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Quella dell’alpinismo è una storia al maschile. Vi figurano pochissime donne, e sono quasi sempre personaggi eccezionali. Bisogna essere speciali per primeggiare in un universo maschio e maschilista, in cui l’unione della cordata si confonde con il gioco virile e si autentica nella spavalda complicità dei ragazzi a caccia di avventure, nelle spesse allusioni a sfondo sessuale, in quella goliardia intrisa di coraggio e incoscienza che è riservata a chi porta i pantaloni lunghi continuando a comportarsi come quando li aveva corti.
Tra le ragazze speciali che hanno saputo distinguersi nello strano mondo dell’alpinismo c’è certamente la scozzese Una Cameron, che ha viaggiato in quattro continenti con l’animo dell’esploratrice, ha attraversato con gli sci le Alpi occidentali e ha scalato alcune delle vie più difficili del Monte Bianco negli anni tra le due guerre del Novecento, prima che la tecnologia e il turismo ne addomesticassero i versanti ridimensionando un mito geografico. Prima della Seconda guerra mondiale il Monte Bianco era ancora una frontiera misteriosamente lontana, dove si viveva l’isolamento degli avventurieri e si arrampicava con la consapevolezza di essere soli con il proprio destino. Nessun elicottero veniva in aiuto degli alpinisti in difficoltà e le operazioni di soccorso erano affidate alla buona stella.
Leggendo l’avvincente biografia contenuta in queste pagine, in cui lo stile narrativo della biografa si affianca a quello altrettanto colorito e brillante della protagonista, scopriamo almeno due insiemi di motivi per cui, presumibilmente, la signora Una Cameron divenne speciale: uno di nascita e uno di adozione.
Nacque in una famiglia di gente industriosa, agiata e non convenzionale, per la quale il commercio aveva la stessa dignità dell’arte e il viaggio serviva tanto per vendere whisky quanto per acquisire emozioni. Crebbe in un Paese in cui le donne coraggiose avevano più speranze che altrove di inventarsi una vita e farsi rispettare dall’altra metà del mondo scrivendo, viaggiando, amando e scandalizzando. Scoprì un’isola di montagna, Courmayeur, dove viveva gente disponibile e si respirava il fascino delle cose “primitive”, naturali, di una volta. La wilderness dell’alpe e degli alpigiani. Da buona britannica Miss Cameron cercava il suo lembo di terra esotica e lo trovò in cima alla Valle d’Aosta.
E veniamo al motivo di adozione. Miss Una fu in qualche modo adottata dalla comunità locale, costruendo una casa propria ai piedi del Dente del Gigante e diventando amica – non semplicemente cliente – di due guide del Monte Bianco: Edouard Bareux ed Elisée Croux. Qui sta a mio parere una delle grandezze della sua vita instancabile: l’amicizia di una scozzese colta e disinibita con due montanari della Vallée più profonda, la reciproca capacità di parlarsi, capirsi, mettersi in gioco. Anche oggi non sarebbe affatto comune una relazione di questo genere, e meno che mai lo era prima che il turismo portasse sulle montagne la città sovrapponendo le due culture. Nei suoi gustosi diari di alpinismo e di viaggio la Cameron descrive i due compagni d’avventura come dei pari, sia dal punto di vista tecnico che umano, e non si nota alcun atteggiamento di superiorità nel suo essere nata ricca e da famiglia nobile, oppure di inferiorità nell’essere nata donna e cresciuta in pianura.
Evidentemente si creò un’alchimia positiva tra la visione britannica della forestiera e la cultura francofona degli abitanti, al punto che Miss Cameron lasciò la sua magnifica villa alla gente che l’aveva ospitata purché «parlasse francese». È stato un atto conforme a una vita generosa e senza calcoli, che oggi ci consente di ricordarla con un edificio vivo e utile alla collettività degli alpinisti, fascinosa sede della Fondazione Montagna Sicura.