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Rubrica Nel tempo


I termometri del nostro pianeta (dicembre 2018)
Molti luoghi non ci sono più. Il paesaggio romantico della montagna non esiste più. L’ultimo crollo è della notte tra martedì 25 e mercoledì 26 settembre, quando sul Trident, splendido satellite del Mont Blanc du Tacul, massiccio del Monte Bianco, una fetta di granito è crollata cancellando alcune classiche vie di scalata, compresa la storica Lépiney. Per fortuna è successo in piena notte quando gli scalatori dormivano, ma ha fatto più impressione del solito perché i satelliti del Tacul erano sempre stati considerati dagli alpinisti il regno della roccia granitica, appunto, dove la pietra tende al rosso e all’eterno. E invece, come tutte le montagne, sono destinati a ridursi in polvere. Lo stesso è successo in anni recenti sul versante sud del Cervino, dove sono crollati pezzi della via normale, sulla parete ovest del Petit Dru, dove sono scomparsi itinerari mitici come lo spigolo di Walter Bonatti, oppure sul Pizzo Cengalo, dove il versante settentrionale si è sbriciolato in tal misura da raggiungere il fondo della Val Bondasca. Un cataclisma. Succede continuamente sulle Dolomiti, per esempio sulle Cinque Torri che sono diventate quattro, oppure alla testata della splendida Val Fiscalina, vicino alle Tre Cime, Dolomiti di Sesto, che un giorno di terremoto (ma era un enorme distacco roccioso) è stata coperta di polvere bianca. Come un’esplosione nucleare.
Come mai crollano le Dolomiti? Sarà il caldo, sarà l’effetto serra? Sarà Beppe Grillo? Abbiamo risposte scientifiche incontrovertibili. La prima è di natura strutturale, perché le Dolomiti sono tanto belle quanto tenere e inconsistenti, delle fragili scogliere coralline proiettate provvisoriamente nel cielo. Ogni strapiombo è il risultato di un vecchio crollo, le guglie, le torri e i ricami di roccia sono i fantastici effetti dell’erosione. Anche sul granito è così, semplicemente con tempi diversi. La seconda risposta attiene al decennio che sta per finire, che è stato il più caldo della storia, e il calore ha intaccato il permafrost anche a tremila e più metri di altezza, perfino sui versanti più freddi esposti a settentrione. È come se, sciogliendo lo strato di ghiaccio in profondità, sia venuto a mancare il collante che teneva insieme le strutture rocciose.
L’intensificarsi delle frane ci interroga con la forza di un grido disperato sulle conseguenze del riscaldamento globale: la nostra civiltà sarà anche attrezzata per contrastare il freddo con la tecnologia, ma siamo drammaticamente inermi di fronte al caldo made in man che sgretola le rocce e scioglie i ghiacciai. La Terra ha la febbre e le montagne sono i termometri che la misurano.
Il caldo ha conseguenze immediate. Sciolgono i ghiacciai, ridisegnando in brevissimo tempo le cartoline delle Alpi, e crollano le pareti rocciose, modificando la storia della scalata. Non solo perché molte vie non esistono letteralmente più, relegate ai racconti dei primi salitori e alle vecchie guide di alpinismo, ma anche perché non si può più andare in una quantità di posti se si tiene alla pelle. Certi avvicinamenti che una volta erano delle passeggiate sulla neve sono diventati spaventosi equilibrismi in mezzo alle frane e ai detriti; le bianche pareti di ghiaccio sono bianche d’inverno, se va bene, e diventano ghiaia con la primavera. La scalata su ghiaccio è ormai uno sport da cattiva stagione, diventata buona, e l’alta quota va affrontata come fanno gli artificieri sul terreno minato, sempre pronti a un cedimento e a un crollo.
Nella calda estate del 1863 Quintino Sella scriveva all’amico Gastaldi dall’alta Val Varaita: «È una vera crudeltà il venire a te, cui il dovere tenne incatenato sotto quest’afa canicolare in mezzo a carte aride e fastidiose come il polverio che infesta le strade, e parlarti delle impareggiabili soddisfazioni da noi godute appiè delle nevi, tra quel che gli orrori alpini hanno di più sublime e tremendo». Togliendo gli orrori e il sublime ci possiamo ritrovare in questa mail di carta bollata, ma il caldo di Sella era poca cosa in confronto al nostro, sia nei valori assoluti che relativi. Il clima è cambiato velocemente ed è come se la montagna scendesse ogni giorno più in basso, incontro alla città. Lo dicono i fiori che conquistano territori un tempo riservati ai nevai, gli animali che vagano alla ricerca di nuovi equilibri termici e i turisti che scoprono le terre alte. Basterebbe che i cittadini in fuga con le borse frigo si fermassero a dormire una notte. Una soltanto. Decollerebbe l’economia della montagna e i fuggitivi diventerebbero ospiti.
Una leggenda della Valle dell’Orco narra che il ghiacciaio del Forno era un alpeggio verdeggiante di proprietà di tre giovani sorelle. Di colpo una bufera di neve avvolse l’alpeggio e lo trasformò in ghiaccio, le sorelle colte d’improvviso non riuscirono a fuggire e ora dormono l’ultimo sonno nel fondo della conca cristallina. È una delle tante varianti di un mito assai diffuso sulle Alpi occidentali tra il Sei e il Settecento, quando in assenza di fondamenti scientifici si tentò di dare un senso all’avanzata dei ghiacciai oggi nota come Piccola età glaciale: i montanari sarebbero stati puniti da Dio per i loro peccati e condannati a errare nei crepacci in un purgatorio di gelo. Fa molto pensare che gli antenati temessero la discesa dei fiumi gelati fino a farsene una colpa, mentre noi subiamo la salita dello zero termico e l’arretramento delle nevi, sintomi di patologia ambientale, conseguenze dell’effetto serra e rappresentazioni capovolte del caos. I ghiacciai sono diventati un valore positivo per la cultura contemporanea e dovremmo sentirci corresponsabili della loro scomparsa.
Non è ancora così. Non in Italia. Quella montagna non c’è più ma il vecchio pensiero comanda indisturbato, progettando piste di neve artificiale e improbabili eventi olimpici.


Guido Rossa. L’alpinista che sapeva scendere tra gli uomini (ottobre/novembre 2018)
A Torino la stagione del dopoguerra appartiene a una generazione di alpinisti proletari, molto diversi dagli scalatori borghesi del ventennio. Su tutti spicca la personalità di Guido Rossa, classe 1934, il ragazzo-operaio che ha seguito il padre minatore dal Veneto al Piemonte, è entrato in fabbrica in giovane età e ha scoperto la montagna. Guido non ha paura di niente fuorché del conformismo. Non gli basta risolvere i problemi “impossibili” dell’arrampicata, come le spaventose Placche gialle della Rocca Sbarua, sopra Pinerolo; vuole soprattutto sperimentare, stupire, trasgredire, rompere i tabù. Una domenica raggiunge i piedi della via Gervasutti in giacca e cravatta, con le scarpe da città. «Vai a un matrimonio?» chiedono gli amici. «No, vado alla Gerva» risponde serissimo. E così, slegato, sale e ridimensiona il vecchio mito.
Gli danno del matto, ma Rossa ragiona benissimo. Presto scopre che l’amore per la montagna può portare lontano dalle questioni umane, sul pericoloso crinale dei puri e dei superuomini. Verso i trent’anni si trasferisce a Genova e dirotta la passione sulla difesa dei deboli e l’impegno sociale, caricandosi le domande e i problemi dei colleghi operai, lottando in fabbrica e nel sindacato, all’Italsider, infine sacrificandosi a un commando delle Brigate Rosse nel cuore oscuro della città. Come non si era tirato indietro sugli scudi di gneiss della Rocca Sbarua, non esita a denunciare un operaio come lui, Francesco Berardi, sorpreso a distribuire volantini che incitano al terrorismo. «Non possiamo voltarci dall’altra parte» dice. Per quello le BR lo processano, lo condannano e lo uccidono spietatamente, il 24 gennaio 1979.
Quando metto insieme le imprese dello scalatore Rossa con il sacrificio civile dell’operaio, scopro un uomo speciale. Prima che se ne vadano all’altro mondo intervisto i suoi amici di montagna e racconto la vita di Guido su Alp, poi invento uno spettacolo con Giuseppe Cederna. Il nostro ricordo nasce ai piedi delle Placche gialle della Sbarua, nell’accogliente stanzone di Casa Canada, l’architettura di legno di cedro sopravvissuta alle olimpiadi di Torino 2006 e rimontata nel bosco di faggi della Val Noce. L’11 luglio 2015, durante un interminabile tramonto d’estate, Giuseppe e io ci troviamo seduti accanto a un musicista gentile: Gigi Giancursi. Siamo due voci e una chitarra. Vogliamo narrare la storia di Guido Rossa al pubblico degli escursionisti. Non ci interessano le gesta arrampicatorie del protagonista, anche se partiamo proprio dal muro di gneiss che ci sovrasta. Ci interessa il percorso di vita di un comunista particolare, e di un alpinista che ha saputo scendere tra gli uomini.
«Ottavio carissimo, da ormai parecchi anni mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici alpinisti l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza, che ci liberi dal vizio di quella droga che ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio… Anche noi dobbiamo finalmente scendere giù in mezzo agli uomini e lottare con loro, allargare fra tutti gli uomini la nostra solidarietà che porti al raggiungimento di una maggiore giustizia sociale, che lasci una traccia, un segno nella vita di tutti i giorni…»., scrive Rossa in una lettera all’amico Ottavio Bastrenta, nel 1970. Partiamo da quella lettera straordinaria per raccontare una vita divisa tra le pareti e il “consorzio umano”. La lettera a Ottavio è anche lo specchio di un periodo storico e delle sue speranze, dunque incrociamo le riflessioni e le storie di Rossa con riflessioni e storie del nostro tempo, nella convinzione che il messaggio sia nuovamente attuale, attualissimo, perché il mondo capitalistico sta (o dovrebbe) urgentemente interrogarsi sulle sue malattie e sul suo destino, dopo la crisi degli ultimi anni. Giuseppe aggiunge poesia, com’è nelle sue corde; a me basta raccontare i luoghi, le persone e gli avvenimenti di un periodo che ho sfiorato, come ho sfiorato Rossa, anni in cui bisognava scegliere da che parte stare, ma anche saper rifiutare le scelte estreme invocando l’umanità del dialogo e denunciando l’ideologia della violenza.
L’assassinio di Rossa è stato un suicidio per le Brigate Rosse. Ha segnato l’inizio della fine. Dopo la sua morte duecentocinquantamila persone si sono incontrate a Genova sotto la pioggia per manifestare rabbia e solidarietà. In piazza De Ferrari gli operai piangevano il compagno ucciso, il sindacato di Lama faceva tardiva autocritica («se il gesto di Rossa non fosse rimasto isolato, se nel momento più arduo fossimo stati come un solo testimone…»), il presidente Pertini, commosso, invitava al silenzio col dito alzato. L’ispiratore delle BR genovesi Enrico Fenzi scriveva che «qualcosa aveva finito di spezzarsi, senza rimedio: era finito, per molti di quegli operai, un sogno vago e tenace. La confusa, mitica speranza che le Brigate Rosse avevano alimentato, soffiando sulla vecchia brace dell’idea rivoluzionaria, si era spenta».
Gli alpinisti non si sono accorti di nulla, o quasi. I compagni di cordata l’hanno pianto tra Torino e Genova, mentre le istituzioni se ne sono sbarazzate alla svelta. Rossa era scomodo perfino da morto, e anche chi non avrebbe avuto motivo di nascondere la partecipazione stentava a mettere insieme l’alpinista e il sindacalista, l’impavido arrampicatore e la vittima del terrorismo rosso. Era difficile collegare il ragazzo che sbeffeggiava le scuole di alpinismo all’uomo che si era sacrificato per difendere la legalità. Eppure la lezione di Rossa era proprio lì: nel suo pensare libero, nel suo trasgredire onesto.

Sweet e slow, il futuro credibile delle Alpi (ottobre/novembre 2018)
Il Solstizio 2018 è stato celebrato tra il 22 al 24 giugno nell’accogliente piana di Acceglio, in alta Valle Maira, tra gente di diversa età e provenienza geografica, momenti di riflessione politica, esperienze di montagna vissuta, escursioni con le guide tra i valloni e i borghi, una meditazione alle sorgenti del Maira, un incontro letterario e due spettacoli di musica “alpina” tradotta in musica contemporanea. I partecipanti hanno condiviso e firmato il Manifesto del Turismo dolce, che diventa documento ispiratore per gli operatori del turismo, gli amministratori e, speriamo, i politici di ogni provenienza:
«Se la parola “futuro” ha un senso, se siamo disposti a imparare dagli errori del passato, se vogliamo consegnare la biodiversità delle alte terre alle nuove generazioni, dobbiamo ammettere che il turismo alpino è a un bivio. Si tratta di decidere se puntare su un modello realmente sostenibile dal punto di vista ambientale ed economico, oppure sperare ancora nel miracolo dei motori, dei grandi impianti e delle pesanti infrastrutture che consumano le bellezze e i silenzi della montagna, lasciandoci più poveri… Turismo dolce e produzione pulita, in due parole sweet and slow, sono l’unico futuro credibile per le Alpi e per le aree interne del nostro paese».
L’elemento veramente nuovo emerso alla Festa del Solstizio è stata “l’altra Italia”, o l’Italia “interna”, che non luccica e non porta milioni di voti ma rappresenta il futuro del paese, il luogo in cui maturano le idee più appassionate e dove si incontrano le forze più vitali, dai montanari per scelta agli immigrati, dai custodi della tradizione ai motori dell’innovazione. È nelle aree interne, tra montagne boschi e colline, che nascono i migliori progetti di cooperazione, le nuove forme comunitarie, il turismo dolce e la coltivazione biologica, la convivenza tra le persone e l’alleanza con la natura. Non sono più propositi ideali, stanno diventando pratiche reali. È la sperimentazione di un paese che guarda oltre la crisi della fabbrica e il declino dei partiti, praticando vera politica in quel sessanta per cento di territorio rurale, tra borghi dimenticati e terre abbandonate, che ha conservato desiderio di incontro e capacità di progettazione e che, come sottolinea ancora il Manifesto del Turismo dolce, «utilizza e valorizza gli unici beni di cui l’Italia è incredibilmente ricca senza rendersene conto – la natura, la cultura, l’arte e la bellezza – e si sposa con l’agricoltura di qualità».
Come mi ha scritto l’amico professore Antonio De Rossi a festa finita, scusandosi per il paragone un po’ azzardato, talvolta «pare di essere nell’Italia di fine Ottocento: la sinistra storica ha fallito ed emergono le leghe, le società di mutuo soccorso, le cooperative e mille altre forme che reinventano economie, socialità, in stretto rapporto col territorio in cui sono incardinate. Certo, è una lunga marcia non certamente destinata al successo: ripartire dai “margini” per riconquistare il “centro”. Ma d’altronde tanto altro non abbiamo».


Domande scomode sulle Olimpiadi di Torino (agosto/settembre 2018)
A Torino si riparla di Giochi olimpici invernali, insistendo nel citare i benefici giochi del 2006 (in città) e cercando di dimenticare i danni ambientali ed economici del 2006 (sulle Alpi). La politica ha la memoria corta, anche se l’idea di sfruttare una seconda volta degli impianti destinati allo smantellamento può avere qualche fondamento. Meglio insistere dove si è già fatto il danno piuttosto che aggredire altre montagne.
Ma dietro pericolose avventure come quella olimpica dovrebbero maturare altri ragionamenti, possibilmente di lungo respiro. Nel 2006 gli intellettuali più avveduti avevano lanciato domande che aspettano ancora una risposta. Perché Torino – si chiedevano –, metropoli alpina per eccellenza in virtù della sua storia e della sua collocazione geografica, storico centro del Regno alpino di Savoia, culla dello sci e dell’alpinismo, non è ancora (o non è più) percepita come una città delle Alpi? E ancora: perché l’unica metropoli che si affaccia su un terzo di arco alpino, dalle Alpi Marittime al Monte Rosa, ed è posta sull’asse di due arterie stradali come il Fréjus e il Monte Bianco, non è diventata un polo di riferimento culturale e politico per le Alpi “cintura d’Europa”? Infine: perché città e montagna non sono riuscite a superare il braccio di forza tra centro e periferia, elaborando esperienze di dialogo sociale e progetto economico?
L’ultima questione, soprattutto, resta cruciale. Cittadini e montanari – pur legati da fili sempre più stretti: si pensi all’acqua che disseta le città, o ai turisti che salgono sulle Alpi in cerca di boschi e silenzi – non avvertono di far parte di un solo mondo. Spesso i montanari vivono la città come “un luogo a parte”, indifferente e ostile, e i cittadini riducono la montagna all’immagine stereotipata di un bianco “domaine skiable”, o un giardino verde per l’estate, o un museo del passato. La città continua a pensare le Alpi come una seconda casa dove il cittadino non va per confrontarsi con una vita diversa, ma dove si premura di portarsi tutto il possibile dalla pianura, a cominciare dalla cultura del consumo. La città vede se stessa come l’ombelico del potere e il pensiero urbanocentrico porta alla progressiva metropolizzazione del mondo, con l’assimilazione o la desertificazione degli altri territori, le cosiddette “aree interne”. Montagne in testa.
Il fatto nuovo è che questo processo di domesticazione non avviene più con i mezzi “violenti” degli anni sessanta e settanta del Novecento, quando Pasolini denunciava (inascoltato) il genocidio culturale delle nostre terre e la scomparsa della cultura contadina, ma si svolge con strategie nuove, ambigue, sfuggenti e “politicamente corrette”. L’obiettivo è rivendere i valori romantici e spettacolari della montagna spogliandoli da ogni connotato di pericolo, asprezza, disordine, imprevedibilità. È un’onda omologante che esporta ovunque la cultura globale senza tener conto che, pur essendo cittadini di un solo mondo, abitiamo territori, tradizioni e storie molto diverse.


Sulla rotta del «Menelik» l’assurdo squilibrio del mondo (giugno/luglio 2018)
Durante il ventennio fascista gli alpinisti torinesi partivano per Bardonecchia, la sera, con un treno di nome Menelik. «Prendiamo il Menelik», dicevano in dialetto, e solo dopo qualche anno scoprirono perché si chiamava così. L’appellativo esotico risaliva al periodo in cui il negus Menelik e sua moglie, la regina Taitù, andavano a Parigi per le trattative sull’Etiopia. Pare che, arrivando da Roma, prendessero proprio quel treno.
Dalla stazione di Bardonecchia gli alpinisti s’incamminavano a piedi verso la Valle Stretta, dove incombe una grande parete di fattezze dolomitiche. Si chiama ancora oggi parete dei Militi perché ai suoi piedi era stato creato un posto di controllo della Milizia Fascista in cui si alternavano i militari di confine. Chi voleva passare doveva esibire la Carta di Turismo alpino rilasciata dalla Questura di Torino. A partire dal 1936, per gli scalatori subalpini, la Militi diventa la palestra delle palestre, con difficili itinerari firmati Dubosc, Rivero, Castelli, Calosso, Adami, De Rege e Gervasutti, il più forte di tutti. Molti anni dopo su quei calcari si esibisce il fuoriclasse Guido Rossa, antesignano del Nuovo Mattino.
Oggi il posto di frontiera non esiste più, o meglio non esisteva, perché da qualche tempo la porta della Valle Stretta è diventata la via dei rifugiati in fuga verso la Francia. Scendono dal treno alla stazione di Bardonecchia, si dirigono a piedi al Pian del Colle come gli alpinisti di una volta e infilano le rampe del Colle della Scala, che con il gelo può diventare una trappola mortale ma d’estate è un facile valico stradale, più discreto e defilato del Monginevro. Quest’inverno la neve ne ha fermati tanti, e altrettanti sono stati soccorsi, ma con la bella stagione i transiti riprenderanno, e anche la partita a guardia e ladri tra la polizia francese e i fuggitivi. Da quando il valico di Ventimiglia è stato presidiato e blindato, i colli della Scala e del Monginevro sono diventati le vie per la Francia, dove rifugiati mal vestiti, mal calzati e male informati tentano sempre più numerosi la fortuna.
Così le Alpi tornano a essere una frontiera proibita e nuovi ribelli tentano il confine cercando di non farsi prendere. Sono i più improbabili di sempre, gente che non ha mai visto una vera montagna e non ha la più pallida idea di come affrontarla, ma sono anche tra i più convinti, o sconsiderati, perché oltre frontiera sperano di trovare un rifugio. Ce ne sono stati tanti come loro, ma nessuno così disperato e straniero. Nemmeno i valdesi che scappavano dalle carabine dell’esercito sabaudo, i contrabbandieri che passavano per fame, i partigiani che aggiravano l’oppressore, gli ebrei che scappavano dal terrore.
I nuovi fuggiaschi sono i meno alpini di sempre, vengono dall’altra parte del pianeta, e due pezzi di mondo s’incrociano sulle Alpi. Quest’inverno gli sciatori firmati fino al collo giravano al fianco di ragazzi dalla pelle nera, in pantaloni e scarpe di tela, tra Claviere e il Monginevro, dove si palesa l’assurdo disequilibrio del nostro tempo.


La trasgressione è un mezzo, non più il fine (aprile/maggio 2018)
Oltre a quelle fisiche esistono le frontiere temporali. Nella storia dell’alpinismo la frontiera della contemporaneità coincide con il passaggio dal Nuovo Mattino all’arrampicata sportiva, nella seconda metà degli anni Settanta, quando credevamo di essere nel pomeriggio del Sessantotto, pur devastato dalla deriva del terrorismo, e invece era già finito tutto. La fantasia non era più al potere e il mercato stava riprendendosi portafogli e sogni. Pensavamo che l’utopia del Nuovo Mattino avesse aperto un cammino di saghe verticali e invece la favola era terminata.
Vado al Caporal con Andrea Giorda nel 1978, dieci anni dopo il maggio parigino. La primavera dell’arrampicata piemontese è finita da tre anni e sta sfumando anche la sommossa dei Sassisti in Val di Mello. Aldo Moro è stato sequestrato e giustiziato dalle Brigate Rosse. John Travolta e Karen Lynn Gorney hanno conquistato il nuovo e il vecchio continente con La febbre del sabato sera. La gente comincia a pensare che sia meglio andare a ballare che sbattersi per salvare il mondo. La comunità alpinistica è stata attraversata dalle utopie del Nuovo Mattino senza turbamenti. Pochi hanno capito il senso e pochissimi hanno messo il naso in Valle dell’Orco, dove gli stambecchi sono più domestici degli scalatori ribelli. Le creazioni del Circo Volante sono segrete come all’alba del Mattino. Il Caporal e il Sergent sono luoghi mitologici.
Ma il mito finisce lì e solo la Valle conserva l’aura delle cose proibite. Il resto del mondo è ormai secolarizzato. All’epoca non capiamo, crediamo di essere alla fine del vecchio decennio e invece siamo già in quello nuovo, ci siamo dentro fino al collo. Il mercato ha ripreso il controllo sociale. Non c’è più spazio per l’utopia, il dialogo e la solidarietà. Comanda il denaro, senza dubbi né vergogne. Il privato detta legge.
L’alpinismo è di nuovo trasformato e ormai corre dietro allo sport, ma per accorgercene dobbiamo buttare l’occhio oltre la frontiera francese, dove il futuro è arrivato da un pezzo. Il riccio Jean-Marc Boivin sbriciola miti e tempi di scalata e nel 1978 gli si affianca il fuoriclasse Patrick Berhault, un ventunenne del Sud, che precipita per ottocento metri dalla parete est dei Trois Dents du Pelvoux, si spacca un bel po’ di ossa, sopravvive e usa la convalescenza per potenziare gli arti superiori con centinaia di trazioni alla sbarra. Nel 1979 spinge al massimo l’allenamento nelle gole del Verdon, concatenando in giornata l’Eperon Sublime, la Demande, Orni e Luna Bong. Ormai Berhault è un atleta a tempo pieno e si allena di continuo, per molte ore al giorno. Alla fine di giugno si sposta sul Monte Bianco e comincia a stupire. In un mese sale il Supercouloir al Mont Blanc du Tacul in tre ore e mezzo, la parete nord del Pilier d’Angle in tre ore, il couloir nord dei Drus in sei ore e ancora il Pilier d’Angle per la via di Bonatti in un’ora e cinquanta minuti. In agosto si sposta nel Delfinato e ripete la mitica via di Gervasutti all’Ailefroide in tre ore e un quarto. I vecchi tabù sono spazzati per sempre.
Jean-Marc e Patrick non assomigliano ai nostri ribelli del Nuovo Mattino. Sono degli sportivi gentili ed educati; spiriti liberi e refrattari alle ideologie. Scrivono pochissimo e scalano tantissimo. Boivin è un ingegnere di Digione, Berhault è cresciuto tra l’entroterra di Nizza e le Alpi Marittime, non certo nella bambagia, scoprendo prima il mare della montagna. Sono diventati professionisti della scalata per assecondare il talento, non per combattere il mondo. La trasgressione è il mezzo, non più il fine. Il Sessantotto è archiviato. Concluso.