioni di metri cubi di roccia marcia, superando di almeno di cinque volte le previsioni della giornalista. La montagna cade alla velocità di un treno, sollevando un’onda che scavalca la diga e si schianta su Longarone, nella valle del Piave, con la potenza di due bombe di Hiroshima. Non resta nulla nella piana, neanche una rovina su cui piangere. L’altra metà dell’onda risale come uno tsunami la conca del Vajont, si arrampica sul versante che fronteggia il Toc e spazza le frazioni di Erto e Casso. Non solo le case di riviera; annegano anche gli abitanti che si consideravano al sicuro perché guardavano il lago dall’alto in basso. La melma e le macerie ricoprono i corpi, non avranno neanche sepoltura. 

E’ vero che la montagna è maestra ma di squilibri geologici e climatici (ottobre 2023)

Trent’anni fa ero in Cadore (Belluno) al rifugio Venezia con un amico, quando lui seppe che sua madre stava morendo. «Andiamo» dissi, anche se era tardi e il temporale muggiva dietro il Civetta. Siamo fuggiti mentre la notte saliva dalla valle e i lampi la tagliavano; non ci si perde su un sentiero, diceva una voce, ma noi correvamo senza darle ascolto. Sotto il Pelmetto ci ha raggiunto il fronte furibondo di vento, grandine e pioggia; il sentiero è diventato un torrente e abbiamo cominciato a cadere, vagando ubriachi di paura nel labirinto di calcare. Fermarsi voleva dire bivaccare e forse congelare, così siamo andati chiamandoci per nome, spronandoci, e finalmente a mezzanotte siamo approdati nelle braccia della foresta. L’indomani il mio amico ha fatto in tempo a stringere sua madre. Per caso quest’anno ero di nuovo negli stessi posti quando il ciclone ha investito il Cadore e l’Agordino. Per fortuna mi trovavo in albergo, perché in montagna mi avrebbe spazzato via. Il ricordo di trent’anni prima sbiadiva rispetto alla bomba termica del 28 luglio 2023, quando una cellula di aria fredda ha raggiunto la bolla africana e l’ha fatta scoppiare. Una specie di esplosione nucleare. Non era la pioggia a spaventare, e neanche i fulmini, ma la terribile violenza del vento, come se una macchina infernale montasse il turbine dietro la cresta e lo dirigesse contro i boschi e le case. I giornali si ostinano a parlare di emergenza, ma i cicloni sono purtroppo normalità nel quadro del riscaldamento climatico, così come il loro opposto: la siccità. Dovremo imparare a guardare alla montagna non solo come luogo di evasione, ma prima di tutto come a una vedetta climatica: in montagna la temperatura media sale più in fretta che in pianura; i ghiacciai fondono sotto gli occhi; i contrasti termici si manifestano prima e al massimo del loro potenziale; l’acqua che scarseggia in alta quota è la stessa che manca poi nelle città. Sui versanti è disegnato – come in una profezia – ciò che succederà prima o poi a valle: frane, alluvioni, riscaldamento, crisi idrica. Una volta si diceva che la montagna sia maestra di vita, non so se sia vero, ma certamente è maestra di squilibri geologici e climatici: anche quelli scendono dalle montagne.

Croci e simboli, il problema sono i manufatti mastodontici (settembre 2023)

L’inizio dell’estate è stato segnato da una polemica che ha fatto molte vittime – prima di tutto il buon senso – e non ha portato a nulla. In stile italiano, purtroppo. Sono bastati un convegno alla Cattolica di Milano ispirato dal libro di Ines Millesimi sulle croci di vetta dell’Appennino, una nota sul portale dello Scarpone CAI e il rilancio sibillino di un’agenzia di stampa: “Il CAI vuole togliere le croci dalle montagne”. Apriti cielo: reazioni sdegnate di due ministri, affrettate scuse del presidente Montani, baruffe, dimissioni, tempesta sui social. Tutto per una cosa mai detta né pensata, perché al convegno – con il consenso di autorevoli esponenti della Chiesa – si era solo proposto di non gravare di altri pesanti segni le cime dei monti, conservando ciò che c’è. Come ha osservato Giuseppe Mendicino, «il problema più serio non riguarda il simbolo religioso, bensì l’invadenza di manufatti realizzati con quintali di acciaio e cemento sulle vette, spesso spazi di pochi metri quadri. Una piccola croce di ferro non ha mai infastidito nessuno. Quello che infastidisce è l’invadenza di mastodontici manufatti artificiali sulle montagne, qualsiasi cosa rappresentino, simboli religiosi o meno. Un po’ come per le ferrate: bellissima e rispettosa della montagna la Lipella sulla Tofana, orribile invece la sequenza di scale di ferro della Merlone sui Cadini. Est modus in rebus». Aggiungerei che un segno, qualunque segno, non dovrebbe essere disgiunto dal simbolo che rappresenta, e dal contesto. Il piccolo segno ci ricorda quanto siamo piccoli al cospetto del creato, e fragili, il segno prepotente è una violenza non solo verso chi non lo condivide, ma anche nei confronti della montagna. Da questo punto di vista, ma è solo un’opinione personale, non mi scandalizzerei se venisse rimosso qualche manufatto troppo invasivo, che più non risponde alla sensibilità prevalente, mentre conserverei e tutelerei ciò che ha valore storico o artistico. Non è che tutto quanto appartiene al passato diventi per forza patrimonio collettivo, perché in tal caso dovremmo tutelare anche i condomini, i capannoni e perfino gli ecomostri che hanno invaso valli e pianure, e certo non le hanno migliorate. Bisogna adeguarsi alla cultura, e si chiama progresso.

Il grandissimo Hermann Buhl, uomo dell’utopia e della follia (agosto 2023)

Questo non è solo l’anno dell’Everest. Non deve esserlo, almeno per rispetto a uno dei più grandi alpinisti della storia e a una delle più incredibili avventure della storia dell’alpinismo. Non vorrei che in questo celebrare si dimenticasse il grandissimo Hermann Buhl, un uomo magro e indistruttibile, che sempre nell’estate di 70 anni fa anticipò l’alpinismo del futuro firmando un’impresa che, più che alla storia, appartiene all’utopia, al sogno, forse alla follia. La solitaria di Buhl sul Nanga Parbat, al tempo incompresa come le grandi visioni, è equiparabile alla Nona di Beethoven, al primo trapianto di cuore, alla traversata per mare di Colombo. Immaginate un uomo solo, coperto di strati di lana e tela sommariamente imbottiti, fragile come una piuma nell’oceano, che si avventuri nella zona della morte senza alcun supporto della scienza, quando superare gli ottomila metri era come perdersi in uno spazio extraterrestre e ben poco si sapeva di fisiologia d’altissima quota, rarefazione dell’ossigeno, resistenza fisica del corpo e della mente umana, perché quasi nessuno c’era stato prima e quei pochi erano tornati spesso congelati e traumatizzati. La spedizione diretta da Karl Maria Herrligkoffer non era né leggera né fluida, e i rapporti di collaborazione tra gli alpinisti avevano mostrato molte crepe. Così, nei primi giorni di luglio del 1953, dopo una serie di circostanze negative e dopo la rinuncia dei compagni al tentativo finale, Buhl s’avventura nella zona proibita e inesplorata, lassù dove la scienza prediceva morte praticamente certa senza le bombole a ossigeno, e al tramonto del 3 luglio 1953 è in vetta al Nanga. Sembra un condannato a morte, perché nessuno è mai stato in cima alla montagna d’argento, nessuno è mai stato solo a ottomila metri e nessuno, soprattutto, s’illuderebbe di tornare a valle. Hermann, stremato, comincia a scendere alle ultime luci del giorno, ossessionato dal riverbero e dalle allucinazioni; vede l’ombra di spiriti erranti e non più mortali, la sua, sempre più lunga sull’oceano di neve. Ci parla, parla a sé stesso, delira, s’appoggia per respirare, dorme in piedi come un cavallo e all’alba riparte con due compresse di Pervitin in bocca, l’ultima sorgente. Quando l’ombra magra riprende forma sotto il sole, sa che rivedrà la sua bambina.

Con l’esercizio del limite ne usciremmo tutti migliori (luglio 2023)

Il 5 aprile scorso il giovane Andrea Papi è stato ucciso da un’orsa in Val di Sole. Il povero Papi stava correndo da solo, per cui non sapremo mai con precisione che cosa abbia provocato il gesto dell’orsa, anche se probabilmente si è trattato di una reazione di difesa. Assai tragica e terribilmente divisiva. L’opinione pubblica si è subito divisa in due: uccidete l’orso cattivo, risparmiate il povero animale! Succede sempre così, come se i problemi che ci angosciano avessero solo due colori, bianco o nero, senza sfumature. Prima del ritorno del lupo e della reintroduzione dell’orso (che comunque presidiava ancora un lembo di foresta trentina, pur ridotto a pochi esemplari), l’uomo si è abituato a pensarsi l’unico predatore delle Alpi, sempre più asservite alle regole del turismo. La gente va in montagna per godere della biodiversità, ma nessuno è disposto a condividere la giornata con i grandi carnivori. Meno che mai chi pratica l’allevamento ed è quotidianamente insidiato da attacchi non graditi. Ma il problema è più complesso e a monte di tutto porrei una domanda: vogliamo restare gli unici predatori nel nostro habitat? Intendiamo eliminare tutte le specie “antagoniste” per sigillarci in quel mondo a misura e dismisura d’uomo che è stato ribattezzato Antropocene? Se la risposta è affermativa, abbiamo la tecnologia per uccidere e non c’è specie in grado di resisterci. Ma siamo davvero sicuri di essere i padroni? Siamo proprio certi di non appartenere anche noi, come ogni specie, a quel fragile equilibrio naturale in cui tutto si tiene e niente andrebbe sprecato? Un esempio tra i tanti: la gente si lamenta per il proliferare dei cinghiali che devastano le colture e assediano i centri abitati, senza considerare che dove è arrivato il lupo il cinghiale è stato ridimensionato, e così i vari ungulati in eccesso, preservando i boschi e ricreando un equilibrio. Prima di tutto serve una nuova cultura. Come l’orso dovrà imparare a convivere con la presenza umana – i montanari tutto l’anno e i turisti nelle settimane delle vacanze –, noi dovremo renderci conto che lassù non tutto ci è permesso, molto ma non tutto, perché altri mammiferi abitano le montagne, e da un certo punto di vista ci sembrerà intollerabile, abituati come siamo ad agire da padroni, ma un diverso sguardo ci rieducherebbe all’esercizio del limite e ne usciremmo migliori.

Settant’anni in cima all’Everest ma oggi il mistero non c’è più  (giugno 2023)

Un tempo l’Everest si poteva solo pensare con la mente visionaria di un George Mallory: era il luogo dell’estrema solitudine terrestre, dove l’uomo dialogava con il mistero. A guardarlo dalle profonde valli del Nepal o dai larghi altipiani del Tibet, pareva un pezzo di mondo ancora appartenente al creatore e chi lo sfidava si comportava da eretico, o da folle. Infatti Mallory non tornò. Presto l’Everest diventò la montagna degli inglesi, che nel 1953, dopo sconfitte e tragedie, ne fecero una questione di patria e andarono all’attacco con la poderosa spedizione guidata da John Hunt, colonnello dell’esercito britannico. Almeno non c’erano fraintendimenti: il grande monte andava scalato e basta, prima che lo facesse un’altra nazione. Il neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa nepalese Tenzing Norgay giunsero in vetta il 29 maggio di settant’anni fa. Dopo la prima sono venute altre spedizioni pesanti, che con spirito sciovinista e strategia militare hanno messo in riga il colosso himalayano, umiliandolo un po’. Anche la prima salita italiana di cinquant’anni fa rientra in quello stile, con il successo di Mirko Minuzzo e Rinaldo Carrel, sotto l’egida di Guido Monzino. Scalare l’Everest era ormai diventato un problema di strategia, una specie di guerra senza il nemico, finché i giovani ribelli degli anni Settanta dissero basta, «vogliamo provarci come si fa sulle Alpi». I nuovi alpinisti – Messner in testa – salirono leggeri come farfalle e le loro corse riaccesero il mito, reinventandolo, forse democratizzandolo. Di questo, insieme al progresso tecnologico e a un dispiegamento di campi, bombole e corde fisse sempre più simili a un impianto attrezzato, ha approfittato il marketing alpinistico del nuovo millennio: l’Everest è facile, l’Everest è per tutti. Non era vero, naturalmente, occorreva lavorare sul prodotto con sofisticate tecniche di promozione (le stesse delle agenzie turistiche) e raffinati materiali (quelli delle avventure spaziali). Bisognava far scendere quella benedetta cima. Nonostante i rischi e numerosi lutti, ci sono riusciti; oggi le spedizioni commerciali portano in cima centinaia di clienti provenienti da ogni parte del mondo, non necessariamente alpinisti, non proprio avventurieri, gente che può permettersi di pagare i sogni. Ma il mistero non c’è più, e quello non si compra.

Come si è evoluto l’alpinismo però non ci emoziona più  (maggio 2023)

La storia dell’alpinismo non si ferma mai, ma da alcuni anni sembra che lo stupore e l’emozione siano inversamente proporzionali alle prestazioni, e viceversa. Sarà internet, sarà la scarsa fantasia, saremo noi, assuefatti ai record e orfani di narrazioni. A proposito di grandi racconti, ecco la storia della via direttissima alla Punta Walker sulla parete nord delle Grandes Jorasses. Nel 1971 René Desmaison s’innamora di un tracciato durissimo che sale sul lato sinistro dello sperone più famoso del Monte Bianco; ci va in pieno inverno con il giovane Serge Gousseault. Sono forti, entusiasti, possono farcela, ma dopo una settimana tra strapiombi gelati, lastre di granito lucente e rigidi bivacchi, totalmente isolati dal mondo esterno, l’avventura scivola nella tragedia. Il povero Serge comincia a mostrare segni di sfinimento quando ormai è più facile continuare che tornate indietro, mancano solo duecento metri alla vetta, allora René lo incita, lo sostiene, lo issa di peso su un piccolo terrazzo, dove si fermano definitivamente sotto la neve che li sferza impietosa. La cima è vicina, ma Serge è alla fine e gli muore tra le braccia nella tempesta. Seguono i soccorsi aerei, a dir poco indecisi, che salvano Desmaison ormai al limite della vita e lo sprofondano in un pozzo di frustrazione, finché nel 1973, grazie alla forza e alla positività di Giorgio Bertone, René torna sulla Walker e con un’altra lunga avventura invernale conclude finalmente il progetto: la via Gousseault. Quest’inverno l’hanno ripetuta due ragazzi francesi, Léo Billon e Benjamin Védrines, che ha scritto al ritorno dalla corsa: «Mercoledì 15 febbraio all’1,30 di notte siamo partiti dalla valle con tutta la nostra attrezzatura per scalare una delle vie più iconiche sulle Grandes Jorasses. Un itinerario che mi ha intimorito per lungo tempo… Non avrei mai immaginato di farcela in giornata, partendo da Chamonix, per poi trascorrere la serata al caldo e dormire in un buon letto». 15 ore dal parcheggio alla vetta, 9 ore e 10 minuti per la via Gousseault, e 4 ore dopo erano già ridiscesi a valle per finire la giornata «davanti a una vera pizza». Sono tempi da fantascienza, che dimostrano quanto sia evoluto l’alpinismo e quanto sia diventato difficile condividerne le emozioni. Come se corressero anche loro, sfuggendoci.

 

Vi ricordate la “neve perenne”? Era un’illusione e sta per finire (aprile 2023)

Ve la ricordate le barzelletta dei Pierino? «Papà, dove comincia la neve perenne?» «Ma che dici, figliuolo? La neve comincia sempre per enne!» Ecco, molto di quanto sta succedendo al mondo dello sci e all’industria della neve risale a quell’aggettivo obsoleto, ma in fondo confortante, che ci insegnavano a scuola: “perenne”. Di solito era abbinato proprio alla neve, perché almeno su quella non si discuteva: in montagna ci sarebbe sempre stata, cadesse il mondo; la neve è perenne e basta. Invece era un’illusione, anzi un falso, perché in natura non c’è niente di perenne, e meno che mai nei progetti umani. Di sicuro nella seconda metà del Novecento, quando le montagne furono trasformate in dorate periferie e lo sci portò soldi e promesse nei luoghi da cui i montanari emigravano per povertà, tutti pensarono che fosse una ricchezza senza fine, ma cinquant’anni dopo siamo qui a leccarci le ferite, non solo per avere spremuto oltre misura certi ambienti e distrutto della bellezza, ma soprattutto perché il sistema s’è inceppato e non esistono immediate alternative, dato che lo pensavamo eterno. Perenne, appunto. La questione è complessa e ogni semplificazione porta fuori strada. Nel recente libro-dossier “Inverno liquido” (DeriveApprodi editore), una grande inchiesta sui territori dello sci dalle Alpi agli Appennini, Maurizio Dematteis e Michele Nardelli dimostrano come ovunque, senza eccezioni, le certezze siano svanite con il riscaldamento climatico, i costi dell’energia, i costi dei giornalieri, la neve da cannone e una nostalgia di natura che sfiora anche l’industria artificiale dello sci, spiegandoci come ogni località reagisca alla crisi a suo modo, attingendo a quel po’ di lungimiranza che ha tenuto aperte delle vie d’uscita, oppure sprofondando nella monocultura. Che sia la fine di una storia non c’è dubbio, perché lo sci di massa andrà sempre più sostenuto dagli investimenti pubblici, soldi nostri, e prima o poi bisognerà capire se ce lo possiamo permettere, e decidere dove, ma allo stesso tempo – scrivono Dematteis e Nardelli – siamo anche all’inizio di qualcosa, speriamo virtuosa: si dovrà reinventare la montagna turistica invernale e integrare le grandi infrastrutture – funivie, impianti – con il turismo dolce, collegando l’inverno all’estate e alle mezze stagioni.

 

Ghiaccio, la tecnica frontale che reinventò l’arrampicata (marzo 2023)

Nel gennaio del 1968 la prima ascensione del Linceul, il Lenzuolo, è trasmessa in diretta radiofonica. René Desmaison e Robert Flematti scalano lo scivolo gelato di ottocento metri della parete nord delle Grandes Jorasses, a sinistra dello sperone Walker, inviando ogni giorno una dettagliata radiocronaca agli ascoltatori. Sembra che la tecnologia abbia finalmente la meglio sulle ripide pareti ghiacciate, e invece ci vogliono nove giorni perché una delle più forti cordate del mondo veda la cima di quello scudo vetrato dove non batte il sole e la neve si appiccica al pendio senza riuscire a fare presa. Anche se le piccozze si sono fatte più corte e leggere, oltre i cinquanta gradi di pendenza serve ancora scavare per salire: tacche per le mani e vaschette per i piedi. «Lavoro forzato» commenta Desmaison, e incassa gli ascolti. Evidentemente è uno shock quando le guide Walter Cecchinel e Claude Jager, cinque anni dopo, scalano in tre giorni il couloir nord est dell’Aiguille du Dru, uno spaventoso budello di ghiaccio. L’ultimo giorno del 1973, Cecchinel e Jager affrontano addirittura una cascata con pendenze vicine alla verticale: «Walter non vuole barare – annota Jager –, non è certo il caso, per quindici metri a ottanta gradi, di fare la scala per galline…». Intende incidere con la piccozza una processione di gradini come s’è fatto fino ad allora su tutte le pareti gelate delle Alpi, prima della nuova tecnica a punte avanti. All’École Nationale de Ski et Alpinisme di Chamonix l’hanno chiamata piolet traction, due magiche parole che sovvertono l’arrampicata sul ghiaccio. «La novità – spiega sempre Jager – consiste nell’impugnare la piccozza non più secondo il sistema di ancoraggio classico, il vecchio metodo francese, né in appoggio, l’attuale tecnica austro-tedesca, ma afferrando con la mano la parte bassa del manico. L’altra mano esercita anch’essa una trazione servendosi di un martello da ghiaccio a becco ricurvo, o di una seconda piccozza con le medesime caratteristiche. Così si procede con il massimo di sicurezza anche sui pendii più ripidi e persino al limite della verticale». La tecnica frontale acclamata sulle Alpi ma anticipata sulle rigole ghiacciate del Ben Nevis, in Scozia, si rivela rivoluzionaria perché alza di colpo le prestazioni abbattendo i tempi di scalata. È un po’ come reinventare l’arrampicata su ghiaccio, scoprendo linee di salita che prima sembravano inimmaginabili: colatoi verticali, seracchi, cascate gelate. Si scala sull’acqua e sull’effimero. Si scrive un’altra storia.


Non saliamo sul Monviso di Forzo. L’auspicio della “Montagna Sacra” (febbraio 2023)
Il simbolo della montagna sacra sembrerebbe appartenere alla visione orientale del creato, che ha spesso immaginato e venerato le cime innevate come dee della fertilità e dispensatrici di acqua e vita. Inoltre la montagna sacra è ovviamente presente nella Bibbia, dal Monte Sinai di Mosè al Monte della Trasfigurazione di Gesù, eppure la nostra idea è assai più sfumata di quella orientale. In fondo noi occidentali ignoriamo la vera sacralità della cima, che significa limite e rispetto.
E qui sta il punto. È venuto il momento di astenersi dalla conquista materiale, almeno in alcuni luoghi, per ribadire che non siamo i padroni dell’universo. È ciò che pensa un nutrito gruppo di intellettuali, naturalisti, alpinisti e semplici amanti della montagna, che in occasione dei cent’anni del Parco nazionale Gran Paradiso ha sviluppato un progetto assai innovativo, ottenendo l’adesione di un ampio ventaglio di sostenitori in forma associativa e individuale: il Club Alpino Italiano, l’Alpine Club di Londra, gli alpinisti Kurt Diemberger, Fausto De Stefani, Hervé Barmasse, Alessandro Gogna, Manolo, l’antropologo Duccio Canestrini, i giornalisti Paolo Rumiz, Michele Serra, il regista Fredo Valla, i saggisti Guido Dalla Casa e Silvia Ronchey, gli scrittori Paolo Cognetti, Matteo Righetto, Tiziano Fratus, Daniela Padoan, Raffaella Romagnolo, gli attori Giuseppe Cederna, Lella Costa, Giovanni Storti. In un’epoca avida di performance e povera di spirito, in una società segnata dalla competizione e dal dissennato consumo delle risorse naturali, i sostenitori del progetto auspicano che almeno su una cima – identificata con il Monveso di Forzo, l’elegante triangolo a cavallo tra la Valle Soana e la Valle di Cogne – ci si astenga volontariamente dalla “conquista” per riscoprire il significato del limite. Si tratta di un atto unicamente simbolico, ma fermarsi sotto la cima lasciandola ai giochi del vento può essere una scelta quasi rivoluzionaria per una cultura antropocentrica e “padrona” come la nostra.
Niente di confessionale: il termine “sacro” va inteso in senso laico, nel segno del rispetto e della contemplazione. E niente di costrittivo: la “Montagna Sacra” non sarà mai un luogo di divieti. Il progetto non prevede alcuna interdizione formale e nessuna sanzione pecuniaria. Molto più semplicemente, l’impegno a non salire sul Monveso è una scelta culturale, un libero ammonimento, un vivissimo auspicio, nella speranza che venga compreso e abbracciato dall’intera comunità.
Info: www.sherpa-gate.com/la-montagna-sacra/
https://www.facebook.com/montagnasacra


«George perché vai sull’Everest?» I cento anni del suo: «Perché è là» (gennaio 2023)
«Ero pronto – scrisse George Mallory puntando nuovamente all’Everest nel 1924, ignaro che sarebbe stata l’ultima sua partenza per la più folle delle avventure –. Ricordo ancora come la mia anima sorvolasse sui diversi preparativi e si dicesse, come Dio dopo la creazione, che tutto andava bene. Il pensiero di ciò che sarebbe potuto succedere nei due giorni successivi balzò, come in un sogno, verso l’alto, e i miei desideri volarono di nuovo: immagini piene di speranza. La mia meta era straordinariamente chiara: il punto più alto della terra!»
Il professor Mallory non era un grande stratega, non era un uomo pratico e neppure il più bravo degli alpinisti britannici – all’epoca ce n’erano di superiori in Inghilterra, sulle Alpi e anche altrove –, ma quanto a sogni non lo batteva nessuno. Aveva il carisma e la fede dei visionari, due doti indispensabili per tentare l’Everest appena pochi anni dopo la prima guerra mondiale, negli ultimi scampoli dell’alpinismo colto, esplorativo e romantico, e circa tre decenni in anticipo sulla Storia. Come noto, Mallory scomparve con il compatriota Andrew Irvine intorno agli 8500 metri, sugli ultimi salti della cresta settentrionale, non così lontano dalla cima, seminando un grande mistero: se ce l’avessero fatta prima che le nuvole li inghiottissero, sarebbe stata la più grande impresa alpinistica di sempre.
Lasciarono una traccia sulla neve, ma il vento la cancellò immediatamente. Nessuno poteva testimoniare per loro, quindi scomparvero anche dalle cronache e per lungo tempo si sorvolò pietosamente sulla morte dei valorosi fin che, con il passare degli anni e l’accrescersi del mito, tornarono in terra. Accadde quando Hillary e Tenzing salirono la cima delle cime nel 1953, misurandosi a ogni passo con l’enigma di chi (forse) li aveva preceduti, e poi nella primavera del 1999, quando una spedizione americana ritrovò il corpo seminudo del professore a notevole altezza, sul versante tibetano della montagna: la seconda morte di Mallory. Da allora sono stati versati fiumi di inchiostro sull’eroe dell’Everest e tutti hanno voluto dire la loro: che era stato in vetta, che non ci era stato, che era caduto in salita, in discesa, di notte, nel soffio della tempesta, stroncato dalla fatica. Sono tutte illazioni, perché l’unica “verità” che ci lascia quell’uomo alto e bello è ciò che rispose nel 1923, cento anni fa, a un cronista sinceramente curioso: «Perché ci vai, George?» «Perché è là.»


Da quest’anno superbollente la lezione sui nostri sprechi (dicembre 2022)
Si chiude un anno bollente: il più freddo di quelli che verranno, dicono i realisti. Quest’anno sulle Alpi sono morti dei ghiacciai, e altri sono ormai morenti. Mentre la Marmolada perdeva la calotta di ghiaccio, nei segreti recessi dell’arco alpino sparivano per sempre gli ultimi nevai “perenni”, che tali non sono, evidentemente, e le vedrette sotto i 3500 metri smagrivano fino al punto di non ritorno. Fondevano a vista d’occhio anche i ghiacciai più grandi e famosi, quelli delle cartoline illustrate. Guardate le immagini della Mer de Glace: è un mare di ghiaia. Osservate il Cervino: un blocco di pietra. L’Aletschgletscher sprofonda nel fiordo roccioso. Sulle Alpi le temperature crescono a velocità doppia della media: a fine luglio lo zero termico era a 5184 metri, più alto della cima più alta. Il nuovo paesaggio alpino d’alta quota ricorda una folla di corpi spogliati e nudi. Anche gli ultimi avamposti dello sci estivo – Plateau Rosa, lo Stelvio – si sono arresi al riscaldamento climatico.
Il problema è l’acqua, fonte di ogni esistenza. Tra alluvioni e siccità, ormai ce n’è sempre troppa o troppo poca. La neve e il ghiaccio non sono solo candidi ricami da cartolina illustrata, hanno il potere di immagazzinare l’acqua d’inverno e restituirla gradualmente tra la primavera e l’estate, alimentando torrenti e fiumi, ma anche fontane, acquedotti e campagne, dissetandoci con giudizio e proteggendoci dalle inondazioni e dalle magre. In pochi decenni i serbatoi idrici d’alta quota si sono ridotti almeno del cinquanta per cento, con botte da record nel 2003 e nel 2022, quest’anno, ma finché l’acqua delle montagne ha continuato a dissetare le città, illuminare le case e perfino innevare artificialmente le piste di sci, nessuno s’è posto il problema che un giorno potesse scarseggiare o addirittura mancare, ed è l’altra faccia di questa annata anomala, che purtroppo non lo è più. Il caldo eccezionale registrato tra la fine di maggio e i primi di agosto s’è “posato” su una montagna già quasi secca a tarda primavera, quando i serbatoi avrebbero dovuto essere colmi.
Più volte ho immaginato di essere sul Kilimangiaro o sul Ruwenzori, mentre camminavo sopra prati disidratati e sotto cieli opachi, come febbricitanti. A qualsiasi quota si sudava nella bolla africana, desiderando l’ombra anche a tremila metri. Probabilmente sarà la cifra futura del nostro abitare un pianeta troppo fragile per ospitare i nostri giochi e i nostri sprechi. Il pianeta si adatterà, noi siamo una specie ad alto rischio.


Ancestrale e modernissimo. E’ il messaggio del lupo (novembre 2022)
La figura del lupo feroce nasce nel Medioevo, ma l’archetipo culturale si mantiene nei secoli. Nel 1573, quando il Medioevo è finito da tempo, in un famoso trattato sulla “Venerie” Jacques du Fouilloux afferma che «fra tutti gli animali selvatici il lupo è sicuramente il più malvagio e il più nocivo, che merita di essere inseguito e cacciato dai cani e dagli uomini». E ancora tre secoli più tardi, nel 1863, il barone Dunoyer de Noirmont sostiene che «di tutte le grandi cacce, quella al lupo è la sola che abbia un carattere di utilità pubblica». Siccome il pregiudizio è sempre l’ultimo a morire, dev’esserci un po’ di memoria inconscia nel gesto dimostrativo dello scorso settembre in Valchiavenna, dove una testa di lupo è stata appesa a un cartello stradale con un lenzuolo insanguinato e il messaggio: “I professori parlano, gli ignoranti sparano”. Il presidente della Comunità montana ha dichiarato che si trattava di «una provocazione inutile e becera», che però era «espressione del forte segnale di disagio e preoccupazione che gli allevatori della zona stanno vivendo per la continua minaccia del lupo». Di fatto ha assolto gli autori del gesto. Il WWF ha replicato che «l’atto criminale e macabro reca un chiaro messaggio contro la presenza del predatore e contro chi cerca di favorire una pacifica coesistenza con le attività umane». È solo uno degli ultimi scontri nell’interminabile contesa tra i difensori del lupo e i suoi detrattori, diventata una specie di referendum all’italiana con metà “votanti” che lo idealizza e l’altra metà che vorrebbe sterminarlo. I cittadini e gli ambientalisti scorgono nel lupo il romantico abitatore della natura selvaggia, i montanari e soprattutto gli allevatori vedono un nemico. Metà da una parte e metà dall’altra, come succede in politica. Ma il lupo non sta da nessuna parte, segue le sue leggi e va semplicemente alla ricerca di cibo e spazi. Per questo le Alpi sono ancora il suo habitat naturale, e lo sono più di prima grazie all’aumento degli ungulati. Per noi umani è diventato una serissima provocazione culturale, perché eravamo convinti di essere rimasti gli unici carnivori nella civilizzata Europa al tempo di internet, e invece arriva un selvaggio a scombinarci le certezze. Eravamo certi di avere sottomesso la natura alpina, e invece sono bastate poche decine di branchi su un arco di milleduecento chilometri per ricordarci che la natura elude ogni controllo incondizionato, e che noi stessi siamo natura. Il lupo è un catalizzatore di contraddizioni. Porta con sé un messaggio ancestrale e modernissimo.


Stop sci estivo, svanisce il sogno di (ottobre 2022)
Prima l’invenzione dello sci infrange i tradizionali limiti dell’inverno alpino trasformandolo nella stagione più attesa e redditizia dell’anno, poi l’idea dello sci estivo rafforza e rovescia il paradosso. La pubblicità diffonde immagini di donne in scarponi e bikini sulle nevi dello Stelvio o ai piedi del Cervino. È un miracolo da boom economico ed è la quadratura del cerchio: sciare, sì, ma come al mare, approfittando dei ghiacciai “eterni” e delle nevi “perenni”; unire l’estate e l’inverno in una prospettiva irreale; aggiungere il sale dell’erotismo a una disciplina vestita e abbottonata come lo sci, in un mondo tradizionalmente “casto” come la montagna.
In realtà lo sci di luglio e agosto serve soprattutto a indorare l’offerta estiva di centri nati e cresciuti per gli sport invernali, mutilati da un eccessivo sviluppo urbanistico, inevitabilmente sbilanciati verso la monocultura dello sci, spesso impreparati ad affrontare la bella stagione. Nella lista si iscrivono le stazioni francesi di Tignes e Les Deux Alpes e quelle italiane di Cervinia e del Passo del Tonale. All’inizio si scia anche ai colli del Gigante e del Sommeiller, mentre il Passo dello Stelvio, aperto solo in estate, diventa il paradiso dello sci estivo. Più a est c’è il comprensorio della Val Senales che si appoggia sul Giogo Alto, non lontano dalla tomba di ghiaccio di Ötzi, la famosa mummia risalente a tre millenni prima di Cristo che morì proprio sul ghiacciaio durante una traversata.
Col passare del tempo cambiano i gusti e la moda si ridimensiona. Quasi ovunque, dopo gli anni Novanta del secolo scorso, lo sci estivo registra una crisi. Sciare a Ferragosto non è più un’esperienza così irrinunciabile; aumenta la concorrenza dei viaggi esotici e delle mete lontane; si riduce drasticamente il manto nevoso, penalizzato dalle estati sempre più calde e dallo sfruttamento intensivo della neve. D’estate i cannoni non funzionano a causa delle alte temperature e i patetici lenzuoli stesi sui pendii per proteggere l’oro bianco non sono altro che palliativi. Nella scorsa estate il riscaldamento climatico ha dato il colpo di grazia, manifestandosi dapprima tragicamente sulla Marmolada, dove lo sci estivo è ormai un ricordo, e poi sui ghiacciai dello Stelvio e di Plateau Rosa, dove la neve è scomparsa presto e a fine luglio non si sciava già più. Svanisce un sogno, o più onestamente muore l’illusione di imbrogliare le stagioni e agire contronatura. Lo facciamo continuamente, insistiamo, ma talvolta dobbiamo arrenderci.


Ghiacciai, il primo grande crollo: era il 1989, venne giù il Coolidge (settembre 2022)
Secondo illustri glaciologi come Claudio Smiraglia, il primo grande crollo glaciale nel tempo del riscaldamento climatico risale al 1989, oltre trent’anni prima della Marmolada. Era l’inizio di luglio come quest’anno, quando venne giù il seracco Coolidge.
Quella sera c’erano soltanto due pretendenti per l’impegnativa parete nord del Monviso: Marc Albaladejo e Linda Mons. Avevano lasciato il Principato di Monaco in mattinata e raggiunto il Pian del Re in automobile a metà pomeriggio; le previsioni del tempo erano favorevoli e il vento del nord ispirava buoni presagi. La minuscola semi botte del bivacco Villata, che dal 1958 offre ricovero agli alpinisti impegnati nella lunga ascensione, era poco più di un nido d’aquile appollaiato sullo sperone del canalone Coolidge. Mentre andavano a dormire, Marc e Linda avevano notato che la pressione stava diminuendo contro le previsioni. Un leggero vento da sud-ovest aveva velato il cielo e faceva anche un po’ troppo caldo per la quota del bivacco. Pochi minuti dopo s’era scatenata l’Apocalisse:
«Improvvisamente sussultiamo nel dormiveglia, destati da un possente e sordo rimbombo che rapidamente si intensifica fino a diventare un boato terrificante che si avvicina a velocità vertiginosa. Il couloir nord sta franando con un baccano allucinante. Atterriti nelle cuccette, con gli occhi sbarrati nell’oscurità, ci aggrappiamo alle nostre povere coperte. Al passaggio di quello che a noi sembra il fronte della valanga, il bivacco si mette a vibrare violentemente e subito si sentono i primi colpi delle pietre che colpiscono con forza il nostro ricovero provocando degli squarci in cui entra l’acqua; pare che tutto debba disintegrarsi…»
Alle 6 del mattino, dopo una notte d’angoscia con i caschi in testa a orecchiare le scariche, i due alpinisti lasciano finalmente il bivacco: «La porta è per metà bloccata dalla neve e dal pietrame. Appena usciti all’esterno, stupefatti, valutiamo attraverso la cortina di nebbia l’ampiezza della valanga. I bordi del canale che ieri erano ricoperti da un mantello nevoso spesso mezzo metro non esistono più; resta solo una lunga striscia di ghiaccio bianco-grigio incisa al centro da un solco profondo, dove corre un vero torrente d’acqua. Giù al fondo la valanga si apre su un triangolo di un chilometro di base per un chilometro e mezzo di altezza. Il Lago Chiaretto, seicento metri più in basso, appare interamente coperto». I glaciologi valuteranno l’entità del crollo in circa duecentomila metri cubi di ghiaccio.


Il Parco Gran Paradiso festeggia il secolo di vita (agosto 2022)
Quest’anno il Parco nazionale del Gran Paradiso festeggia il secolo di vita. Da un lato è un traguardo fantastico, perché in cento anni di visioni, scontri e riconciliazioni si è salvata una delle porzioni più preziose delle Alpi, con tutti i viventi che la popolano. Ma alla luce delle coraggiose scelte del passato, il compleanno indica anche la debolezza progettuale del nostro tempo, a cominciare dai parchi.
Le storie della Riserva reale di caccia e del primo Parco nazionale italiano si sovrappongono a quella dello stambecco, che nel medioevo era considerato un animale magico e salvifico. I rimedi estratti dal grande mammifero non si contavano: i coaguli del sangue contro l’anemia, la polvere delle corna contro la diarrea, le concrezioni dell’intestino per i casi di epilessia, e soprattutto l’ossicino del cuore, infallibile talismano… Alla medicina si sovrapponevano la fame dei poveri e l’ingordigia dei potenti, così che tra il Sette e l’Ottocento il signore di Cogne dovette chiedere aiuto ai Savoia per salvare l’animale dall’estinzione.
«Rimane fin d’ora proibita in qualsivoglia parte de’ regii domini la caccia degli stambecchi». È il 21 settembre 1821. Il re di Sardegna Carlo Felice emana le Regie Patenti e proibisce la caccia nei suoi possedimenti, concessa solo ai discendenti di Casa Savoia. Paradossalmente, è proprio l’ambizione venatoria della famiglia reale a salvare dall’estinzione l’animale simbolo del Gran Paradiso, ridotto a 35 maschi, 35 femmine e 30 piccoli sopravvissuti tra le aspre pendici valdostane del massiccio. Bisogna arrivare agli anni Venti del Novecento perché Vittorio Emanuele III decida infine di donare al Demanio forestale dello Stato i diritti sui 2100 ettari della Riserva reale, e così il 3 dicembre 1922 nasce il Parco nazionale, destinato a «conservare le forme nobili della fauna e della flora alpine e impedire la sparizione della bella e apprezzata razza degli stambecchi». Appoggiando il disegno di legge del parco, Benedetto Croce afferma «esservi nella difesa delle bellezze naturali un altissimo interesse morale e artistico che legittima l’intervento dello Stato».
Che ne è oggi di quelle visioni? In parte sono diventate patrimonio collettivo e nessuno si considera più il padrone di una specie o di un’eredità naturale, ma allo stesso tempo siamo alla ricerca di una nuova etica, un nuovo linguaggio, che aggiornino il valore della biodiversità e dei beni ambientali, la nostra responsabilità nel difenderli, perché anche noi siamo natura. Come lo stambecco.


Rifugi, da sempre un faro per chi va in montagna (luglio 2022)
La Giornata regionale per le montagne si celebra in Lombardia la prima domenica di luglio, nella data che rappresenta simbolicamente l’inizio della stagione dei rifugi. Ma che cosa significa, nel 2022, “aprire” un rifugio di alta montagna? Una volta era un evento solo per gli alpinisti – come a dire «ragazzi l’estate è arrivata, la neve se n’è andata e finalmente potete tornare a scalare» –, ma oggi il rifugio è di più. In un paesaggio sempre meno coltivato e abitato, è diventato il presidio estremo, il luogo che offre ospitalità, aiuto e consulenza. Se non ci si può fermare nell’alpeggio a chiedere consiglio, perché gli alpeggi sono spesso abbandonati o custoditi da malgari stranieri, si va al rifugio. Lo si punta come un faro sullo scoglio sapendo che ci sarà qualcuno capace di accogliere e comunicare, anche solo con una parola gentile; sicuri di incontrarci la vita. Il rifugio di oggi è un presidio turistico, alpinistico e ambientale, la funzione più importante. In qualche modo è anche un presidio educativo, il più alto, immediato ed efficace. Quando si ha bisogno s’impara più in fretta.
Ci sono tre specie di frequentatori. C’è chi sale per scalare le cime che stanno sopra: è sempre il primo che si corica e anche il primo a partire nel cuore della notte. C’è chi dorme ma non sale, attraversa, e sono quelli che utilizzano il rifugio come posto di tappa durante un’alta via, un trekking. Infine c’è chi non ci dorme nemmeno, perché il rifugio è la sua meta. Se sono un turista che sale al rifugio per mangiare una polenta e poi tornare subito a valle, allora la casa sulla montagna diventa la mia vetta, la più alta e desiderabile delle cime.
Il turismo alpino di massa ha eletto il rifugio a “casa dell’escursionista” e l’ha trasformato nelle forme e nei significati. Il rifugio ai tempi di internet è ormai un luogo abbastanza simile agli hotel di fondovalle, con camere, docce, bar, ristorante e grandi vetrate che si affacciano sul mondo esterno. Gli architetti non lo concepiscono più come un romantico spazio di incontro, ma come luogo di passaggio e commercio, utilizzando materiali, arredi e soluzioni abitative funzionali al turismo intensivo. Soluzioni che guardano sempre più alla valle che sale e sempre meno alla montagna che sta su. Tuttavia il rifugio resta il simbolo del turismo leggero e rispettoso. Perché di solito ci si sale con le proprie gambe, mischiando sudore e curiosità, e anche perché si trova nei posti elevati, i più lontani dall’inquinamento delle città e i più vicini alla luce delle stelle.


Diemberger, 90 anni e belle contraddizioni (giugno 2022)
Kurt Diemberger ha novant’anni, che è una bella età per tutti ma per uno che ha rischiato tanto come lui è molto di più. La sua vita è difficile da riassumere. Nasce a Villach in Austria nel 1932 e comincia a scalare negli alti Tauri, poi scopre di essere dotato per il ghiaccio e l’alta quota e nel 1956 supera la famosa “meringa” sulla parete nord del Gran Zebrù. Uno strabiliante progetto estetico. Oltre alle grandi pareti nord delle Alpi occidentali – Eiger, Cervino e Grandes Jorasses –, scala la cresta integrale di Peutérey al Monte Bianco, dove si porta appresso una pesante cinepresa per girare con Franz Lindner il film che lo renderà famoso. Ma il suo ambiente è l’Himalaya: è l’unico uomo al mondo che abbia salito per primo due ottomila, il Broad Peak nel 1957 e il Dhaulagiri nel 1960. Nella sua lunga carriera gli ottomila diventeranno ben sei. In realtà il Broad Peak l’ha salito due volte, perché in discesa ha incontrato Hermann Buhl ed è ritornato in cima con lui, e poi Buhl gli ha proposto di tentare insieme il Chogolisa, precipitando dalla cresta e sparendo nella bufera. Senza volerlo, Kurt è stato testimone della scomparsa di uno dei più grandi alpinisti di sempre.
Tutto questo è già tanto, ma lui l’ha reso popolare, leggibile e in qualche modo “eterno” grazie alle arti di fotografo, scrittore e cineasta. Non pensate al classico artista scapigliato e sregolato, piuttosto a un creativo metodico e pignolo, un anarchico che mette tutti in riga, uno che quando fa una serata arriva molte ore prima e verifica ogni dettaglio perché vorrebbe sempre avvicinare la perfezione, e poi si adatta alle circostanze come ha fatto tante volte in alta montagna. Sono le meravigliose contraddizioni di Diemberger, che gli hanno permesso di sopravvivere così a lungo e portare a compimento le sue visioni. Il libro più bello è il primo, Tra zero ed ottomila, il film più riuscito è K2, sogno e destino, che racconta la tragica ascensione al K2 del 1986, dove Kurt ha perso la compagna Julie Tullis nella discesa. È andato avanti malgrado tutto, ispirato da una fede assai personale, ha amato molte donne e messo al mondo alcuni figli, onestamente consapevole che «noi ossessionati sappiamo che cosa pretendiamo dalla famiglia. A volte tutto. Succhiamo l’energia da chi ci sta vicino, centriamo il nostro prossimo su noi stessi, ne facciamo provvisoriamente dei satelliti. C’è però anche l’altro lato della medaglia. In cambio portiamo molta luce. La nostra passione è contagiosa. Condividiamo con loro i nostri sogni. Finché viviamo».


“Nuovo Mattino”, la bella favola che ha aperto le porte all’arrampicata (maggio 2022)
Nel 1972, esattamente cinquant’anni fa, Gian Piero Motti pubblica un articolo sulla Rivista mensile del CAI. S’intitola “I falliti” ed è un pugno nello stomaco. In sintesi dice con parole chiarissime, molto umane, che chi vive di solo alpinismo è un fallito perché non è in grado di partecipare alla vita sociale, non coltiva vere amicizie ed è condannato a scappare in montagna per sentirsi qualcuno, ma appena torna giù è una persona incompiuta. Motti si riferisce innanzitutto a se stesso, ma i “vecchi” alpinisti la prendono male sentendosi giudicati e condannati, mentre i giovani come me si identificano completamente. Il linguaggio è cambiato dopo il 1968 e anche l’arrampicata è destinata a trasformarsi da atto eroico ad azione umana, fallibile e incerta come tutte le cose della vita. Però ci vuole il detonatore: un visionario come Motti che veda lontano.
Gian Piero, filosofo e scrittore, è un ottimo alpinista. Giovane colto e carismatico, grande lettore delle riviste francesi e anglosassoni, ci porta al centro del problema. Vogliamo andare a scalare per vivere o per soffrire? Abbiamo davvero bisogno di eroi, vette simboliche e croci sacrificali? Evidentemente non ne possiamo più. Di lì nasce il movimento torinese passato alla storia come Nuovo Mattino. I contestatori cercano in parete il loro altrove, una verità complementare ma non conflittuale con l’esperienza urbana. Rifiutano i pantaloni alla zuava e li sostituiscono con i jeans e la maglietta. Se la tradizione dice che “lo zaino è la casa dell’alpinista”, loro lo lasciano a casa. Ispirati dal mito dell’arrampicata californiana, trovano splendide pareti di gneiss a pochi minuti dalla strada della Valle dell’Orco e volando di fantasia le chiamano Caporal e Sergent, in risposta al leggendario Capitan della Yosemite Valley. Il primo itinerario, sempre cinquant’anni fa, si chiama simbolicamente “Tempi moderni” e solca la lavagna del Caporal lungo la linea più logica, a sinistra dello specchio su cui, sempre grazie alla visione e all’opera di Motti, nascerà la via “Itaca nel Sole” che chiuderà una storia tanto intensa quanto breve.
A metà degli anni Settanta gli eventi mettono brutalmente fine al rinascimento della scalata italiana, con la morte per assideramento di Danilo Galante e la morte per suicidio di Gian Piero Motti e, successivamente, con l’incidente di Gian Carlo Grassi e la morte postuma di Roberto Bonelli. Finisce tragicamente la bellissima favola che ha aperto le porte all’arrampicata contemporanea.


Tuteliamo gli ambienti di alto valore da grandi eventi come Olimpiadi (aprile 2022)
Chi ha seguito i Giochi olimpici invernali di Pechino ha visto uno spettacolo entusiasmante. Tutto era pensato per la televisione, dalla cerimonia di apertura a quella di chiusura, dai colori di fondo alle scenografie, dalle piste di discesa agli altri impianti. Sullo schermo era tutto perfetto e sul terreno era tutto artificiale: la neve, la luce, gli stadi, perfino le montagne, lavorate ad arte per ottenere i giusti spazi e le pendenze ottimali. Un territorio è stato plasmato in funzione dello spettacolo, rivoltato da cima a fondo, ripensato e ridisegnato come un unico grande apparato scenico, fino a ottenere quel risultato sorprendente.
Pechino ci ha fatto capire quanto i grandi eventi siano cambiati, non solo per effetto della pandemia. Sono dunque lecite e urgenti alcune considerazioni. Ammesso abbia ancora senso fare Giochi di queste dimensioni, che sia ancora un investimento redditizio, d’ora in poi bisognerebbe evitare gli ambienti fragili e di alto valore paesaggistico come le Dolomiti di Cortina, tanto per essere chiari. Non è più la località famosa a ospitare i giochi, ma sono i giochi – elefantiaci – a modellare la sede in cui si svolgono, e non di rado a stravolgerla.
Ha ragione Cipra Italia, quando ammonisce che «la regione alpina non dovrebbe più essere presa in considerazione come sede di tali eventi. Per essere realmente sostenibili, i Giochi olimpici invernali dovrebbero comprendere meno discipline e prevedere l’affluenza di un numero di persone di gran lunga inferiore; dovrebbero inoltre essere ospitati esclusivamente in aree climaticamente idonee e prevedere l’utilizzo di strutture esistenti».
Siccome, realisticamente, mi sembra utopico “comprendere meno discipline e prevedere l’affluenza di un numero di persone di gran lunga inferiore”, e anche usare le strutture già esistenti perché il business olimpico si basa sulla realizzazione di nuove infrastrutture, penso che l’unica soluzione sia quella più paradossale, ma più sostenibile: allontanarsi dai centri famosi e ripensare le olimpiadi per quello che sono, una gigantesca operazione d’immagine, collocandole in ambienti urbani, o semi urbani, o peri urbani, non nel cuore di un Patrimonio Unesco. Naturalmente, per i Giochi invernali, esiste ed esisterà sempre di più il problema climatico, perché il ghiaccio e la neve vanno creati e conservati a basse temperature, per cui Pechino ha funzionato e altri luoghi non si potranno più considerare idonei.


“La nuova vita delle Alpi” grazie agli altri montanari (marzo 2022)
Vent’anni fa usciva da Bollati Boringhieri La nuova vita delle Alpi, un libro in cui esploravo il passato, la crisi e il futuro delle Alpi dal punto di vista umano e naturale. Eravamo a una svolta, ma non era facile prevedere le direzioni da imboccare. La mia tesi era che due strade fossero fallite: il vizio di portare la città in montagna e la tentazione di fare delle Alpi un museo del passato. Restava da immaginare la terza via.
Se oggi mi si chiedesse che cosa sia cambiato sull’arco alpino italiano risponderei così: sul piano dell’immagine è cambiato poco, tanto che i media continuano a inseguire il solito vecchio schema bipartito: le romantiche Alpi della tradizione e le “moderne” Alpi del divertimento (consumo) urbano; sul piano delle politiche è cambiato poco, perché se si escludono le regioni a statuto speciale, non si nota alcun interessamento significativo dei governi regionali per i destini delle loro montagne, tuttora considerate perdenti dal punto di vista elettorale; sul piano delle avanguardie è cambiato molto, e lo dimostrano gli incoraggianti casi di buone pratiche diffusi sull’arco alpino.
Una delle intuizioni del libro era che il montanaro di nascita non esisteva più, e in futuro sarebbe stata una scelta. Bisognava cominciare a considerare il “nuovo montanaro” che sale dalla città perché ha deciso di abitare le terre alte, o di ritornare, ed è montanaro per vocazione, non per tradizione o punizione. All’epoca era solo un’ipotesi, finché con la nascita dell’Associazione Dislivelli arrivò la prima ricerca: Vivere a chilometri zero. Ottenemmo una risposta fondamentale: in Piemonte (ma non solo) i nuovi montanari esistevano. In Valchiusella si erano registrati 385 nuovi residenti negli ultimi cinque anni e 1450 in bassa Valle di Susa. Non erano ancora cifre in grado di rovesciare i destini della montagna, ma potevano rallentare e talvolta invertire le dinamiche dello spopolamento del Novecento. I nuovi arrivi (spesso di famiglie giovani, con figli piccoli) generavano circuiti virtuosi, perché con la crescita della popolazione miglioravano i servizi e diventava più difficile chiudere un asilo o una farmacia. Ma c’era dell’altro. Le interviste mostravano che la ripresa delle terre alte dipendeva dalla salita della gente di pianura, che è diversa dal montanaro doc per stili e progetti di vita, e porta linfa e visioni decisive. Ecco, in vent’anni questa è stata “la nuova vita” delle Alpi: ancora imperfetta, poco capita dalle istituzioni, ma fondamentale per guardare al futuro.


Vette simbolo della suprema quiete. Cinquant’anni senza Buzzati (febbraio 2022)
«Da qualche anno siete cambiate. Perché?» si chiede il giornalista e alpinista Dino Buzzati qualche tempo prima che il male se lo porti via il 28 gennaio 1972, cinquant’anni fa. «Perché siete diventate così grandi e alte di statura, che adesso non si arriva mai? Perché siete diventate così ripide… Basta. Non siete più quelle di una volta, non mi incantate più, addio». È il suo saluto alle montagne, che corrisponde all’estremo atto d’amore di un uomo e di uno scrittore che ha attinto dalle Dolomiti spunti di bellezza ed elevazione, ma anche crude lezioni esistenziali. Buzzati non ha mai nascosto la fragilità della vita e dell’ambizione umana, nemmeno quando ci ha raccontato dei sestogradisti che sfidavano la verticale o di pareti che crollavano mostrandosi transitorie come vite, appunto.
Per Buzzati la montagna era “il massimo simbolo della suprema quiete”. Non un teatro su cui misurare le proprie forze con quelle della natura, tanto meno un chiassoso luna park domenicale dove seguire la fila dei turisti sulle rotte alla moda, ma un mondo incantato, il mondo dei suoi sogni adolescenziali, denso di significati spirituali. Per questo era solito raggiungere le Dolomiti con la fidata guida Franceschini nel mese di settembre, quando le folle erano ripartite per la città e le Dolomiti riacquistavano il silenzio e il candore.
Dopo il gruppo della Schiara, la montagna di casa, le Pale di San Martino sono state le Dolomiti più amate dallo scrittore bellunese, perché non erano un massiccio troppo degradato dalla frequentazione turistica e incarnavano le due dimensioni estreme della natura: l’orizzontale e il verticale. Lui era ugualmente attratto dalle pareti sfuggenti del Cimon della Pala, del Campanile Pradidali o della Cima della Madonna, i luoghi della vertigine, come dalle morbide linee orizzontali dell’Altopiano, una sorta di deserto di pietra sospeso nel cuore del massiccio. Due vuoti contrapposti, due dimensioni complementari. Buzzati fu perdutamente affascinato dalla metafora dei contrari; si portò dentro quei paesaggi per tutta la vita e con la memoria di quei paesaggi ambientò le novelle e i romanzi. Basta leggere tra le righe e le Dolomiti di Buzzati riappaiono sempre, anche tra i palazzi di una città o dietro le allucinazioni del tenente Drogo perso nello stillicidio del tempo. Le malinconie delle Pale riprendono forma nelle atmosfere sospese del Deserto dei Tartari, accanto ai ricordi della Val Belluna, alle fortezze naturali di Val Canali e agli scorci remoti di Canàl d’Agordo.


Il grande alpinista Gaston Rébuffat impareggiabile cantore delle vette (dicembre 2021)
A Marsiglia cento anni fa nasceva Gaston Rébuffat, alpinista e guida di classe, oltre che impareggiabile cantore della montagna. L’opera di Rébuffat incornicia il periodo d’oro dell’alpinismo francese e almeno una generazione di scalatori ha sognato sui suoi libri.
Tuttavia Gaston non nacque grande. Anzi, a sentire un “grande” che lo conobbe bene, Lionel Terray, ebbe un’infanzia incolore: «Era un ragazzone dinoccolato, timido, disciplinato, dolce e un po’ opaco – scrive Terray –. Sembrava il tipico esemplare del francese medio». Viveva vicino al mare, scalava sulle Calanques di Marsiglia e lavorava in ufficio. Nascondeva i sogni e la passione che gli bruciavano l’anima. Presto divenne guida alpina e si trasferì a Chamonix, sotto il Monte Bianco, dove ripeté i maggiori itinerari e aprì difficili vie nuove, specialmente in cordata con Louis Lachenal. Nel 1950 venne selezionato per la spedizione all’Annapurna, un punto forte dello sciovinismo francese, che fu una vittoria agrodolce, funestata dalle tempeste. Gaston si prodigò prima per il successo e poi per il salvataggio di Herzog e Lachenal gravemente congelati. Tornò sulle guglie del Monte Bianco, il “giardino delle fiabe”, e con clienti assai dotati si confermò la migliore guida del suo tempo. Ormai era famoso, ma non si accontentò – continua Terray –. «Divenne l’animatore commerciale di un’azienda importante, scrittore di montagna con opere di bello stile e di notevole vena poetica (con tirature eccezionali), fotografo di talento, applaudito conferenziere e regista di film molto promettenti». Da geniale divulgatore, Rébuffat usava alcune chiavi narrative ricorrenti: l’amicizia, la bellezza, la semplicità, le voci della natura, le magie delle guide. È stato senza dubbio il più ispirato cantore dell’alpinismo classico, il narratore delle vie più belle sulle pareti più estetiche delle cime più magiche, senza però cadere negli stereotipi dell’alpinismo romantico e nell’ipocrisia della montagna salvifica. Negli ultimi anni di vita, con il corpo già minato dal cancro, non risparmiò le denunce contro l’inquinamento biologico e mentale dell’uomo moderno («Soffocare la natura è un modo per non vederci più») che non risparmiavano agli alpinisti il peso della responsabilità. Reso lucido dall’imminenza della morte, denunciò sempre più esplicitamente la mistificazione del buonismo d’alta quota, confidando all’amico giornalista Jean-Michel Asselin che «gli alpinisti – lassù – non sono affatto dei santi».


Duecento anni di guide alpine da Chamonix alle terre alte (ottobre 2021)
Se un alpinista sceglie il mestiere della guida alpina, allora la sua cima diventa il piacere del cliente. Se quello non sorride, o non capisce quanto è bello, o vuole tornare indietro perché ha mal di pancia, è stata una gita senza cima. Se il cliente vede gli angeli è cima anche in rifugio.
Succede così da almeno due secoli, infatti quest’anno si festeggia il bicentenario della prima società delle guide fondata a Chamonix nel 1821, ai piedi del Monte Bianco. Da una parte il tempo è volato e dall’altra sembra essersi fermato, perché c’è ancora qualcosa di meravigliosamente anacronistico nel legare un lui o una lei con una corda e portarli sulla cima. Prima di tutto c’è la corda, che in montagna vuol dire sicurezza e fiducia, ma è pur sempre una fune, un nodo, un vincolo, e in nessun’altra relazione umana ci si lega per sentirsi liberi. Poi c’è la cima, che può anche diventare un canyon, una parete, una traversata con gli sci, comunque un mezzo per mettersi alla prova, con la guida in testa alla cordata e il cliente dietro, nelle sue mani. Per molti la vetta ha ancora un valore totemico, talvolta anche religioso, per altri basta il confronto con la natura difficile, la vertigine che ti lusinga, il vuoto, la paura, quella voglia irragionevole di perdersi per ritrovarsi.
Compagno, in fondo, è la parola giusta, perché è dall’inizio dell’Ottocento che la guida “accompagna” sulle Alpi i cittadini con qualche ambizione speciale. C’è stato un periodo, verso la fine di quel secolo, in cui guida e cliente erano figure perfettamente simbiotiche, coppie da scalata, impasto di abilità tecnica e lucidità intellettuale. Si sono aggiudicati gli itinerari più belli delle Alpi, che ancora oggi portano il nome di quei clienti – Rey, Fontaine, Young, Norman Neruda – e nascondono quelli delle loro guide: Castagneri, Ravanel, Knubel, Klucker.
Ora che non c’è più niente da conquistare, e i riti iniziatici dei pionieri si sono trasformati in avventure facilmente programmabili, l’esperienza della montagna assume i contorni di un’iniziazione diversa. Si cerca l’incontro con la natura selvaggia e lontana, si accetta la fatica estranea alla civiltà dei motori, si ridefiniscono rapporti semplici e primordiali, nella solitudine di un bivacco o nell’alba di un ghiacciaio. La guida alpina, cittadina o valligiana che sia, è il moderno mediatore tra il mondo protetto ed esibito della pianura e quell’altro mondo, di cui aumenta ogni giorno il bisogno, dove ogni scelta ha un peso e ogni sforzo una ricompensa.


Quella lunga danza sulle dita di Paul Preuss, 110 anni fa (agosto 2021)
Sono passati centodieci anni, ma certe imprese non hanno tempo. Oppure lo anticipano. Quando lo stiriano Paul Preuss si avvicina al Campanile Basso di Brenta, il Basso è ancora il simbolo della guglia impossibile, anche se è stato scalato nel 1899 da Ampferer e Berger con un percorso geniale che di fatto ne beffa la verticalità. Lo scopo dei due austriaci era salire la guglia più famosa delle Dolomiti, non aprire una via diretta. Ma spesso nella storia dell’alpinismo bastano pochi anni per rivoltare sguardi e ambizioni, a patto che venga un giovane capace di puntare ancora più in alto. Uno come Paul Preuss, tra i più grandi arrampicatori di sempre.
Preuss è biondo e magro. Non è un ragazzo solitario, ama ballare, stare in compagnia e giocare a scacchi. Scala quasi sempre a capo scoperto, senza scordarsi di annodare al collo una cravatta di seta bianca, blu o viola. Nel 1911 arrampica slegato la parete est del Campanile Basso, realizzando il più audace flirt con la vertigine immaginabile da uno scalatore.
Il Basso, si dice in giro, è un prodigio della geologia. Quelli di Cembra lo chiamano il campanile delle Strie: le streghe. Per i cantori della montagna eroica è l’Urlo pietrificato. Immaginate una torre campanaria dalle forme così improbabili che un rocciatore, staccandosi da terra, si domanda se stia su. C’è un solo punto debole, lo Stradone Provinciale, che ha permesso appunto ai primi salitori di ingannare la vertigine con un itinerario a spirale. La via normale aggira il pauroso muro a piombo della parete est per agguantare la vetta dall’altra parte.
L’ossuto Paul, a braccia nude sotto le maniche rimboccate della camicia, mette i piedi sullo Stradone il 28 luglio 1911. La via normale se ne va a destra, ma lui detesta i patteggiamenti. Preuss adora l’estetica e odia il compromesso. E poi, come scrive l’amico-rivale Tita Piaz, ha imparato a «non far dipendere il pericolo dall’esposizione, ma semplicemente dalla difficoltà del passaggio. Fu soprattutto questa sua familiarità col vuoto che lo abilitò a capi d’opera d’arrampicate come la via sul Campanile Basso». Dunque lo stiriano biondo si rimbocca le maniche, stringe i lacci delle scarpe di corda, saluta i compagni e si appende senza assicurazione al muro di centodieci metri, danzando per due ore sulla punta delle dita. Dopo un viaggio nell’avvenire, adrenalina in vena, sole sulla schiena e bellezza negli occhi, in cima alla guglia ritrova gli amici, mangia qualcosa e sorride. È stato così semplice, dopo tutto.


Novità nella letteratura: le storie alte, finalmente (giugno 2021)
Le Alpi non sono più quelle del Novecento, è evidente. La crisi economica, la crisi climatica, e adesso la crisi pandemica, ne hanno ridisegnato i destini e le vocazioni. Si richiede il nostro intervento urgente per immaginare un nuovo “paesaggio” alpino. Bisogna rivisitare il concetto di natura caro ai romantici di ogni tempo, e anche correggere la nefasta idea di “valorizzazione” che ha prevalso nei decenni del consumo, perché l’arco alpino è la cintura verde dell’Europa, offre la più ricca densità di aree protette del continente e accoglie un’infinità di lingue, esperienze e saperi, segno dell’eccezionale biodiversità naturale e culturale. Non possiamo più affidarci agli sguardi del passato, se vogliamo che le Alpi si salvino dall’omologazione.
Non mi sembra che la politica abbia fatto grandi passi avanti dalla profetica Convenzione delle Alpi di trent’anni fa. Pensate: 1991! Fortunatamente di passi ne ha fatti la letteratura, che ha camminato spedita. Fino al 2016 i riferimenti narrativi della montagna erano rari, quasi eccezionali, praticamente affidati alle visioni di Dino Buzzati e alle vive pagine di Mario Rigoni Stern, mentre oggi le librerie abbondano di storie alte. La novità è che non sono più racconti di scalata e alpinismo, mirabolanti imprese di personaggi intrepidi e famosi, ma sono proprio storie di e in montagna, nel senso che parlano di valli e monti “normali” e soprattutto delle persone che li hanno incontrati, interpretandone il sentimento con un linguaggio contemporaneo. L’apripista è stato Paolo Cognetti: vincendo il Premio Strega ha sdoganato un territorio narrativo che sembrava roba da riserva indiana, destinato a specialisti e amatori. Chissà poi perché, dato che l’Italia è un paese di montagne. Prima di Cognetti c’era Mauro Corona, popolarissimo, che come Rigoni rappresentava (e rappresenta tuttora) la voce dei montanari. Oggi siamo in tanti e spaziamo nei generi, dalle storie di vita (per esempio “Il pastore di stambecchi” di Irene Borgna) al romanzo di formazione (lo stesso Cognetti con “Le otto montagne”), dalla montagna che cura (“La manutenzione dei sensi” di Franco Faggiani) alla montagna che castiga (“L’ora più fredda” di Paolo Paci), dalla montagna fantastica (“Le pietre” di Claudio Morandini) alla mia montagna gialla (le indagini di Nanni Settembrini). La vera novità e che, finalmente, si scriva di montagna da tutti i punti di vista, alla stregua della città, del mare, delle isole e di ogni ambiente degno di essere raccontato.


Christophe Profit, i 60 anni del ragazzo del grande exploit (aprile 2021)
Una data segna la storia dell’alpinismo moderno: il 30 giugno 1982. Christophe Profit, uno sconosciuto ventunenne in servizio alla Gendarmerie de Haute Montagne di Chamonix, scala di corsa il Petit Dru, la vertiginosa guglia che domina la Mer de Glace. Dopo colazione Christophe si avvia verso la mitica via di Hemming e Robbins, ottavo grado inferiore, a mezzogiorno è sotto la smisurata parete ovest, all’una del pomeriggio mette le mani sul granito e alle quattro e dieci è in cima al Dru. Arrampica in maniche corte e porta uno zainetto da passeggio sulla schiena, scarpette ai piedi e un sacchetto della magnesite appeso alla cintura. Nient’altro. A scanso di dubbi, un elicottero filma la scalata.
Noi giornalisti incassiamo l’exploit con una sorta di stordimento, perché non abbiamo ancora metabolizzato l’evoluzione sportiva. Per noi il Petit Dru di Chamonix è ancora il palcoscenico delle imprese epiche del dopoguerra, dall’assalto di Guido Magnone e compagni nel 1952 alla solitaria di Walter Bonatti nel 1955; per Profit è semplicemente un chilometro di granito verticale, che lui conosce al centimetro e sa di poter scalare senza corda né angoscia; ha provato i passaggi e ha almeno un grado in più nelle braccia.
Profit diventa famoso in tre ore e dieci minuti. Se ne occupano i giornali e le televisioni, diventa un caso internazionale. Lo storico dell’alpinismo Yves Ballu scrive: «Mio caro Christophe, con quel tuo aspetto da adolescente cresciuto troppo in fretta, i tuoi capelli saggiamente tagliati, la tua aria ingenua e i tuoi progetti insensati, come potevi sperare che ti prendessero sul serio?» I vecchi montanari decretano una morte certa per il ventenne sconsiderato, ma Profit li delude perché sa benissimo quello che fa. È un ragazzo serio che si prepara metodicamente, va a letto presto e riesce a controllare l’ansia anche sotto i riflettori. E poi fa il lavoro che gli piace. È un alpinista che ragiona da atleta, e lo dimostrerà con fantastici concatenamenti nella prima metà degli anni Ottanta.
Fin qui sarebbe una grande pagina da ricordare, quasi antica ormai, appunto una pagina di storia, perché il tempo è passato e quest’anno Profit compie sessant’anni. Ma la storia veramente eccezionale è che Christophe non è cambiato affatto: ha la stessa identica passione di allora e ogni giorno fa l’alpinista e la guida come fosse il primo giorno. Non si è montato la testa, non è diventato un divo ed è rimasto quel ragazzo genuino, educato e perdutamente innamorato della montagna e della scalata. Confortante, no?


Neve, non basta una vita per conoscerne l’immensità (febbraio 2021)
Alla fine del 2020, causa covid, si è spesso letta e sentita l’insulsa frase “Niente Natale sulla neve”, per dire che le piste restavano chiuse e gli sciatori dovevano rassegnarsi. Vorrei approfittare del centenario della nascita di Mario Rigoni Stern, l’indimenticato scrittore dell’altipiano, per ribadire quanto miope sia la visione dello sci di massa, che poi – paradossalmente – utilizza neve finta, da cannone. Per fortuna la neve non cade solo sulle piste, ma al contrario è sinonimo di spazi e variazioni straordinarie, tanto che non basta una vita per conoscerla a fondo. Neve di zucchero e neve di cemento, neve da fiaba e neve tragica. Un cristallo di neve è un miracolo e un mucchio di neve può diventare una calamità, eppure è sempre la stessa materia cangiante e misteriosa. «È pure piccola la Terra, ma è pure immenso un cristallo di neve» scriveva Rigoni Stern, che descriveva la neve come una cosa viva. In un famoso racconto dedicato alle stagioni, Rigoni ha catalogato ben otto tipi di neve tradotti nella lingua cimbra di Asiago:
Brüskalan è la prima neve dell’inverno, quella vera, dopo quella fiacca d’autunno: «Lo si sentiva nell’aria l’odore della prima neve, un odore pulito, leggero, più buono e grato di quello della nebbia». È la neve che avvolge ogni cosa di un velo bianco.
Sneea è la neve abbondante e leggera giù dal molino del cielo: le voci si affievoliscono, il mondo diventa ovattato. È neve da sci e slittini, da caldo del focolare e della stua.
Haapar è la neve di fine inverno, che si scioglie al sole e lascia intravedere il terreno sottostante. Le prime allodole cantano all’imminente primavera.
Haarnust è la neve vecchia che verso primavera, nelle ore calde, il sole ammorbidisce in superficie e che poi il freddo della notte indurisce. Neve per escursioni fuori pista.
Swalbalasneea è la neve della rondine di marzo, che è sempre puntuale nei secoli, soffice o bagnata, larga o simile a tormenta, volubile come il clima di marzo, neve che è l’ultima resistenza dell’inverno.
Kuksneea è la neve del cuculo, l’uccello che risveglia il bosco. Sui prati che incominciano a rinverdire e dove sono fioriti i crochi non si ferma molto perché ancora prima del sole la terra in amore la fa sciogliere.
Bàchtalasneea è la neve della quaglia, neve di maggio, non frequente, ma neppure rara: la temperatura cala bruscamente, una grossa nuvola si avvicina e per poche ore butta la neve sui tarassachi.
Kuasneea è la neve delle vacche, la rara neve d’estate, che fa scendere urlante dai pascoli il bestiame.


L’agonia dei ghiacciai e le nostre responsabilità (dicembre 2020)
Il Monte Bianco è un contenitore di ghiacciai dalle mutevoli forme e dimensioni. Sul lato ovest del massiccio, versante italiano, c’è un lungo fiume che si chiama Miage. Il fiume congelato non si vede quasi più, coperto da una corazza di detriti scuri, eppure scende ancora per almeno dieci chilometri infilandosi nella Val Veny e baciando le tende dei campeggiatori. I glaciologi dicono che «è il simbolo dei ghiacciai neri o debris covered glaciers italiani». In pratica il Miage è un relitto glaciale che si ostina a vivere, nonostante il riscaldamento globale.
La Carovana dei Ghiacciai è partita proprio dal Miage il 17 agosto della scorsa estate, precisamente dal cratere in cui un tempo si apriva il verde lago glaciale e dove oggi ci sono quasi solo sassi. In una giornata velata in cui anche il cielo poneva interrogativi, ci siamo trovati davanti un paziente coperto di pietrisco, specchio grigio della nostra epoca: da un lato lo stravolgimento climatico sta cambiando il volto delle montagne, dall’altro la potenza del ghiaccio resiste, come a dire «sono ancora qui», e ci pone di fronte alle responsabilità.
Dal 17 agosto al 4 settembre la Carovana di Legambiente, con il supporto del Comitato Glaciologico Italiano, ha monitorato lo stato di salute di dodici ghiacciai alpini: il Miage sul Monte Bianco, Indren, Bors, Locce Sud, Piode, Sesia-Vigne sul Monte Rosa, Sforzellina e Forni in Lombardia, Marmolada tra Veneto e Trentino, Fradusta sulle Pale di San Martino, Travignolo e Montasio in Friuli Venezia Giulia. Su tutti è stato registrato un regresso della fronte o una diminuzione del volume di ghiaccio. Addirittura in agonia il Fradusta, la cui superficie si è ridotta di oltre il 95% tra il 1888 e il 2014. Sui Forni, oltre all’aumento della copertura detritica, è stato riscontrato il fenomeno del black carbon, con tracce di microplastiche e di vari inquinanti che, come su tutti i ghiacciai del pianeta, è un lampante segnale dell’impatto antropico anche nelle regioni di alta quota, remote ma non incontaminate. Il ghiacciaio del Montasio è risultato il più “resiliente”: nonostante sia il più basso in quota, sopravvive grazie alla particolare collocazione perché le pareti dello Jôf di Montasio, ombreggiandolo, a loro modo lo proteggono.
I dati emersi dalla Carovana dei Ghiacciai confermano l’urgenza di mettere in campo misure e politiche improcrastinabili sul clima, per arrivare a emissioni di gas serra nette pari a zero nel 2040, tra vent’anni! – tremano i polsi, in coerenza con l’Accordo di Parigi.


Il film “Assassinio sull’Eiger” con Eastwood alpinista vero (ottobre 2020)
Amando i gialli e le montagne mi sono chiesto spesso come possano stare insieme. Il problema è che la montagna non regge i ritmi del poliziesco. In montagna, e soprattutto in alpinismo, i tempi sono lenti e dilatati; le rocce sono alte, faticose e poco sexy, almeno all’apparenza; in montagna vanno piano anche quelli che corrono, le azioni si concentrano in piccoli spazi e le emozioni si perdono dentro scenari immensi. La montagna non ha bisogno di elementi scenici particolari perché è una gran scena già di suo. Il problema semmai è farla entrare nel thriller o nel noir senza forzare, infatti la pistola di Clint Eastwood in “Assassinio sull’Eiger” alla fine non uccide nessuno. Ci pensa la montagna stessa a far fuori i sospetti, scaraventandoli giù dalla parete.
Eppure il film di Eastwood del 1975 è notevole. Non tanto per il risultato cinematografico, che difetta nella sceneggiatura e non fu gran che premiato dalla critica e dal pubblico, quanto per le riprese dal vivo, tutte in parete, sulla Nord dell’Eiger! Come si sa Eastwood ama le sfide e detesta i compromessi, così quando si è accostato all’alpinismo l’ha fatto da par suo. Dopo aver scelto il romanzo duro di Trevanian “Il castigo dell’Eiger”, ha imparato a scalare a Yosemite con Mike Hoover, ha messo insieme un cast di uomini di montagna e attori di cinema, li ha radunati in Svizzera, li ha vestiti da alpinisti e li ha incollati in parete usando la finestra del treno per saltare nel vuoto della Nordwand. C’è saltato anche lui, naturalmente, e il suo amico grassottello George Kennedy.
Adesso che ha novant’anni, esattamente il doppio di allora, Clint racconta tutto questo a Silvia Bizio in una bella intervista uscita su “Le montagne incantate”. Premette che lui non voleva montagne di cartapesta in stile hollywoodiano, perché il suo cinema è un’altra cosa, e ammette che è stato il suo film più visionario e rischioso. Ricorda la morte di David Knowles, il momento più nero della lavorazione, la crisi di coscienza, il dubbio e la decisione di andare avanti, e poi quelle settimane folli e lontane dal mondo degli umani, quando gli sembrava di muoversi nello spazio. Certo aveva con sé ottimi professionisti che curavano la sicurezza della troupe, portavano i carichi e li costringevano a rientrare appena salivano le temperature, ma Clint stesso si è caricato alcune scene rischiose come il famoso taglio della corda alla fine del film, una citazione del povero Toni Kurz, che per fortuna finisce decisamente meglio della storia vera.


Cinquant’anni fa il fermento della Rivista della montagna (agosto 2020)
In corrispondenza del Sessantotto vivaci fermenti culturali scuotono il mondo della montagna. A Milano nasce Rassegna Alpina, la rivista che discute apertamente di alpinismo e impegno sociale. Anche a Torino maturano i tempi per un periodico “laico” che prenda le distanze dagli organi istituzionali del CAI: la Rivista della Montagna. Il primo numero è del 1970, sono passati cinquant’anni; la Rivista è firmata da un pugno di amici appassionati, squattrinati e aperti: «Un gruppo di giovani alpinisti piemontesi – si legge sul primo editoriale – ha recentemente costituito un Centro di Documentazione Alpina per la raccolta e lo studio del materiale utile alla conoscenza di ogni aspetto della montagna. Tra le altre iniziative essi hanno pensato a una rivista, su cui pubblicare i risultati più interessanti delle proprie ricerche, dedicata in modo particolare agli alpinisti che intendono la pratica della montagna come una forma di arricchimento culturale». Accanto all’editoriale non c’è un duro arrampicatore armato di martello, ma tre portatrici di fieno sullo sfondo delle Levanne. Il direttore è Piero Dematteis e la Rivista annovera firme prestigiose come Paolo Gobetti, Marziano Di Maio, Gian Piero Motti, Alberto Rosso e Giorgio Daidola. La redazione è un vivacissimo laboratorio di idee. In un’epoca in cui le Alpi non sono ancora terra completamente divulgata, la Rivista sforna selezionati articoli sulla cultura e l’economia alpina ed esemplari monografie escursionistiche, alpinistiche e sci-alpinistiche. Un giusto insieme di spirito critico, approfondimento scientifico e intento divulgativo.
Quando arrivo nel 1976 trovo un gruppo coeso e motivato. Pagano così poco che solo la passione ci tiene insieme, ma per un ragazzo di diciotto anni è l’ambiente ideale per farsi le ossa e imparare il mestiere. Incontro quasi tutti i miti delle mie letture alpinistiche e mi sembra di toccare il cielo. Discutiamo molto. Impaginiamo ancora a mano, ritagliando le bozze con le forbici, e ogni numero è un origami che dà corpo ai sogni. Bellissimo. Poi in Francia nascono i primi mensili di montagna e nel nuovo decennio la Rivista diventa l’avamposto dei valori controcorrente, non più il giornale d’avanguardia. L’austera e raffinata grafica di Luciano Muzzarini fa i conti con le nuove fantastiche riviste illustrate come Airone, le nostre immagini sbiadiscono, il mondo ci cambia vorticosamente intorno. Con la fine degli anni settanta sfumano le ribellioni e l’alpinismo diventa sport; finisce il giornalismo di contestazione, e anche la Rivista dei tempi d’oro.


Attilio Tissi, l’alpinista che ha difeso la libertà (giugno 2020)
Attilio Tissi è quasi un naif, ma ha classe da vendere. Concentrato, deciso, velocissimo. Più istintuale che bello. Con Giovanni Andrich si mette in luce scalando la mitica via di Solleder sulla parete del Civetta, senza neanche bivaccare. L’avventura continua sugli strapiombi delle torri Trieste e Venezia, ma è sul Campanile di Brabante che Tissi supera il passaggio della storia: sesto grado superiore. Tra Belluno e Cortina non c’è parete che resista alla risoluta calma del trentenne di Vallada.
La bella favola s’incrina nel 1933, quando Attilio cade dalla motocicletta e batte la schiena. Gli diagnosticano una vita da invalido, lui stringe i denti, guarisce e torna ad arrampicare. È sempre un bravo scalatore, ma non è più quello di prima. Quando le scalate estreme lasciano il posto alla riflessione sociale, matura la fede antifascista: «Mi sento socialista» confida alla moglie Mariolina. Dopo l’occupazione tedesca del 1943 decide di unirsi alla resistenza: «Devo farlo, non posso non partecipare». Il CLN di Belluno s’incontra a casa Tissi sopra il Ponte Nuovo e Attilio non lavora quasi più; il lavoro gli serve da copertura. Per i partigiani agordini è il leader naturale, l’uomo che in montagna ha dimostrato di non avere paura. I tedeschi lo pedinano per tutta l’estate del 1944, finché in autunno lo arrestano, lo interrogano e lui si limita a rivelare cose risapute, però il trucco non funziona, gli aguzzini insistono, lo torturano e il dolore si fa insopportabile. Per non parlare tenta il suicidio con una lametta da barba, ma il sangue delle vene si coagula e Attilio supera l’emorragia e la disperazione; Tissi sopravvive alla tortura, mentre già gira voce che i nazisti abbiano deciso di giustiziare il «patriota». Infine, la notte di San Nicolò, i partigiani riescono a liberarlo.
Il 19 maggio 1945 presiede la prima riunione della Deputazione provinciale di Belluno, nella città liberata. Il mondo è stato rivoltato dal vento della libertà. Le montagne, il luogo del rifugio e della disobbedienza, brillano nel cielo primaverile. L’8 maggio 1948 l’alpinista partigiano siede sui banchi del Senato repubblicano, nelle fila dell’Unità socialista. Si prende cura delle malattie del lavoro, delle acque pubbliche e dei diritti della montagna. Il 22 agosto 1959 sale con Mariolina alla Torre di Lavaredo, un contrafforte delle Tre Cime. Durante la discesa mette i piedi su una fragile cornice di roccia che si sgretola e precipita con lui. Il gran cuore di Tissi smette di battere sulle spalle di Toni Hiebeler.


Nanga Parbat, 50 anni fa il dramma dei Messner (aprile 2020)
Il Nanga Parbat è la montagna dei tedeschi, questione di patria, anche se lo spirito autoritario delle spedizioni nazionali ha spesso cozzato con il talento anarchico, a cominciare dalla fantastica solitaria dell’austriaco Hermann Buhl nel 1953.
Confermando la regola, la spedizione Herligkoffer del 1970 alla parete Rupal è una macchina pesante; però include Reinhold e Günther Messner, i due fuoriclasse sudtirolesi. Il 26 giugno i fratelli Messner sono al quarto campo con Kuen, Scholz e Baur. Il meteo è incerto, e se il tempo peggiora Reinhold vuole tentare da solo. Fa un accordo con il campo base: lanceranno un razzo in serata; se sarà blu andranno su tutti, se sarà rosso lui proverà in stile alpino. E così è: razzo rosso, via libera all’uomo più veloce.
Reinhold si alza alle due, calza gli scarponi doppi, esce dalla tenda, fissa i ramponi e parte. Affronta la grande avventura solitaria, ma dopo qualche ora di scalata si accorge di essere seguito. Il fratello lo pedina, e ha salito il canalone Merkl in meno di quattro ore! Eccezionale. Allora Reinhold aspetta Günther, che lo raggiunge all’inizio della lunga traversata verso la cresta del Nanga. Ormai è pomeriggio e c’è molta neve fresca. Un passo, un respiro, una sosta. Fatica immensa. Si alternano al comando e finalmente alle 17 sono in cima. La parete Rupal sprofonda nell’ombra, mentre a ovest il versante Diamir è più dolce, offre speranze. «Scendiamo di là» propone il piccolo Messner, «di là è più facile». «Non si può, Günther, lo sai che è una follia». Quando fa buio allestiscono un bivacco spartano. Hanno solo un telo di alluminio in cui avvolgersi e sono ancora terribilmente alti sulla cresta.
Nella notte Günther ha le prime allucinazioni:
«Passami la coperta, Reinhold».
«Ma quale coperta, sei forse impazzito?»
Al mattino i fratelli di Funes sono davvero soli e disperati. Nessuno li può aiutare e resta un’unica via di fuga, la più assurda: tentare la discesa sul Diamir, il versante sconosciuto e immenso, la parete di seracchi dove si avventurò il pioniere Mummery, scomparendo per sempre. Eppure Reinhold riesce miracolosamente a trovare la strada, ma quando hanno superato quasi tutte le barriere di ghiaccio e sono ormai vicini ai pascoli e alla salvezza, Günther è travolto da una valanga e scompare. Reinhold lo cerca per ore, scava a mani nude, lo chiama, lo invoca, e infine deve lasciarlo sotto la neve per trascinarsi disperatamente verso l’erba, l’acqua e la vita. Lo salvano i pastori di Diamir.


Cesare Maestri, sole e luna nella storia dell’alpinismo (febbraio 2020)
Cesare Maestri ha da poco compiuto novant’anni e la via del Compressore al Cerro Torre ne compie cinquanta. Non si può negare che Maestri sia un pezzo di storia dell’alpinismo novecentesco, anche se il suo nome e le sue imprese patagoniche hanno generato in egual misura sentimenti di critica e ammirazione. Luci e ombre senza fine. È proprio questo il punto: Maestri, da consumato attore e geniale alpinista qual è, rappresenta il sole e la luna. Maestri ha giocato sulla dicotomia e sui contrasti, un po’ per il gusto di giocare e un po’ perché è fatto così, è il suo carattere, e probabilmente se non fa così non si sente se stesso. C’è chi per tutta vita difende senza cedimenti le stesse scelte, come se il mondo non gli cambiasse intorno, e chi si diverte a sbriciolare le granitiche convinzioni sue e degli altri, chi odia i dogmi e detesta i punti fermi. Maestri è così.
Da questo punto di vista lui incarna perfettamente la storia dell’alpinismo, che è tutt’altro che lineare e definitiva. L’evoluzione storica è fatta di trasgressioni ed eccessi di tecnologia cui seguono sempre denunce di tradimento e ritorni alla “purezza” originaria. La storia verticale è una linea sinusoidale. Quando il profilo della curva sale troppo in alto, arriva un idealista bollato di conservatorismo che lo riporta in basso in modo che l’avventura possa ricominciare. È una commedia non scritta, in cui due attori recitano la parte. Nel caso di Cesare è bastato un solo attore per le due parti. L’artificialista Maestri trasgrediva con le vie a goccia d’acqua e il Maestri purista rimetteva le cose a posto.
«Siete dei trogloditi!» gridano gli “innovatori” dell’arrampicata.
«Solo togliendo avrete di più!», replicano i “conservatori”. E il gioco continua.
L’alpinismo è ancora vivo perché gli uni e gli altri hanno avuto modo di fare, sbagliare e pentirsi; ma anche perché gli idealisti sono stati ascoltati. Non ci sarebbe stato progresso senza i loro stop, gli sdegnati rifiuti, le rinunce, gli alleggerimenti e i limiti invocati nel nome del mistero. Senza utopia il povero drago sarebbe morto e sepolto.
Il fatto è che la crescita tecnologica tende a cannibalizzare la ragion d’essere dell’alpinismo, esattamente come succede all’economia illimitata del capitalismo avanzato. Ma a differenza della città globale, lanciata senza freni verso il punto di non ritorno, la piccola comunità alpinistica ha saputo finora evolvere conservando certi riti originari e usandoli come antidoto. Il giorno che questa dialettica cederà alla tecnologia l’alpinismo sarà finito.


I concertoni di Jovanotti e l’ambientalismo oggi (dicembre 2019)
Siamo alla fine dell’anno ed è giusto guardarsi indietro. Trarre qualche considerazione. Tra gli eventi più discussi del 2019 c’è stata la tournée estiva di Lorenzo Jovanotti, che ha riempito spiagge, spazi dismessi urbani e spazi alpini scatenando infinite proteste. In particolare gli è stato contestato lo spettacolo di fine agosto a Plan de Corones, perché, s’è detto, la montagna non tollera le manifestazioni di massa. Concordo con la critica, a patto che venga estesa alle infrastrutture permanenti dello sci, ai condomini, ai cannoni da neve, alle strade traboccanti di motori, ai parcheggi d’alta quota, eccetera. Altrimenti il ragionamento non tiene. Invece non concordo con chi dice che se fossero canti di montagna il concertone potrebbe anche andare, ma la musica di Jovanotti non è musica di montagna. Questo non ha senso perché la musica di montagna non esiste. Esistono solo la buona e la cattiva musica, e lo stesso vale per la letteratura, l’arte e tutto il resto. Altrimenti la montagna diventa un ghetto.
Dopo le polemiche mosse alla sua tournée, Jovanotti ha scritto parole durissime sul mondo ambientalista: «Non mi sarei mai aspettato che il mondo dell’associazionismo fosse così pieno di veleni, divisioni, inimicizie, improvvisazione, cialtroneria, sgambetti tra associazioni, protagonismo narcisista, tentativi di mettersi in evidenza gettando discredito su tutto e su tutti… Il mondo dell’ambientalismo è più inquinato della scarico della fogna di Nuova Delhi!» Un po’ Jovanotti ha ragione e un po’ fa di tutta l’erba un fascio, ma forse non è questo il punto. Mi chiedo: ha ancora senso parlare di ambientalismo dopo la sconcertante fotografia del riscaldamento globale che ogni anno, sempre più amaramente, ci viene scattata dalla comunità scientifica internazionale? C’è una ragione per cui essere preoccupati è di sinistra ed essere negazionisti è di destra? E poi l’ultima domanda, la più importante: quale specie vivente è così stupida da ridurre a guerra ideologica le scelte ultime per la sopravvivenza?
No, credo non abbia più senso parlare di ambientalismo, perché qui si tratta di essere umani o di non essere. Invece ha molto senso, un senso sempre più urgente e improrogabile, distinguere tra chi crede nel cambiamento ed è disposto a rinunciare a qualcosa e fare qualcos’altro, mutando sguardo e stile di vita, e chi invece si lava la bocca di nuove parole e nuove mode, esattamente come fece nel Sessantotto con la rivoluzione (degli altri) e negli anni Ottanta con la Milano da bere.


Il centenario di Nuto Revelli. La lezione? Ripartire dalla terra (ottobre 2019)
Cent’anni fa nasceva Nuto Revelli, che ha attraversato due guerre del Novecento: l’epopea del Don e la resistenza delle Alpi. Le ha raccontate in due libri importanti: “La guerra dei poveri” e “Il mondo dei vinti”.
Nuto ha combattuto anche la vera resistenza, quella dei partigiani, ma forse era più legato all’altra, l’invisibile e perdente. «L’assalto del turismo alla società contadina si è rivelato una vera scelta di guerra» mi confidò nel 1993 a casa sua, a Cuneo, mentre la città sonnecchiava in una pigra mattina d’estate. «Una guerra» disse Nuto, e non scherzava affatto. Revelli era tappato nel suo studio tra carte, libri, documenti, magnetofono e nastri registrati. Una montagna di nastri. Sapevamo che le sue interviste agli ultimi contadini riposavano in centinaia di ore di registrazione, con molte pause in mezzo. In tanti anni aveva incontrato gli ultimi della civiltà alpina, uno dopo l’altro, conversando in piemontese davanti a un bicchiere. O tacendo. Spesso gli interlocutori erano gli stessi uomini che avevano fatto la guerra e poi erano tornati a presidiare i campi negli anni del boom, guerreggiando contro un nemico che sorrideva e non si mostrava: il consumismo. Cresceva il mondo delle pianure e moriva quello delle montagne. I turisti salivano a sciare, i montanari scappavano in pianura. Era un’emigrazione biblica, ma i giornali parlavano solo della salita degli sciatori perché il turismo era il futuro e i contadini il passato. I “vinti”, appunto. Il mondo dei vinti è molto più di un libro: è la prova di quella che Pasolini considerava la devastazione antropologica del Novecento, cioè il traumatico, troppo rapido, infinitamente sottovalutato salto dalla società del pane a quella dello spreco.
Oggi ce ne stiamo accorgendo, di nuovo all’improvviso, di nuovo troppo in fretta. Il riscaldamento climatico ci obbliga a riconsiderare urgentemente gli errori del passato per progettare il futuro. Storditi da un modernismo accecante, abbiamo archiviato senza amore il rapporto della terra, l’abbiamo cancellato in un attimo, vergognandoci di essere figli della terra e affidandoci a scorciatoie pericolose come l’industria dello sci e del turismo di massa. Abbiamo pensato che la neve, il denaro, il consumo, lo spreco – e noi con loro – fossero eterni. Era un’illusione, naturalmente, e proprio dalla terra dovremo ripartire per coltivare l’unico futuro che abbiamo a disposizione: agricoltura pulita, turismo dolce e cura dei nostri luoghi. Di nascita e di adozione.


A proposito delle code per salire sull’Everest (agosto 2019)
Chi non è stato colpito dalle fotografie dell’Everest girate in rete nel mese di maggio? Code da supermercato all’Hillary Step, triple file di alpinisti sulle via normale nepalese, senso unico alternato per il tetto del mondo. Sulla mia pagina ho osservato che «quelle immagini raccontano il conformismo dell’estremo» e che «in nome del narcisismo individuale abbiamo inventato l’avventura di massa». Ho anche azzardato un’opinione: «Se avventura è lasciare le certezze acquisite per esplorare regioni e idee sconosciute, non serve andare in cima al mondo. Infinito è lo sguardo, non la terra da conquistare». Come capita sempre sui social ho ricevuto molti commenti favorevoli e un certo numero di stroncature, come se l’Everest fosse un nuovo Tav. Ormai funziona così: su ogni questione si creano due partiti e s’interrompe il dialogo. Invece a me il dialogo piace e quindi cerco di ascoltare le opinioni altrui, a patto che siano espresse con rispetto. La critica più interessante diceva che gli assembramenti dell’Everest si vedono anche sul Cervino e sul Monte Bianco, dove le guide portano in vetta grappoli di persone usando rifugi high tech e corde fisse: quindi è moralistico criticare le spedizioni commerciali. Ho risposto così: «Evidentemente chi fa la coda sul Cervino o sul Monte Bianco non fa un’esperienza particolarmente intima di alpinismo, ma non mette a repentaglio la sua vita e quella degli altri, e non crea un significativo impatto ambientale. Sull’Everest è tutto estremo, dall’impatto al rischio. È estrema soprattutto l’illusione della sicurezza». V’immaginate che cosa succederebbe se una piccola tempesta sfuggisse alle previsione meteorologiche e colpisse la processione di alpinisti incolonnati sulla cresta? Sarebbe una catastrofe.
Se però guardiamo la faccenda sotto il mero profilo culturale è vero che sull’Everest sta succedendo quello che è già successo sulle Alpi. Prima c’era il mistero, poi è venuta la conquista, infine l’addomesticamento della montagna, perché se ogni pretendente ha il diritto di provarci è inevitabile che il Cervino e l’Everest diventino come Venezia e Firenze. Rispondo con tre osservazioni, sperando di non essere frainteso. La prima riguarda il concetto di limite: se tutti volessimo fare tutto il fattibile questo mondo sarebbe già finito, cancellato, perduto. La seconda riguarda Venezia, dove i turisti cercano la bellezza e non il primato. La terza riguarda la felicità: siamo proprio sicuri che si compri al mercato delle emozioni?


Un posto speciale nel disincanto globale (giugno 2019)
I progettisti non concepiscono più il rifugio come un posto in cui rifugiarsi dalla solitudine, ma come luogo di passaggio e d’incontro. Si guarda sempre più alla valle e sempre meno alla montagna. Nei giorni di bel tempo i gitanti affollano i bar, pance lunghe si contendono le polente, trekkers, runners e climbers siedono sudati davanti a una lattina, ma in pochi alla fine affrontano la notte. È un moto ondulatorio: al mattino la città sale incontro al rifugio, alla sera il rifugio scende verso la città. La maggior parte dei visitatori mangia, guarda il panorama, beve un caffè, ruba un selfie e torna giù prima che faccia buio.
Eppure resta la magia. Nel tempo della secolarizzazione alpina e alpinistica il rifugio è ancora un posto speciale, simbolo del turismo leggero e rispettoso, sopravvissuto miracolosamente al disincanto globale. Sarà perché di solito ci si sale a piedi mischiando il sudore alla curiosità, per guadagnarsi un piatto di pasta o una fetta di crostata. Mai così buone. Sarà per quel nome arcaico – rifugio o capanna – che, non si sa come e non si capisce perché, funziona anche per i siluri e le astronavi contemporanee. Sarà perché il rifugio ci aspetta quasi sempre nei luoghi alti e panoramici, i più lontani dall’inquinamento luminoso della pianura e i più vicini alla luce delle stelle. Quindi al mistero. Basta guardare i gestori dei rifugi, che non sono più i discendenti di generazioni di guardiani d’alta quota, quasi rifugisti per forza, ma sono invece rifugisti per scelta, gente che ha deciso di lasciare le comodità della città per respirare altra aria e fare differenti incontri. Anche nel rifugio più moderno e cablato le ore scorrono lentamente, l’isolamento avvolge i pensieri e la montagna regola il tempo con i suoi slanci e i suoi capricci. Non c’è luogo più indicato su questa terra per fare l’esperienza della natura, perché il rifugio c’è immerso.
In fondo basta poco, ma è tantissimo. Un’ora di cammino è sufficiente per rompere la dipendenza dalle macchine e dai motori, e gridarci che siamo natura anche noi. Solo che non ce ne ricordiamo più, fingiamo di non sapere, crediamo di condurre e dominare il mondo, e invece non facciamo altro che disfarlo. Al contrario l’ospite del rifugio scopre di essere piccolo, piccolissimo, perché dentro le mura della capanna si sente al sicuro ma appena fuori è perso. Tutte le altre specie animali e vegetali hanno trovato un posto sulla montagna; soltanto l’uomo, la specie più vulnerabile, ha bisogno di una casa.


E Bubu liberò la Couzy nel giorno dell’eclissi (aprile 2019)
Le Tre Cime di Lavaredo sono un posto speciale. A sud la vertigine lascia qualche spiraglio, ma a nord non c’è scampo. Chi prova a cercare le pareti nord delle Tre Cime su una mappa geografica non trova niente, perché le tre nord non sono rappresentabili dalla geografia. Gli strapiombi settentrionali si piegano ad angolo acuto rientrando dentro la montagna, quindi sono topograficamente inesistenti.
Fino agli anni trenta del Novecento scalare le tre nord era un miraggio, a meno di non avere le ali. La sfida si è fatta concreta quando la tecnica dei chiodi e delle staffe ha reso possibile il superamento degli strapiombi e Comici sulla Cima Grande, prima, poi Cassin sulla Cima Ovest, hanno dimostrato che con molti ferri e moltissimo coraggio si poteva salire. Nei decenni successivi sono stati scalati tutti gli strapiombi delle Lavaredo, facendone la più grande palestra dell’arrampicata artificiale.
A fine Novecento è arrivata la generazione dell’arrampicata sportiva e vent’anni fa, nel 1999, lo scalatore triestino Mauro “Bubu” Bole ha messo gli occhi sulla nord di Cima Ovest. Per lungo tempo ha corteggiato la via Jean Couzy, la spaventosa scala rovesciata salita da Desmaison e Mazeaud nel 1959 con tenacia senza pari e largo uso di mezzi artificiali. L’itinerario supera i tetti che aggettano a sinistra del muro, dove le frane sono state ancora più devastanti che in centro parete. «La Couzy era una via magica – scrive Bole –, un sogno che diventava incubo e di cui non potevo più fare a meno…»
In tre anni di prove su e giù per gli strapiombi, familiarizza con l’itinerario e memorizza i passaggi. Sui tiri di corda non aggiunge chiodi a espansione per rispetto verso i primi salitori e per non deturpare una pietra miliare dell’alpinismo dolomitico, anche se «una caduta avrebbe potuto schiodare tutto». L’11 agosto 1999 parte con Manuel Bosdachin per il tentativo decisivo, che significa salire tutta la via, dai ghiaioni alla punta, assicurandosi con corda e moschettoni senza appendersi mai. Sale in libera fino al grande tetto finale: un soffitto pazzesco. Il primo tentativo fallisce, poi Bubu cerca dentro di sé le ultime riserve di energia e parte con gli occhi fuori dalle orbite, urlando per scaricare la tensione. Il cielo si fa nero: «A metà parete sudo freddo – ricorda –. Il cielo è scuro. “No, un temporale no! Per favore non un’altra volta!” Manuel mi spiegherà la situazione una volta arrivato in sosta: “Bubu ti sei dimenticato l’eclissi di sole!”».
Proprio il giorno dell’eclissi Bole libera la Couzy: decimo grado.


La running-dipendenza corre come una pandemia (febbraio 2019)
Alessandro Gogna ha scritto che «probabilmente chi corre in montagna non si accorge neppure di essere criticato: perché chi la pensa in maniera contraria al trail running fa parte di associazioni o ambienti molto tradizionali, ben distanti da un nuovo mondo sportivo che, appunto, corre e non è interessato ai commenti di chi sta fermo». Molti bollano la corsa come un gesto superficiale. Nelle mie serate pubbliche, quando sfuggo al quesito «dove sta andando l’alpinismo?», sono già pronto alla domanda di riserva: «Che cosa pensi delle gare di corsa in montagna?» So che cosa vorrebbero sentirsi dire: che la corsa è un atto volgare, che chi corre non ascolta la natura, che «quelli passano senza vedere niente».
Credo siano risposte inadeguate a spiegare la complessità del fenomeno e conosco corridori sensibili che sbriciolano i luoghi comuni. L’unica risposta inequivocabile è che il mondo si è messo a correre, e non è un’immagine figurata. La gente corre con i muscoli delle gambe e il sudore della fronte, come facevano i nostri progenitori per inseguire i nemici e catturare le prede, ma senza spade, senza frecce e senza motivo, solo per il gusto. Corrono tutti, come fossero inseguiti. Si corre in città e in natura, sui fiumi e nei deserti, in riva al mare e a quattromila metri. La corsa è la nuova religione della società occidentale, declinata in svariate forme e molteplici dipendenze. «Corrono davvero tutti – conferma Gaia De Pascale, studiosa di antropologia –. La running-dipendenza si espande con la forza di una pandemia, lasciando quelli che non ne sono contagiati alla finestra a guardare, un po’ divertiti e un po’ preoccupati».
La corsa è una tra le droghe più salutari e a buon mercato, ma dà assuefazione come ogni stupefacente. Così si spiega la fedeltà agli allenamenti per milioni di persone che si alzano all’alba per i dieci chilometri quotidiani e poi siedono otto ore davanti al computer, desiderando di ricominciare. La voglia di correre si giustifica nel dar voce a un corpo segregato e umiliato. Nel paradossale bisogno di sudare in un mondo che ha sconfitto la fatica. «Negli ultimi venticinque anni – osserva il camminatore Franco Michieli – si è celebrato il più clamoroso distacco della storia dal corpo e dalla realtà, sostituiti dalla virtualità della rete che tiene catturata almeno mezza umanità, e presto tutta, cui si accede solo con un dito… Presto si toglierà anche quel dito. Entro pochi anni, lo si dà per certo, l’uomo smetterà anche di guidare le proprie macchine…».


Cassin e Gervasutti. Eterna gara in quota (dicembre 2018)
Nella primavera del 1938 Gabriele Boccalatte e Giusto Gervasutti si confrontano con i lecchesi sulle pareti delle Grigne. «Al Nibbio – annota Boccalatte –, Cassin fa il primo passaggio della via Comici. Gervasutti lo sbaglia… ma alla fine saliva più speditamente».
Ad agosto i torinesi si sentono pronti per la grande sfida del momento, lo sperone Walker alle Grandes Jorasses, ma quando Gervasutti (che è friulano, ma abita a Torino da molto tempo) arriva a Entrèves trova due pessime notizie: Cassin è stato visto salire al Colle del Gigante con una cartolina delle Jorasses in mano e Boccalatte è andato da un’altra parte.
Si sente fregato per la seconda volta. Le solite Jorasses, la vecchia gara, di nuovo in ritardo, sempre per colpa sua! Corre a Courmayeur a cercare Arturo Ottoz, la più forte guida del Monte Bianco, si accordano e nel tardo pomeriggio si mettono in cammino. Arrivano al rifugio Torino alle undici di sera, dormono sulle panche, ripartono la mattina per la capanna Leschaux. Sul ghiacciaio trovano il giornalista Guido Tonella, ed è la conferma del disastro: Cassin è sulla Walker con Esposito e Tizzoni. Gervasutti e Ottoz non si fermano. Salgono verso il muro delle Grandes Jorasses e intravedono la cordata dei lecchesi alta in parete. Chiamano, li inseguono, rinunciano. Cavallerescamente Giusto scrive che «il dispetto per la perdita di questa salita, che costituisce la più grande impresa alpinistica di tutte le montagne d’Europa, è attenuato dal fatto che la vittoria sia stata conseguita da Riccardo Cassin…».
Gervasutti si rifarà nell’estate del 1942, in tempo di guerra, scalando con Giuseppe Gagliardone la parete est delle Grandes Jorasses, meno famosa della nord ma ancora più difficile, isolata, spaventosa. Sulla est il Fortissimo anticiperà di quindici anni la storia dell’alpinismo, superando le difficoltà in giornata. E dire che 1974 agli inglesi Dick Renshaw e Joe Tasker, tra i più grandi arrampicatori al mondo, serviranno tre giorni per la terza ascensione! A vederli bardati di magie come i climber della nuova generazione, oggi sembrano perfettamente intonati ai tagli yosemitici del muro delle Jorasses, legittimi interpreti di un’epoca rivoluzionaria, ma Dick e Joe stanno solo imitando due uomini del primo Novecento, morti prima della loro nascita, che sono passati su quegli strapiombi da fantascienza con giacche di tela e corde di canapa, senza staffe, inbracature, duvet, moschettoni di alluminio e chiodi americani, portando al posto del casco un cappellaccio da sole.

Libri di montagna è boom. Le terre alte si fanno largo (ottobre 2018)
Il 21 giugno scorso Gian Paolo Serino ha scritto su “Il Giornale” un lungo pezzo dedicato alla letteratura di montagna. L’articolo s’intitolava La banalità ad alta quota e cominciava così:
«Il fenomeno erosivo di cui vogliamo parlare è quello dei romanzi ambientati in montagna. Dopo la vittoria del Premio Strega 2017 delle Otto montagne di Paolo Cognetti saranno usciti almeno 200 libri ambientati tra Dolomiti, Sud Tirolo, Valle d’Aosta, Val di Susa, Val Venosta. Una vera valanga di libri che non sempre volano ad alta quota…»
Il concetto è chiaro, anche se Serino dimostra di non aver letto la metà dei libri di cui scrive, tra cui il mio Verso un nuovo mattino. Però è vero che oggi si scrive di montagna come non mai e, ovviamente, ai libri buoni si affiancano libri mediocri. Usando altre parole si potrebbe dire che la montagna è “di moda”, nel senso che la letteratura alpina è uscita dalla nicchia in cui si era auto reclusa e prova a parlare a tutti, utilizzando spesso chiavi popolari che si ispirano ai sentimenti familiari, alla natura curatrice, al silenzio, all’ascolto e alla contemplazione. In molti testi contemporanei si propone una new age delle terre alte che non si contrappone al consumismo urbano, ma lo affianca con una sorta di neo umanesimo alpino. Non c’è quasi mai un’esplicita denuncia politica e sociale, ma c’è quasi sempre la nobilitazione di sentimenti e modi di vita alternativi alla città.
Fa pensare che mentre l’autore più affermato, il valligiano Mauro Corona, sforna storie di montagne dure e violente, altri autori cittadini vadano dipingendo monti incantati e salvifici, e che entrambi trovino riscontro di pubblico. Vuol proprio dire che la montagna gode di un rinnovato trasporto, quindi piace, convince e vende pur mostrando facce diverse o addirittura contraddittorie. È probabilmente vero che la montagna fa tendenza, e quando un argomento tira, il pubblico non va tanto per il sottile.
Comunque è un bene che finalmente se ne scriva, vuol dire che le storie delle alte terre parlano al nostro tempo confuso. Significa che scrivere di montagna non è più un mestiere per pochi, e che almeno per imitazione il cantiere si va allargando. In un paese in cui l’oggetto della scrittura sembrava confinato a pianure e città, è positivo che si scoprano nuovi orizzonti. Che poi si possa migliorare in qualità è ovvio, ma dipende solo dagli scrittori. Affinando le tecniche, scremando i luoghi comuni, rinnovando il linguaggio arriveranno forse ottimi libri. Siamo solo all’inizio.


I ghiacciai ci parlano di persone e sentimenti (agosto 2018)
Ancora non sappiamo se le copiose nevicate di quest’inverno resisteranno al caldo dell’estate portando un po’ di “ciccia” ai magri ghiacciai delle Alpi. Però sappiamo che i ghiacciai ci parlano delle epoche passate, perché immagazzinano i pollini e altri segnali del tempo, e ci parlano anche delle storie delle persone perché congelano i corpi e i sentimenti, restituendoli quando piace a loro.
Nel 1982 il regista viennese Fred Zinnemann, reso celebre da film hollywoodiani come “Mezzogiorno di fuoco”, ma intensamente legato alle radici austriache, gira sul Bernina svizzero Five Days One Summer (“Cinque giorni un’estate”). Il film interpretato da Sean Connery, Betsy Brantley e Lambert Wilson resta ancora oggi l’incontro più fortunato tra la montagna e il grande cinema, anche se si rivela un fiasco nelle sale americane e in Europa non va oltre un discreto successo. Zinnemann ricostruisce il mondo alpino della gioventù con una speciale cura dei dettagli e delle atmosfere (l’albergo ai piedi dei ghiacciai del Bernina, la vita nel villaggio contadino, i tempi rarefatti della notte in rifugio, l’attesa e il brivido dell’ascensione). In due ore di pellicola riesce a sintetizzare la complessa simbologia romantica della montagna e il delicato rapporto tra cultura alpina e forestiera. Fin dal primo incontro tra il valligiano e i due cittadini si intuisce che l’innocenza della guida alpina, come un grimaldello, è destinata a scardinare il fragile equilibrio della coppia borghese e a scivolare in tragedia.
La scena più memorabile del film si lega a una leggenda ancora viva nella memoria della gente dell’Engadina e narra di un corpo perfettamente conservato dal ghiaccio, un uomo eternamente giovane nella morte. Quarant’anni prima, alla vigilia delle nozze, un montanaro del villaggio si era avventurato a caccia di camosci sul ghiacciaio ed era scomparso con il suo segreto. Zinnemann, con un colpo di teatro degno del grande maestro, inscena l’incontro ai piedi del ghiacciaio tra la fidanzata del cacciatore, ormai vecchia e curva, e il promesso sposo eternato dal gelo. L’atmosfera è sottolineata dallo scioglimento del ghiaccio in rivoli sporchi e dal mesto corteo dei soccorritori, con la barella di fortuna, sotto la nebbia incolore di fine stagione. La vecchia montanara si avvicina al suo uomo giovane ma inerte con il sorriso di chi ha compreso il mistero del tempo, che forse consiste solo nel non opporsi alla vita.


Oggi montanari non si nasce ma si diventa (consapevolmente) (giugno 2018)
Si parla ancora di gente di montagna e gente di città, come se il mondo globalizzato potesse permettersi queste separazioni. Signori, i tempi sono cambiati! La storia del montanaro duro e puro è una favola che ci portiamo appresso da Rousseau, che vedeva nelle popolazioni alpine virtù ormai assenti tra i cittadini corrotti. Era il mito del “buon selvaggio”, che nel 700 suscitava in Albrecht von Haller queste espressioni:
«Nelle loro vene scorre sangue sano, non viziato
Da veleni ereditari, né amareggiato dall’ansia,
Corrotto da vini stranieri, infetto da sifilide…»
La presunta virtù dei valligiani trovava fondamento nella convinzione che montanari si nasca per una sorta di predestinazione naturale, e che solo il montanaro possa generare un proprio simile. Era tutto falso, perché oggi sappiamo che la gente ha sempre dovuto imparare a vivere sulle montagne, adattandosi all’ambiente alpino. I Walser per esempio, fiero popolo montanaro e raffinato interprete della civiltà alpina, erano coloni provenienti dalle pianure del nord. Alla ricerca di nuove terre, si adattarono a vivere prima tra i monti del Vallese e poi nelle valli a sud del Monte Rosa. Nemmeno i mitici Walser nacquero “imparati”.
Questo ci aiuta a riflettere sugli inevitabili contatti tra le popolazioni alpine e la gente di fuori che, in epoca di globalizzazione diffusa, cambiano la vita delle Alpi e i riferimenti tradizionali degli abitanti. Già sappiamo che i pastori marocchini si adattano meglio dei nostri alla dura stagione sugli alpeggi, così come i ricchi contadini sudtirolesi spesso faticano a trovare una moglie del posto ancora disposta a dividere la solitudine del maso, mentre le donne dell’Est Europa sono più aperte alla proposta. Oggi montanari non si nasce ma si diventa, perché si sceglie liberamente e consapevolmente di sperimentare uno stile di vita forse più duro e di certo più scomodo di quello urbano, a patto che la qualità dell’esperienza ripaghi dei sacrifici e delle privazioni.
La differenza epocale è ormai un’altra: tra i montanari per scelta e quelli per forza. Mi riferisco ai rifugiati che vengono confinati nelle valli alpine e che a volte, tra mille difficoltà, trovano modo di integrarsi nelle comunità locali. Penso ai migranti che tentano di attraversare la frontiera per fuggire in Svizzera, Austria e Francia, diventando montanari per un giorno e rischiando di rimanerci per sempre. Congelati.


Cinquant’anni fa (o quasi) il Sessantotto degli alpinisti (aprile 2018)
Cinquant’anni fa era il 1968, l’anno che ha scombinato il mondo. Il Sessantotto dell’alpinismo è arrivato in ritardo, intorno al 1972, quando alcuni giovani torinesi ispirati da Gian Piero Motti hanno immaginato una nuova arrampicata sulle pareti di gneiss della Valle dell’Orco. È stato un duello cavalleresco tra generazioni, all’insaputa dell’avversario. Una primavera breve, intensa e non del tutto consapevole. La lotta di liberazione dall’alpinismo eroico è durata tre anni, dal 1972 al 1975, consumandosi tra itinerari fantastici e utopie. Nei nomi delle vie consegnate alla leggenda predominano i pellerossa (Il lungo cammino dei Comanches, il Diedro Nanchez), con derive psichedeliche (la via Cannabis, gli Strapiombi delle visioni) e socio-politiche (la via della Rivoluzione). Il primo itinerario si chiama inequivocabilmente via dei Tempi moderni, sul muro più bello della valle, che i piemontesi hanno battezzato ironicamente Caporal perché è la miniatura del Capitan della California.
Il Nuovo Mattino torinese ha una sponda tra le montagne valtellinesi, nell’incantevole Val di Mello, laterale della Val Masino, su un granito più gentile dello gneiss dell’Orco e su pareti ancora più alte e selvagge, con placche senza respiro. All’ombra del Pizzo Badile, esplorando salti senza cima e precipizi senza nome, i ribelli lombardi scoprono vie di pietra come Il risveglio di Kundalini, Alba del nirvana e Nuova dimensione.
Dopo l’infelice battuta volata a un convegno di alpinisti, i ragazzi di Sondrio si fanno chiamare «Sassisti» pavoneggiandosi del termine dispregiativo.
«Siete solo dei Sassisti!», li accusano quelli con la patacca.
«Lo siamo e ce ne vantiamo. Per questo scaliamo così bene.»
Poi ci sono i milanesi e il carismatico Ivan Guerini, che ha insegnato ai valtellinesi che si può scalare un masso per il piacere di giocare, senza fini di allenamento, e che scordandosi la prestazione ci si diverte di più e si arrampica molto meglio.
Con il rinascimento del Nuovo Mattino la vetta sparisce: non c’è più nessun fine, e nemmeno una fine dell’ascensione. Per terminare l’arrampicata bastano l’allentarsi del vuoto e l’esaurimento del precipizio. «La via porta all’altopiano», insegna Gian Piero Motti, e non è un modo di dire ma un modo di pensare. Significa che la cima è superflua. Oggi, per chi scala in falesia, è una cosa ovvia come la luce del sole; tanti anni fa è stata una rivoluzione.


Mountain Wilderness: 30 anni non è cambiato quasi niente (febbraio 2018)
Il divorzio tra gli ambientalisti e il Club Alpino Italiano si consuma a Biella nell’autunno del 1987, in un teatro bordato di rosso e in un clima risorgimentale. Gli alpinisti fanno autocritica, ammettendo i propri errori. Le tesi di Biella riconoscono che «la comunità degli alpinisti ha precise responsabilità nella degradazione della wilderness montana…» Nel mirino della protesta ci sono tutte le scorciatoie che banalizzano l’accesso all’alta montagna: seggiovie, funivie, elicotteri, motoslitte, autostrade, strade, mezzi fuoristrada. Prima che internet abbatta ogni limite per sempre, ci s’interroga perfino sull’“inquinamento mentale” causato dall’eccessiva diffusione delle guide alpinistiche e delle relazioni tecniche di scalata.
In pochi mesi Mountain Wilderness arruola i grandi nomi dell’alpinismo internazionale, dal primo salitore dell’Everest Edmund Hillary al primo scalatore dei quattordici ottomila Reinhold Messner, poi cerca l’azione in grado di calamitare l’attenzione. La scelta cade sulla funivia della Vallée Blanche, nel cuore del Monte Bianco. Il 16 agosto 1988 mi trovo con i piedi sul ghiacciaio e gli occhi per aria. Il commando degli alpinisti è dall’alba al lavoro sulle rocce del Grand Flambeau, dove Messner è stato carrucolato sul pilone volante per calare due corde ad Alessandro Gogna e Roland Losso, che si sono issati con le maniglie jumar raggiungendo i cavi della telecabina e appendendo lo striscione giallo di denuncia: No all’“ottava meraviglia del mondo”. È chiaramente un’azione simbolica, ma viene presa sul serio e si parla di terrorismo e sequestro del bene pubblico. Il mondo della montagna è totalmente impreparato a riflettere sui limiti dello sviluppo. Quasi tutti interpretano la provocazione di Mountain Wilderness come un gesto elitario, lo schiaffo del superuomo, il sadico tentativo di vietare l’alta montagna a chi non ha gambe per raggiungerla.
Sono passati trent’anni e l’11 novembre scorso, sempre a Biella, ci siamo incontrati per commentare il tempo passato e soprattutto per ipotizzare il futuro. Mountain Wilderness continua a essere un movimento di nicchia, che basa la sua forza più sul prestigio che sui numeri. Eppure è ancora lì a scuotere le coscienze. Dopo alcuni anni di battaglie dure e pure, che in parte hanno allontanato i simpatizzanti più moderati, oggi si ripresenta con forze povere ma «colte», con voci di denuncia e di proposta.
A Biella ho detto che c’è serve di nuovo il grido di Mountain Wilderness. In questo delicato momento storico servono parole alte e autorevoli, perché abbiamo perso almeno quindici anni in convegni e chiacchiere improduttive, mentre il mondo è completamente cambiato. Basti pensare alla crisi industriale, al riscaldamento globale, al declino del turismo sciistico. All’inizio degli anni Novanta, con la Convenzione ratificata da tutti i paesi dell’arco alpino, sembrava che il cammino delle Alpi fosse segnato da linee politiche lungimiranti e sostenibili, invece sono ritornate le vecchie parole senza futuro: consumo, valorizzazione, sviluppo. Tutto è cambiato e non è cambiato quasi niente. Abbiamo di nuovo bisogno di fermarci, ragionare, indignarci e ripartire. C’è poco tempo

Paul Cézanne (dicembre 2017)
Nel 1878 Paul Cézanne scrive a Émile Zola:
«Andando a Marsiglia un soggetto abbagliante è apparso da levante: la Sainte-Victoire. Ho detto: Che bel modello!»
A Cézanne non basterà il resto della vita per decifrare la Montagne Sainte-Victoire, scomporne i colori e ricomporli in una tela che assomigli al vero.
«Sono rimasto a lungo senza saper dipingere la Sainte-Victoire – confessa l’artista – perché immaginavo l’ombra concava come uno che non sa vedere, mentre, ecco, guardate, è convessa e fugge dal suo centro. Anziché ritirarsi, l’ombra svanisce e si scioglie nel blu».
Preso dalla smania di capire vuole sapere tutto della montagna che gli ruba il sonno. Vuole conoscerne la geologia, le geometrie, l’origine dei minerali che colorano la terra intorno. E quando crede di avere un quadro dettagliato prova a tradurlo in sentimento artistico:
«Osservate questa Sainte-Victoire. Che impeto, che sete imperiosa di sole, e che malinconia, la sera, quando tutto il peso si placa… Questi blocchi erano fuoco. C’è ancora il fuoco dentro di loro».
Mutano le luci e lui corregge le sfumature, passano le stagioni e non è ancora soddisfatto. Non una ma tante Sainte-Victoire si accumulano nel suo studio di pittore. La Montagne è così cangiante che a ogni alba rinasce diversa dalla sera prima. O sono gli occhi che cambiano? Cézanne non ha più pace:
«Paul dipingeva dal fondo della nebbia, tutto contratto, dopo aver sistemato il suo cavalletto – racconta l’amico Joachim Gasquet –. Aveva il suo modello e dipingeva. Tempo grigio, pallido sorriso, la mite vecchiaia del mondo. E intanto lui dipingeva…»
Non so se Paul Cézanne abbia mai scalato la cima della sua Montagne, io sì. Ci sono andato quando la Francia era il crocevia della nuova arrampicata sportiva e i francesi si divertivano a sbeffeggiare la verticale. La Provenza era il centro della dissacrazione, direi dell’impertinenza, e i muscoli scolpiti dei grimpeurs e delle grimpeuses ci facevano sentire gente di periferia, gracili apprendisti della nuova arrampicata.
Seguendo la marea cosmopolita degli arrampicatori si finì per individuare la via degli Spicchi d’aglio, tre tiri molto sostenuti a destra di uno strapiombo. Una ragazza francese saliva da prima davanti a noi saltando qualche assicurazione, senza mai fermarsi a studiare i passaggi; il suo compagno la raggiunse alla sosta con la corda tesa più che mai, lanciandosi con dei gemiti da un chiodo all’altro. Lei gli dava qualche consiglio annoiato, ma soprattutto gli diceva che era inutile agitarsi se non voleva saltar giù. Un po’ allucinato fui raggiunto da un’altra francese che lasciò il passo al marito sul tiro successivo. Dovetti impegnarmi a fondo sul passaggio chiave che portava alle placche sommitali, mentre tre inglesi ci superavano su una via a fianco.
Ora che sono passati degli anni e ho dovuto gettare molta acqua sulla mia passione per scoprire, come Cézanne, che il fuoco non si spegne mai, ammiro e compatisco l’amore estremo dell’artista per una roccia che per noi era solo un gioco e per lui purissimo tormento. Ora che il tempo ha fatto chiarezza sulle vanità e sulle verità, mi chiedo chi ha scalato davvero la Montagne de Sainte-Victoire? I nostri chiodi o il suo pennello?

Il rifugio Falc e quei doni dimenticati (ottobre 2017)
Rifugiarsi è un termine bello, antico e desueto: vuol dire “trovare riparo”. Il rifugio non è un posto di piacere, ma un luogo di protezione. Nella grande dimensione della montagna, soprattutto quando soffia il vento o picchia il temporale, la presenza di un rifugio significa salvezza, calore e serenità. Nel rifugio ci si può riscaldare, nel rifugio si può passare la notte, nel rifugio ci si può rifugiare. Rifugio è il piatto caldo, la cuccetta pulita, la gente. Rifugio è incontro, condivisione, magari amicizia.
C’è un rifugio alla Bocchetta di Varrone, nelle Orobie, che corrisponde al significato. Il rifugio Falc di Elisa Cielok serve a traversare le dorsali e a salire il Pizzo Tre Signori, ma prima di tutto serve a capire la parola. Anzi due. La parola Falc, che vuol dire Ferant Alpes Letitiam Cordibus: “Arrechino le Alpi gioia ai cuori”, e non è un augurio da poco, e la parola rifugio, che in questo caso corrisponde al senso originario. Non manca niente di quello che serve – ospitalità, calore, gentilezza – e manca tutto quello che non serve: spreco, consumo, eccesso, esibizione. Secondo la giovane Elisa e chi frequenta il suo rifugio c’è un’evidente contraddizione tra la parola abbondanza e la parola rifugio, perché si va in montagna per fuggire dagli eccessi della vita consumistica urbana, cercando, appunto, un rifugio dall’abbondanza. Non per soffrire, al contrario. Si sale per trovare il senso delle cose essenziali, per gustare quei doni di cui non ci accorgiamo più, dei quali abbiamo perso il piacere.
L’acqua, per esempio. Questa è stata una delle estati più calde di sempre. Le piogge sono mancate per tutto il mese di giugno e per buona parte di luglio. In montagna si sono seccate le sorgenti e i rigagnoli di superficie hanno smesso di portare acqua. Il rifugio Gonella sul Monte Bianco è stato chiuso per mancanza di acqua. Il rifugio Falc sulle Orobie, che si trova ai piedi di un colle, e per questo è un luogo predestinato al transito, ha dovuto risparmiare. Chi cucina e ospita come Elisa non si rallegra certo della siccità che rende dura la vita del rifugista, e nemmeno chi si ferma a mangiare e dormire, e vorrebbe bagnarsi la faccia, ma centellinare l’acqua aiuta a capire quanto ne abbiamo bisogno, e quanta ne sprechiamo, e quanto sia più bello averla quando non è scontato che ci sia. Ogni piacere nasce dal desiderio, ed è per questo che la depressione avanza nel mondo di internet: abbiamo tutto, non desideriamo più niente. Specularmente il cercare è uno dei motivi del rifugio moderno: desiderare, cercare e trovare il giusto, senza sprecare.
Conoscendo Elisa Cielok e molti altri rifugisti delle Alpi ho capito che la loro scelta, il loro rispetto, la loro «vocazione» nascono dall’aver provato le contraddizioni e la durezza delle città. Non è vero che in montagna sia tutto più bello, ma neanche in città è così. Bisogna averlo provato, altrimenti si vive di illusioni. Il mondo è duro per tutti e solo chi sceglie di vivere in un luogo e di lavorare per renderlo migliore, ha diritto di considerarsi abitante. Le Alpi non sono dei montanari, così come Venezia non è dei veneziani e il Colosseo non è dei romani. Le bellezze sono di chi le fa belle.

Un Buzzati ancora attuale (agosto 2017)
Lo scrittore che ha amato di più le Dolomiti è stato il bellunese Dino Buzzati (1906-1972), cresciuto sotto i profili dentati della Schiara, la montagna di casa, e perdutamente attratto dalle Pale di San Martino, dove tornava ogni estate, a settembre, con la guida e amico Gabriele Franceschini.
Buzzati è stato stregato come pochi dai contrasti delle Dolomiti, dai toni dolci dell’altopiano delle Pale dopo le emozioni forti della scalata. Si è portato dentro quei paesaggi per tutta la vita e con la memoria di quei paesaggi e di quelle emozioni ha ambientato le novelle e i romanzi. Basta leggere tra le righe e le Dolomiti di Buzzati riappaiono sempre, anche tra i palazzi di una città o dietro le allucinazioni del tenente Drogo perso nello stillicidio del tempo. Le malinconie delle Pale riprendono forma nelle atmosfere sospese de Il deserto dei Tartari, accanto ai ricordi della Val Belluna, alle fortezze naturali di Val Canali e agli scorci remoti di Canàl d’Agordo:
«L’Altopiano s’allarga sconfinato nelle sue grigie lastronate di dossi vallette crepacci costiere rocciose, orlato in fondo dalla frastagliata catena settentrionale delle Pale; ad occidente ci sovrasta la grandiosità della Cima Lastèi, a meridione i profili netti della catena meridionale sopra il gran solco della Val Canali. In fondo a queste cime l’inconfondibile isolato vecchio Sass de Mura. Alla sera, prima di dormire, egli dice: “Mi piace pensare che torniamo sulla Manstorna, spero che la via che mi proponi non sia troppo difficile e che in vetta si possa goder tutto”».
Attraverso la vertigine dell’arrampicata, con la paura che prende allo stomaco quando la parete si mette a girare e il vuoto sembra inghiottire l’alpinista, Buzzati cerca sempre quell’attimo di pace, quell’istante di perfezione che gli sfugge di vetta in vetta, di racconto in racconto. Proprio dopo aver realizzato uno dei sogni più belli, un’ascensione importante come lo spigolo del Velo alla Cima della Madonna, è felice solo a metà e apostrofa l’amico Franceschini: «…e piantala con questa storia degli uccellini! Lo sai meglio di me, no? Li hanno ammazzati tutti, li hanno ammazzati. Li hanno cotti in pentola, quei malnati. E adesso, vedrai, ammazzeranno anche le piante. E non ci saranno più nemmeno i boschi. Credi che non sappia? Qui regneranno soltanto il cemento, l’asfalto, le macchine e la morte. E allora saranno soddisfatti, finalmente».
La sensibilità buzzatiana coglie i rischi del turismo di massa e la fragilità dell’ambiente dolomitico. Quando i “valorizzatori” del territorio minacciano il proseguimento della strada di Misurina verso la Forcella Lavaredo e l’altopiano delle Tre Cime, Dino scrive incollerito sul Corriere della Sera: «Con che vandalico entusiasmo l’immondo coro degli scappamenti devasterà i purissimi silenzi! Sotto le sdegnose rupi, nelle notti di luna, scintilleranno di luminarie al neon le stazioni di servizio».
La carrozzabile si è fermata al rifugio Auronzo, per fortuna, eppure oggi è bene rileggere queste parole. Conosciamo perfettamente le metastasi dello sviluppo illimitato, però abbiamo perso lo sdegno innocente di Buzzati e il candore del suo sguardo innamorato. Siamo assuefatti, quindi in pericolo.

Royal Robbins (giugno 2017)
A metà marzo se n’è andato dopo una lunga malattia lo scalatore statunitense Royal Robbins. Royal era nato in West Virginia nel 1935 ed era un mito dell’arrampicata degli anni Sessanta e Settanta, la “Golden Age” della Yosemite Valley. Aveva conosciuto la montagna da boy scout, campeggiando nelle foreste; era cresciuto come ragazzo e come arrampicatore, aveva scoperto il proprio talento sul granito e aveva aperto memorabili vie sugli immensi muri dell’Half Dome e di El Capitan, e anche sulla parete ovest del Petit Dru, nel massiccio del Monte Bianco. Si era legato ad altri scalatori leggendari come Yvon Chouinard, TM Herbert, Tom Frost, John Harlin e Gary Hemming.
Sotto la spinta culturale di Gian Piero Motti, anche in Italia Robbins era diventato un riferimento carismatico. Vedevamo giustamente in lui il maestro del “clean climbing”, l’arrampicata pulita, perché avevamo letto che «come una singola parola di una poesia, un chiodo da roccia può influenzare l’intera composizione», e che «una prima salita è creazione come lo sono un dipinto o una canzone». Avevamo intuito il concetto e ci era piaciuto. Allo stesso modo vedevamo ingiustamente in Robbins e in tutti i talenti dell’arrampicata californiana dei personaggi rivoluzionari, controcorrente, indomabili distruttori dell’ordine sociale e di ogni retaggio borghese. Nel caso di Robbins era tutto sbagliato, perché Royal non era affatto un rivoluzionario, rispettava l’alpinismo classico europeo e ammirava personaggi come Walter Bonatti, che per molti di noi era il simbolo del “vecchio” alpinismo. Dunque qualcosa non tornava, e lo confermò lo stesso Royal quando venne a Trento dimostrandosi uomo serio, assennato e rispettoso. E per qualcuno fu una delusione.
Il fatto è che Motti cercava nell’arrampicata californiana un appiglio per cambiare le cose nel suo paese, una sorta di legittimazione esterna per rompere con il nostro passato eroico, tanto che nel 1974 scrisse sulla Rivista della Montagna il famoso articolo “Il nuovo mattino” ispirandosi alla via di Harding e Caldwell The wall of the early morning light. Scelse proprio Warren Harding, il trasgressore per eccellenza, l’uomo senza remore, l’avversario naturale di Robbins. Ispirandosi a una proiezione domestica dall’arrampicata d’oltre oceano Gian Piero diede voce, forma e dignità letteraria a una libera forma di scalata europea che non aveva più bisogno della cima. «È vero – scrisse in seguito su “Scandere” – ai piedi della parete si estende la foresta, sopra, usciti dal verticale delle rocce, ti accoglie il pianeggiante altopiano. Ma quando sei impegnato in parete vivi lo stesso “istante” che potresti vivere sul Petit Dru o sulla Civetta. È lo spirito dell’alpinismo californiano. Lo scopo non è raggiungere la vetta, e nemmeno affermare se stessi. L’arrampicata è un mezzo per vivere sensazioni più profonde».
Aveva ragione a metà, perché certi americani come Royal Robbins si fermavano all’altopiano solo quando non c’era la vetta, e puntavano alla cima quando c’era. Esattamente come noi. Invece aveva ragione in pieno quando scriveva, in sintonia con Robbins, che i chiodi fanno la differenza nella scalata. In questo eravamo molto diversi dagli americani, e lo siamo ancora.

Lupo Ligabue (aprile 2017)
Il più famoso è il lupo Ligabue, vittima di un terribile incidente sulla tangenziale di Parma nell’inverno del 2004. Quando guarisce gli zoologi gli fissano al collo un rilevatore satellitare e cominciano a monitorare il suo viaggio verso nord: Toscana, Emilia, Lombardia, Liguria, Piemonte. Nella notte tra il 28 e il 29 settembre Ligabue arriva sulle Alpi Matittime, al confine con la Francia. Il satellite dice che ha percorso cinquecentosessanta chilometri, ma probabilmente ne ha camminati il doppio. Poi viene l’inverno e il segnale luminoso si ferma. E anche la vita di Ligabue. Il 17 febbraio 2005 lo trovano morto in Valle Pesio, sui monti di Mondovì.
Passano gli anni, i lupi aumentano sulle Alpi e molti vengono uccisi dalle auto, dai treni e dai fucili. Il 9 gennaio 2017 si scopre un esemplare morto a Introd, in Valle d’Aosta. Gli agenti del Corpo Forestale dicono che si tratta di una femmina del peso di circa ventotto chilogrammi e ipotizzano che sia stata abbattuta da un colpo d’arma da fuoco, anche se in Italia non si può sparare al lupo. In seguito si appura che è stato un ramo appuntito, ma la faccenda non cambia perché il lupo dà fastidio.
La questione è diventata una specie di referendum all’italiana, con metà «votanti» che lo idealizza e l’altra metà che vorrebbe sterminarlo. I cittadini e gli ambientalisti scorgono nel lupo il romantico abitatore della natura selvaggia, quella natura che loro frequentano soprattutto con la fantasia, mentre i montanari e soprattutto gli allevatori vedono solo un nemico.
Non si può dire che la ragione stia nel mezzo, perché non esiste la posizione di mezzo. Metà da una parte e metà dall’altra, come succede sempre più spesso in politica. Da questione ecologica il lupo è diventato questione ideologica. Visto da sinistra è un simbolo di libertà, visto da destra è un impostore. Visto da sinistra il difensore del lupo è un uomo di pace, visto da destra il giustiziere del lupo è un uomo d’ordine. Ma il lupo non mangia solo cerbiatti e caprioli, sfoltendo i capi in eccesso, il lupo mangia anche le pecore. E allora ecco il problema: come giustificare le pecore sbranate dal lupo? Non c’è figura più pacifica dell’agnello e non c’è immagine più prevaricatrice di chi gli beve sopra al ruscello («superior stabat lupus») eppure lo incolpa di sporcargli l’acqua. La pecora rovescia gli schemi perché rappresenta la parte indifesa e oppressa. Dunque il lupo da che parte sta?
Il lupo non sta da nessuna parte: segue altre leggi e va semplicemente alla ricerca di cibo e spazi aperti. Per questo le Alpi sono ancora il suo habitat naturale, anzi lo sono più di prima grazie all’aumento degli ungulati. Per noi uomini il lupo è una serissima provocazione culturale, perché eravamo convinti di essere rimasti gli unici carnivori nell’Europa super civilizzata al tempo di internet, e invece arriva un selvaggio a scombinarci le certezze. Eravamo certi di aver sottomesso la natura alpina, e invece è bastata qualche decina di lupi su un arco di milleduecento chilometri per ricordarci che la natura è più forte di ogni sicurezza e di ogni tecnologia, perché noi stessi siamo natura e non possiamo sottrarci al confronto. Possiamo sparare, possiamo distruggere, ma non possiamo chiamarci fuori.

Mike Kosterlitz (febbraio 2017)
Nell’autunno del 1972 Gian Piero Motti scopre e sale la parete del Caporal, il piccolo Capitan della Valle Orco.
«Ai piedi della parete si estende la foresta – riconosce Motti – e sopra, usciti dal verticale delle rocce, ti accoglie il pianeggiante altopiano. Ma quando sei impegnato in parete vivi lo stesso “istante” che potresti vivere sul Petit Dru o sulla Civetta. È lo spirito dell’alpinismo californiano.»
Alla fine aggiunge:
«Se qualcuno dirà che questo non è più alpinismo, di certo non ci sentiremo offesi.»
Lo scozzese Mike Kosterlitz, ricercatore al Politecnico di Torino, nel marzo del 1973 scala il diedro centrale della Torre di Aimonin senza usare un solo chiodo. I piemontesi al seguito restano sgomenti, rondini senza ali, finché Kosterlitz mostra loro dei misteriosi blocchetti metallici chiamati nuts, noccioline, che s’incastrano dolci nelle fessure senza far male alla roccia.
Le noccioline sono come le mani di Mike, che nel 1970 ha sbalordito gli indigeni scalando la fessura del sasso spaccato che sta sopra i tornanti di Ceresole Reale. Sette metri impossibili per chi è nato da questa parte della Manica. Per gli otto anni seguenti gli imitatori di Mike si vanno a scornare sulla crepa che sembra nascere dall’erba, ma nessuno riesce a superare i primi centimetri, i più difficili. Le mani e le ambizioni dei ragazzi del Nuovo Mattino scivolano dalle labbra della fessura Kosterlitz, mentre il mito di Mike s’ingigantisce. Ed è un paradosso, perché lui rifiuta i miti ed è appunto ignorandoli che riesce a salire.
La storia non finisce lì. Nell’ottobre del 1973 Gian Carlo Grassi e Danilo Galante scoprono il fratellino del Capitan, il Sergent, e tracciano la via Cannabis su un fessurino che sembra la bava di un serpente. Durante il lungo lavoro di chiodatura, Galante nota la spaccatura diagonale che incide la fascia inferiore del Sergent. Una sciabolata nella roccia. Danilo accetta la sfida e torna a maggio con Roberto Bonelli. Salgono con un incastro epico di braccia e gambe, rischiando la pelle. Nasce la fessura della Disperazione.
Bonelli è chamato “cavallo pazzo”, ma ragiona benissimo. Un’intelligenza fuori dal comune. Nel giugno del 1978 lo portano al prato sotto la Kosterlitz. Lui non c’è mai stato, dice. Indossa i pantaloni di una tuta a righe e una maglia infilata nella tuta. Non ha niente dell’alpinista, e neanche dello scalatore impavido.
«Diavolo di un Mike» pensa Roberto guardando la fessura. Gli piace subito, lo attizza, così ci mette le mani e prova l’incastro. In breve, sotto gli occhi sgomenti dei presenti, aderisce alla crepa e sale in cima al sasso.
«Come hai fatto?» gli chiedono sbalorditi.
«Non saprei» risponde Bonelli.
Passano trentotto anni, una vita. L’11 settembre del 2016 Roberto va a scalare con due compagni sulle placche della Draye, una falesia super attrezzata degli Ecrins. «Posto da pensionati» lo chiama lui. Mentre prepara la corda doppia per la discesa si sbilancia e cade. Muore sul colpo a 62 anni. Un mese dopo Mike Kosterlitz vince il Premio Nobel per la Fisica insieme ai colleghi Thouless e Haldane «per il contributo allo studio della materia esotica nel mondo quantistico e per le scoperte relative alle transizioni topologiche della materia».

Sport estremi (dicembre 2016)
Questi sono pazzi, pensa la gente. Andrebbero rinchiusi. Quest’estate i base jumper hanno dato scandalo con voli funambolici e sacrifici illustri, tra cui quello del fuoriclasse altoatesino Uli Emanuele, ventinove anni, morto durante un salto sulle Alpi svizzere. Cercando di interpretare il fenomeno, i grandi media scrivono generalmente di “sport estremi”, e negli sport estremi della montagna includono l’alpinismo, l’arrampicata, lo sci ripido e il base jumping. Non sono affatto la stessa cosa. Tranne casi eccezionali l’alpinismo è una pratica d’avventura a medio-basso tasso di rischio, l’arrampicata – se protetta da chiodi o tasselli – è uno sport assolutamente sicuro in palestra e quasi sicuro sulla roccia vera, nello sci ripido il rischio aumenta significativamente, ma solo per il base jumping e il volo con la tuta alare si può veramente parlare di pratica estrema, specie se indirizzata a fini pubblicitari e spettacolari. «Volo quasi tutti i giorni» dice in un bellissimo film la campionessa americana Ellen Brennan, «tranne quando devo andare al funerale dei miei amici».
Il base jumping è un’evoluzione del paracadutismo: non ci si butta più dall’aereo ma dalle cime delle pareti o da ogni struttura abbastanza alta da permettere l’apertura della vela. A sua volta la tuta alare è un’evoluzione del base jumping, non tanto per il punto di lancio quanto per la dinamica del volo: non si piomba ma si plana; una specie di membrana sorregge il corpo e permette di scivolare nell’aria. Gli appassionati arrivano qualche volta dal mondo dell’alpinismo e più spesso dal paracadutismo. Sono in aumento, anche se per fortuna resta un’attività di nicchia. Il padre della tuta alare è Patrick de Gayardon, uomo copertina dei rotocalchi francesi degli anni Novanta, che sotto lo sguardo sbalordito delle telecamere sperimentò una tuta capace di contrastare la forza dell’aria realizzando il sogno di Icaro. L’idea gli venne osservando le ali dei pipistrelli, e come un pipistrello Patrick si buttò da un elicottero per planare tra le guglie del Monte Bianco. Infine tirò la cordicella e atterrò con il paracadute.
Oggi ci si butta direttamente dalle montagne confidando di allontanarsi dalla parete planando. Si rasenta l’ostacolo come i falchi, si lambisce la durezza della materia, la si sfiora, e qui sta il pericolo maggiore perché basta uno scarto millimetrico per toccare la roccia e precipitare. Basta muovere un pollice per deviare la traiettoria. Quando si impara a volare a braccia aperte nell’aria nasce la tentazione di sfiorare le cime degli alberi alla velocità di un superleggero o di infilarsi come proiettili nei canaloni di calcare. Tutto sembra possibile, anche l’allucinante passaggio di Uli Emanuele nella cruna di roccia della Lauterbrunnental, dove il campione infilò una fessura larga poco più di un metro a oltre cento chilometri orari. Anche adesso che non c’è più, basta accendere internet per tremare insieme a lui.
Uli sosteneva che dopo migliaia di voli senza incidenti – e che voli! – lui si considerava un saltatore prudente e che le probabilità erano dalla sua parte. Certo non era uno spaccone, e neanche uno sprovveduto. Però praticava uno sport estremo.

Niente donne in parete (ottobre 2016)
Cento anni fa, a Vallada Agordina, nasceva uno dei più grandi talenti dell’arrampicata di sempre: Alvise Andrich. Scalò tre anni soltanto e gli bastarono per lasciare una traccia estrema sulle Dolomiti. Nel 1934 firmò tre vie memorabili: lo spigolo sud ovest della Torre Venezia, la fessura nord ovest della Punta Civetta e la parete sud ovest del Cimon della Pala.
A diciannove anni, quasi a digiuno di montagna, Alvise parte con Furio Bianchet ed Ernani Faè per lo spigolo della Torre Venezia, nel gruppo del Civetta. I due “anziani” non riescono a superare il tratto più strapiombante e allora Alvise chiede timidamente di provare. «Vai pure», rispondono i due. Con uno stile che ha del prodigioso supera in breve il primo salto, ma a metà strapiombo comincia a gridare: «Volo, volo!». Poi si concentra e riparte a piccoli salti, afferrando gli appigli al volo. I due compagni, atterriti, attrezzano il posto di sicurezza con tutti i chiodi disponibili, ripetendosi l’un l’altro: «Quello lì è matto».
Matto, forse; genio, sicuramente. Poco dopo risolve il problema alpinistico del momento sul paretone della Punta Civetta, al primo tentativo, in due giorni, con espedienti temerari e un’arrampicata al limite del possibile, e dopo ancora sale la direttissima del Cimon della Pala, il Cervino delle Dolomiti, con Furio Bianchet e Mary Varale, la donna del sesto grado. Mary riconosce il talento di Alvise e ama la sua ingenua temerarietà.
Nei primi mesi del 1935 Alvise viene candidato alla medaglia d’oro al valore atletico, ma la medaglia gli viene negata dagli organi centrali del Club Alpino Italiano che i gerarchi hanno inchiodato sotto la tutela del CONI e la paternalistica presidenza di Angelo Manaresi. Mary s’indigna e domanda: perché? L’hanno escluso per ragioni politiche? Perché Andrich è solo un ragazzo? Perché scala molto meglio di loro? A pensarci e ripensarci conclude che gli hanno tolto la medaglia perché ha scalato con una donna sul Cimon della Pala. È lei la causa della discriminazione. Lei, donna non gradita.
Allora la signora del sesto grado si siede alla sua scrivania milanese, prende carta penna e calamaio, scrive alcune righe di getto, affranca la busta e spedisce al presidente della sezione di Belluno:
«Sono profondamente disgustata della persecuzione contro di me da quei buffoni della Sede Centrale che hanno negata la medaglia ad Alvise soltanto perché ha avuto la colpa di scegliere come compagna di cordata l’odiata signora Varale. Nelle proposte fatte nel mese di febbraio Alvise c’era; poi hanno fatto i giochi dei bussolotti per lasciarlo fuori… In questa compagnia di ipocriti e di buffoni io non posso più stare, mi dispiace forse di perdere la compagnia dei cari compagni di Belluno, ma non farò più niente in montagna che possa rendere onore al Club Alpino dal quale mi allontano disgustata… Evviva le medaglie d’oro!»
La lettera è datata 20 luglio 1935. Quel giorno, duecentosedici cime e undici anni dopo la prima vetta, cessa l’avventura alpinistica della signora Varale. D’un tratto, a quarant’anni, Mary decide che è l’ora di camminare in piano.
Invece Alvise Andrich diventa pilota di aviazione e si guadagna tre medaglie d’argento per meriti di guerra. Muore nel 1951 durante un’esercitazione aerea.

Salvataggio sul Dru (agosto 2016)
Cinquanta estati fa pioveva e mancavano due anni al Sessantotto. Sul Monte Bianco ci fu una colossale operazione di soccorso. La guglia del Petit Dru fu assediata da due lati – la via normale e la parete nord – e da due “eserciti” – la Scuola Militare e la Compagnia delle Guide – per soccorrere due tedeschi bloccati sulla parete ovest.
Ecco la storia. Il 13 agosto 1966 Schriddel e Ramisch partono per il Dru con l’entusiasmo degli incoscienti. Salgono lentamente e bivaccano due volte nella prima parte dell’itinerario. Non si rendono conto della lunghezza della via e non sanno che la parete è tappezzata di ghiaccio. A ferragosto raggiungono uno dei passaggi storici di Magnone e Berardini: il diedro di novanta metri. Sotto il diedro scoppia un temporale, loro indossano i piumini e si riparano nella tendina. Il 16 il tempo migliora ed è un male, perché i due continuano a salire invece di tornare indietro. Un chiodo cede, Schriddel cade e Ramisch lo trattiene con la corda. Il 17 provano ad affrontare il passaggio del «chiavistello» e la serratura li respinge. Tornano al terrazzino, si appendono ai chiodi e rinunciano. Sono bloccati, non gli resta che aspettare i soccorsi.
La Scuola Militare di Alta Montagna decide di salire per la via comune del Dru, ancorare un argano sulla cima e srotolare un lungo cavo sugli strapiombi. È un’operazione complicata, tipo assedio di guerra, che richiede troppi uomini e attrezzature. Così ne va del tempo prezioso. Il pomeriggio del 18 agosto nevica sopra i tremila metri. Hermann e Heinz affrontano il sesto bivacco. Saranno ancora vivi?
Intanto il beatnik americano Gary Hemming, con i tedeschi Mauch e Bauer, i francesi Bodin e Guillot e l’inglese Burke prende il trenino del Montenvers e si avvia verso la parete. Mick Burke è già sceso in corda doppia dal diedro di novanta metri, dunque si può tentare anche in caso di soccorso. Il problema è scalare la parete con il maltempo; ci vuole fegato a partire per la Ovest sotto la pioggia.
La mattina del 19 il fuoriclasse René Desmaison si precipita all’ufficio delle guide di Chamonix con il collega Mercié. Urla che i militari sono fuori strada e che i due tedeschi non possono più resistere a lungo. Si offre di intervenire, ma l’offerta cade nel vuoto. Allora sbatte la porta e comincia a inseguire Hemming.
S’incontrano il 20 agosto in parete. Desmaison e Hemming raggiungono il diedro di novanta metri di notte, bagnati fradici.
Intanto a Chamonix i capi si parlano, finalmente: capo del soccorso, capo dei militari, capo delle guide, sindaco, eccetera. Decidono di attaccare anche sul fronte della parete nord. Ci saranno sessanta uomini aggrappati alle rocce del Dru.
Quelli della Ovest sono rimasti in quattro e vanno di fretta. Il 21 agosto scalano il diedro e si avvicinano all’altezza dei due naufraghi:
«Come state?», urlano ai tedeschi.
«Gut, gut», risponde Heinz.
È incredibile: sono ancora vivi.
Schriddel e Ramisch abbracciano i salvatori. Ora bisogna solo scendere, calandosi sulle corde come ragni. «Una caduta – scrive Hemming su Paris Match –, una lunga caduta in basso. Discesa verso la terra. Ritorno verso terra».
Alla fine Hemming è l’eroe del Dru, Desmaison è il ribelle. La disubbidienza alla Compagnia delle guide gli costa l’espulsione.

Colombano Romean (giugno 2016)
I montanari dei secoli passati erano più poveri e previdenti di noi. Non sprecavano una goccia d’acqua e incidevano canali nelle rocce per garantire l’approvvigionamento idrico ai pascoli, ai campi e ai villaggi. Per gli alpigiani l’acqua era una risorsa vitale da rispettare e valorizzare sopra ogni altra ricchezza, secondo la logica del risparmio che caratterizzava visioni, economie e culture della civiltà contadina tradizionale. Anche senza condividere la complessa simbologia che ricorre nelle regioni dell’Himalaya, dove le montagne coperte di ghiaccio si identificano con le dee della fertilità, ogni primavera gli abitanti delle Alpi apprezzavano la funzione rigeneratrice dell’acqua.
Resta insuperata l’epopea di Colombano Romean, lo scalpellino della Valle di Susa che traforò seicento metri di roccia sotto i Quattro Denti di Chiomonte per portare l’acqua dai bacini settentrionali al secco versante meridionale.
I terreni a nord di Chiomonte erano sterili e disseccati dal sole, perciò nel 1504 gli abitanti delle frazioni avevano costituito un consorzio per catturare l’acqua dalla vicina conca di Touilles. Ma bisognava farla passare sotto la montagna. Per vent’anni cercarono un uomo abbastanza pazzo da scavare la galleria, finché trovarono uno scalpellino cinquantenne di nome Colombano che aveva fatto pratica in Provenza.
«Faccio io il vostro buco» disse. «Lo faccio da solo.»
Pattuirono due emine di segale per ogni mese di lavoro, vino a sufficienza per tirare avanti quella fatica e attrezzi per lo scavo: punteruoli, scalpelli, un mantice per ossigenare il tunnel e qualche sacco di carbone. All’imbocco della galleria gli costruirono una capannetta con un letto di paglia, una madia e una botte.
«Adesso andate» disse Colombano, «adesso lasciatemi solo.»
Il montanaro cinquantenne picchiò per sette anni prima di vedere la luce oltre la cresta dei Quattro Denti; cavò venti centimetri di pietra al giorno e terminò il lavoro nel 1533; alla consegna ricevette una somma di 1600 fiorini.
Sono passati quasi cinquecento anni e sotto il buco di Colombano si scava un’altra galleria. Una mostruosa talpa meccanica ha già sostituito le braccia dello scalpellino, ma già sappiamo che non basteranno sette anni per vedere la luce oltre la montagna. Ce ne vorranno almeno il triplo, e nessuno oggi può dire come andrà a finire. Lo scavo di Chiomonte è solo un assaggio: un cunicolo di sette chilometri e mezzo con «funzione geognostica, utile a circostanziare il progetto esecutivo», spiegano i tecnici. Traducendo, il piccolo tunnel della Maddalena servirà a carotare il terreno in vista del grande tunnel di oltre cinquanta chilometri tra il Piemonte e la Maurienne, sul versante francese, dove correrà il treno ad alta velocità della linea Torino-Lione: il famigerato TAV.
Secondo il progetto originario il tunnel geognostico si doveva fare più a valle, nei pressi di Venaus, ma tutto è cambiato nell’autunno del 2005 dopo i durissimi scontri tra la polizia e i valsusini ribelli. Ognuno ha le sue ragioni e ormai la disputa tra i sì e i no TAV appare insanabile, ma un rilievo si può fare senza paura di essere smentiti: ai tempi di Colombano Romean le gallerie servivano alla montagna, oggi la attraversano e basta. Per la pianura le Alpi sono una gruviera.

La sfida dell’Eiger (aprile 2016)
Ottant’anni fa, nel buio dei regimi, la parete nord dell’Eiger attira gli sguardi di mezza Europa perché i ragazzi ci muoiono come in guerra.
Il 18 luglio 1936 gli austriaci Edi Rainer e Willy Angerer e i tedeschi Toni Kurz e Andreas Hinterstoisser attaccano la parete davanti ai cannocchiali morbosi dei turisti. Kurz e Hinterstoisser salgono di gran carriera e raggiungono il posto da bivacco sopra il primo scivolo gelato, ma quando si sporgono non vedono più gli austriaci. Angerer è stato colpito da un sasso e sanguina. Allora i tedeschi calano una corda e lo aiutano a raggiungere il terrazzo del bivacco. Buio. Notte. Sipario.
La mattina del 19 gli spettatori e i cronisti scorgono i quattro che riprendono la salita, poi cala la nebbia sulla parete. Non resta che immaginare e sperare. La mattina del 20 offre una schiarita e allora si puntano immediatamente i cannocchiali, ma l’entusiasmo è breve: i ragazzi sono ancora bloccati nel punto in cui morirono Sedlmayr e Mehringer, sopra il secondo nevaio. La cima è lontanissima.
All’alba del terzo giorno i quattro si legano in un’unica cordata e cominciano a calarsi sotto la neve. La situazione è seria ma non disperata, perché a un terzo di parete c’è la finestra della ferrovia che corre nella pancia dell’Eiger. Nell’emergenza si può sgusciare nella galleria. La mattina del 21 il controllore del treno Albert von Allmen chiama dalla finestra e fuori urlano che va tutto bene. Nel pomeriggio richiama e risponde solo il grido disperato di Toni Kurz, l’unico sopravvissuto. Hinterstoisser è precipitato, Angerer è rimasto strangolato dalla corda e Rainer è congelato.
Kurz non ha più chiodi e gli resta solo un pezzo di corda. Un braccio è già rigido per il gelo. Per non addormentarsi pensa a Berchtesgaden e alle sue montagne inondate di sole. Il 22 luglio comincia l’operazione di soccorso. La tempesta ha tappezzato la parete di ghiaccio e soffia un vento polare, da nord. Eppure il ragazzo è ancora vivo e risponde alle domande. «Cala una corda!» gli urlano le guide. «Non ho corda» risponde. C’è solo una via di uscita: tagliare il canapo al quale è legato il cadavere di Angerer, districarne i refoli con la mano sana, legarli e calare ai soccorritori il cordino di fortuna. Toni ci riesce in quattro ore di disperato lavoro e finalmente stabilisce il contatto. «Bravo ragazzo, adesso sei salvo!». Invece è spacciato perché un nodo blocca la calata in corda doppia e il povero Toni muore di sfinimento alle undici e trenta del 22 luglio, appeso a pochi centimetri dalla salvezza.
L’Eiger va su tutti i giornali. La parete è ormai una questione internazionale, ma di un solo colore. Come non era mai successo nella storia delle montagne, la Nordwand divide ideologicamente gli alpinisti, anche se si dichiarano estranei a ogni ideologia. La sfida suicida attrae i giovani che hanno perso ogni libertà tranne quella di scalare e rischiare. La disumana parete dell’Oberland è simbolo di riscatto per i figli delle dittature, mentre lascia indifferenti gli alpinisti dei paesi liberi. È come se il rischio fosse una certificazione di cittadinanza per i giovani cresciuti sotto il nazismo e il fascismo, che non a caso intingono la propaganda di regime nel calamaio della forza e del coraggio.

Quell’anello di corda sulla Tofana (febbraio 2016)
I miti sono un’arma pericolosa. A volte comandano loro. Quando nel 1998 ho pubblicato La guerra di Joseph sapevo di aver reso l’umanità a una vicenda incredibile della Guerra Bianca: l’avventura sulle Tofane di Joseph Gaspard, guida del Cervino, e Ugo Ottolenghi di Vallepiana, nobile fiorentino. Eppure mi mancava una verifica alpinistica. Avevo ricostruito la storia grazie alle testimonianze dei figli di Joseph e alle scarne note di Ugo, che era uomo colto e istruito, ma del fronte di guerra, come tanti reduci, ha lasciato solo vaghi ricordi. Gli era troppo doloroso ricordare. Uno di quei ricordi riguardava la scalata più famosa, il mito, appunto, e diceva così: esattamente cento anni fa, nella primavera del 1916, Gaspard e Vallepiana scalarono il pazzesco camino della Tofana di Rozes per bombardare la postazione austriaca del Castelletto. Sedici giorni di scalata sotto il tiro dei fucili nemici. Gaspard poteva contare solo sulle corde di canapa ammucchiate nei campi militari e su qualche ferro artigianale simile a un chiodo da roccia. Nel mio romanzo storico descrivo l’impresa con uno sforzo di fantasia, perché, lo confesso, non ho avuto l’animo di infilarmi in quel budello orrendo. Solo dopo, con il tempo, mi è venuto il dubbio che il mito avesse prevaricato la realtà, perché mancavano le relazioni dei primi salitori e anche le verifiche dei ripetitori.
Molti anni più tardi, nel 2014, la guida Marcello Cominetti mi comunica che ha ripetuto il camino della Tofana e ha seri dubbi sulla veridicità dell’impresa. Scrive lui stesso su Planet Mountain: «Premetto che per anni avevo cercato informazioni su questa via, ma niente, pareva che nessuno ci fosse stato». Allora ci va lui con suo figlio e arriva a un punto senza uscita: «Da una grossa clessidra penzola scoraggiante un anello di corda di evidente calata. Siamo immersi in una nebbia fitta, si vede a pochi metri, mi infilo sul fondo del camino scomparendo alla vista di mio figlio che tremando dal freddo mi assicura più per dovere che per piacere. La corda scorre a fatica tra gli enormi massi che ingombrano quella porzione scomoda del pianeta e, dopo un po’ di andirivieni precari, decido che su di lì non c’è mai passato nessuno…».
Ci incontriamo a Torino e Marcello mi dice chiaro e tondo che secondo lui non sono mai usciti sulla cima del camino. Mi dà anche una manciata di chiodi e ferri di Gaspard, che conservo ancora sulla mia scrivania. Ma per fortuna Marcello è un testone e nel 2015 torna sul camino: «Il tiro chiave – scrive – lo aggiro sulla destra… Sesto grado. Dove mai saranno passati quei due? Giro la testa come un periscopio scrutando ogni piega della roccia chiaramente rotta dalle frane. A circa sei metri sopra di me, sulla sinistra, pende da uno spuntone proteso sul nulla un anello di corda di canapa con i capi sfrangiati. Una volta la parete passava di là, capisco, e si vede che il crollo ha provocato il vuoto sotto lo spuntone. La storia è tutta vera!».
Marcello mi scrive una mail entusiasta. Ci incontriamo a Genova e, in una bella serata, raccontiamo al pubblico la storia della Tofana. Ora abbiamo tutto: le testimonianze, le prove, le immagini, i dettagli. Gaspard e Vallepiana sono arrivati in cima, e nell’assurdità della guerra è stata l’unica vittoria.