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Prospettive incrociate


Entrambi siamo figli di un tempo che non contiene il suo tempo, di un giorno che non conosce il suo ieri e il suo domani. Forse proprio per questo io e Martino abbiamo imboccato due strade incrociate.
Da bambino la mia nostalgia conteneva immagini di cieli e di odori, di bianchi nubi libere che superassero i confini di quell’incedere torinese così prudente e programmato; la sua malinconia, invece, si spingeva fino a un mondo di uomini e cose, a un sogno di felicità che stava fuori da quella valle chiusa e solitaria. Probabilmente i giochi del nostro pensiero si sono incrociati ai piedi delle montagne, lanciati in direzioni opposte da un amore così simile da sembrare identico.
Eppure siamo figli della stessa epoca, delle facili comunicazioni e degli scambi culturali. Io studiavo storia all’università e Martino raccoglieva la sua storia in ogni filo falciato nel grande prato tra i castagni. Le vie diritte e ordinate della mia città trasudano ancora oggi i sacrifici e gli imbrogli del loro passato, così come le montagne di Martino proiettano oltre le creste, nei tramonti d’estate, la fatica e la pazienza che furono dei suoi antenati. Possibile un simile errore di prospettiva?
Per entrambi è stato un moto di ribellione e di fuga. Io scrollavo le spalle a quella vita cittadina tanto ovattata da coprire il mio grido di libertà. Martino credo rincorresse la stessa libertà, ma nei luoghi, per me tristi, che lo aiutavano a dimenticare le interminabili serate invernali, le poche famiglie rimaste nella sua valle e il denaro delle mie parti che aveva abbagliato le fanciulle del paese. Così io abiurai la mia natura cittadina e lui vendette la sua terra ai nuovi mercanti.
Credevamo di aver trovato per sempre la libertà. Io vissi gli anni più belli correndo come un indiano attraverso boschi e montagne, e inizia ad arrampicarmi sulle rocce seguendo il richiamo pagano della pietra. Martino sfiorò la felicità della gioventù, abbagliato da promesse di benessere e onnipotenza. Furono gli anni più facili, di chi non pensa alla mattina quello che raccoglierà alla sera. Consumavamo orgasmi di beatitudine tra le albe sui ghiacciai e le notti brave sotto le stelle. Io d’estate mi alzavo quando lui finiva la sua lunga giornata di montanaro arricchito, forse ci incrociavamo per le strade buie del paese, ma non sapevamo.
Dopo qualche tempo le mie albe avevano cambiato colore e le sue notti erano sempre più appesantite dal sonno e dall’abitudine. Era curioso quel nostro incedere esperto, quella posizione carismatica, che sulle rocce chi tra la gente. Curioso con una punta di ridicolo, quel fondo di amaro che nessuno notava tranne noi due.
Ormai eravamo due campioni dell’evasione. Io ogni domenica fuggivo le gioie, i dolori e le ingiustizie della mia città, proiettato da un giorno di festa a un altro con lunghi ponti vuoti sulla mia realtà. Martino consumava le sue briciole di felicità ai piedi di case così alte da non riuscire più a vedere le montagne. E intanto si smorzava l’antica illusione di poter essere diversi, come se cultura e impegno non fossero mai esistiti per me, come se tradizione e pace montanara non fossero mai penetrati nell’animo di lui.
Ma probabilmente i giochi del nostro pensiero non avevano superato il piede delle montagne. Per anni avevano veleggiato smarriti in cerca di un significato. Testardi, mentre fugaci immagini di evasione li confondevano e li sopraffacevano, si erano lentamente ripiegati su loro stessi. Pazienti, contro corrente, erano ritornati verso la sorgente che li aveva generati.
… Io e Martino non ci conosciamo; forse, se ci incontrassimo, nemmeno ci capiremmo. Lo riconoscerei negli occhi vivi e testardi, scavati ma non piegati dalle bizzarrie del tempo. E in silenzio incroceremmo i nostri sguardi.